Da L'Unità del 18/07/2005
Un patto di civiltà
di Luigi Manconi
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Proprio ora? Ma proprio proprio ora? Sì, è esattamente questo il momento più opportuno e, oso dire, propizio. Nonostante i luoghi comuni e gli stereotipi, gli allarmi sociali e l’agitazione scomposta degli «imprenditori politici» dell’intolleranza e della paura: nonostante tutto questo, e altro ancora, mai come oggi é urgente e importante affrontare la «questione islamica» per come si presenta in Europa e nel nostro paese. Mai come oggi è cruciale sviluppare un’iniziativa nei confronti dei «musulmani d’Italia».
Era questo il senso di un manifesto, dal titolo «Condividere diritti e doveri», che - a poche settimane dall'11 settembre 2001 - presentammo all'opinione pubblica. Lo firmavano Oscar Luigi Scalfaro e Giulio Andreotti, Susanna Agnelli e Andrea Riccardi e (le vie del Signore sono davvero infinite) il presidente della commissione Esteri del Senato, Fiorello Provera, dirigente della Lega Nord. In quel testo, che venne sottoscritto da migliaia di cittadini italiani, non credenti o credenti di diverse religioni (moltissimi i musulmani), si sosteneva la necessità di «arrivare, in tempi non lunghi, alla firma di un patto giuridico - una intesa - tra lo Stato italiano e le comunità islamiche». In altre parole, «un accordo per disciplinare l'esercizio delle attività di culto e di organizzazione della religione musulmana». Quel patto, se inserito «all'interno di un sistema di rapporti e di vincoli, di doveri e di diritti», può rappresentare «un'importante risorsa di pacificazione». Mi sembra che tutto ciò coincida esattamente con il senso dell'intervista rilasciata ieri da Massimo D'Alema all'Unità: e, in particolare, con quel passaggio: «Sviluppare una politica di amicizia e non di diffidenza nei confronti delle comunità islamiche non è soltanto giusto, ma è anche un fattore di sicurezza». E infatti, aggiunge D'Alema, «una politica di sicurezza è fatta di tante cose: efficienza, repressione, prevenzione, controlli alle frontiere, attività di intelligence, coordinamento delle indagini. Ma è fatta anche di iniziative costruttive verso il mondo islamico che vive da noi».
Ora, capisco bene che tutto ciò possa risultare eccentrico e, comunque, fuori dalla portata di pensatori e statisti come Roberto Calderoli e Roberto Castelli (e ne sono francamente dispiaciuto per loro), ma che dire dell'intera coalizione di centrodestra e dell'Udc e di Alleanza nazionale e di Forza Italia? Il solo Giuseppe Pisanu si arrabatta come gli lasciano fare e come può (a volte con ammirevole determinazione): e già questo fatto dovrebbe risultare illuminante. Pisanu, come l'omologo francese, il ministro degli Interni Nicolas Sarkozy, sa bene - proprio in ragione del suo mestiere - che se il contrasto al terrorismo si affida alla sola repressione è destinato, fatalmente, a fallire. Troppo sfuggente e flessibile, troppo sotterraneo e mimetico è il «partito stragista» perché le sole armi della forza possano sconfiggerlo. Non siamo in presenza, infatti, di «combattenti regolari» e nemmeno di «terroristi classici»: abbiamo a che fare, piuttosto, con la rappresentazione contemporanea di quella tipologia bellica che Carl Schmitt, già negli anni 30, definiva «totale». Appunto, un «terrorismo totale», che presenta alcuni inequivocabili connotati: è de-localizzato, indiscriminato, a-temporale. Ovvero privo di qualunque riferimento a un territorio delimitato; indifferente a qualunque distinzione tra militare e civile e tra «belligerante» e «non belligerante»; e, infine, il suo ritmo d'azione e il suo scadenzario sembrano totalmente indipendenti dai tempi dell'agenda politica dei singoli stati nazionali e degli stessi soggetti sovranazionali, anche quando interferiscono potentemente con essi. Ebbene, l'idea che un nemico di tal fatta possa essere affrontato con gli strumenti della repressione tradizionale e con l'armamentario dello stato (fattosi) autoritario, francamente fa sorridere. I guerrafondai della Lega - tutti militesenti (come chi scrive, peraltro) - che parlano di «stato di guerra» o i commentatori liberal che invocano la «limitazione delle libertà democratiche» rivelano, grottescamente, quanto il loro «cattivismo» sia nutrito di utopie regressive e di civetteria simil-decisionista. Come Eddie Guerriero, in un incontro di wrestling, si concentrano sulla «mossa»: ovvero il messaggio tonitruante, la postura plastico-simbolica, l'ammiccamento ideologico. E - come in un mantra vedico - la dichiarazione rituale e compiaciuta della «fine del multiculturalismo». È curioso: chi, in questi anni, ha lavorato su questi temi ha sempre avuto ritrosìa a utilizzare simili termini perché ne conosce la fatica e l'incerto destino: e, così, «multiculturalismo» viene utilizzato, oggi, solo dai suoi nemici, subalterni persino nel linguaggio e incapaci di offrire una qualunque alternativa di azione, che non sia modellata sulle mosse del terrorismo e ne riproduca la logica. Dunque, il solo dibattito ammesso in materia di lotta al terrorismo sembra una roba da armaioli o da Mondialpol: verte tutto sul volume di fuoco. Ora, ribadito che la questione della sicurezza è cruciale, restano gli interrogativi su quali siano le strategie più efficaci per ridurre e disincentivare il consenso intorno al «partito stragista». È del tutto ovvio che gli attentati di Londra e, in particolare, l'identità degli esecutori sollevino enormi problemi: e proprio su quegli stranieri di seconda e terza generazione che «non sono più» e «non sono ancora». Ovvero che vedono disgregarsi la loro precedente appartenenza (e storia e cultura) e faticano ad acquisire quella nuova (europea, democratica, universalista). In altre parole: non sono più pakistani (o maghrebini) e non sono (non vogliono essere, non possono essere) inglesi o francesi o italiani. La religione - più come sistema di valori che insieme di credenze - appare loro come la sola fonte di identità. Aiutare, per come si può, la maggioranza dei musulmani a sottrarre quella religione a un uso criminale e stragista, non ha nulla a che fare con i buoni sentimenti. Riguarda, piuttosto, la capacita di elaborare strategie di sopravvivenza - intelligenti e razionali - per tempi difficili. Molto difficili.
Era questo il senso di un manifesto, dal titolo «Condividere diritti e doveri», che - a poche settimane dall'11 settembre 2001 - presentammo all'opinione pubblica. Lo firmavano Oscar Luigi Scalfaro e Giulio Andreotti, Susanna Agnelli e Andrea Riccardi e (le vie del Signore sono davvero infinite) il presidente della commissione Esteri del Senato, Fiorello Provera, dirigente della Lega Nord. In quel testo, che venne sottoscritto da migliaia di cittadini italiani, non credenti o credenti di diverse religioni (moltissimi i musulmani), si sosteneva la necessità di «arrivare, in tempi non lunghi, alla firma di un patto giuridico - una intesa - tra lo Stato italiano e le comunità islamiche». In altre parole, «un accordo per disciplinare l'esercizio delle attività di culto e di organizzazione della religione musulmana». Quel patto, se inserito «all'interno di un sistema di rapporti e di vincoli, di doveri e di diritti», può rappresentare «un'importante risorsa di pacificazione». Mi sembra che tutto ciò coincida esattamente con il senso dell'intervista rilasciata ieri da Massimo D'Alema all'Unità: e, in particolare, con quel passaggio: «Sviluppare una politica di amicizia e non di diffidenza nei confronti delle comunità islamiche non è soltanto giusto, ma è anche un fattore di sicurezza». E infatti, aggiunge D'Alema, «una politica di sicurezza è fatta di tante cose: efficienza, repressione, prevenzione, controlli alle frontiere, attività di intelligence, coordinamento delle indagini. Ma è fatta anche di iniziative costruttive verso il mondo islamico che vive da noi».
Ora, capisco bene che tutto ciò possa risultare eccentrico e, comunque, fuori dalla portata di pensatori e statisti come Roberto Calderoli e Roberto Castelli (e ne sono francamente dispiaciuto per loro), ma che dire dell'intera coalizione di centrodestra e dell'Udc e di Alleanza nazionale e di Forza Italia? Il solo Giuseppe Pisanu si arrabatta come gli lasciano fare e come può (a volte con ammirevole determinazione): e già questo fatto dovrebbe risultare illuminante. Pisanu, come l'omologo francese, il ministro degli Interni Nicolas Sarkozy, sa bene - proprio in ragione del suo mestiere - che se il contrasto al terrorismo si affida alla sola repressione è destinato, fatalmente, a fallire. Troppo sfuggente e flessibile, troppo sotterraneo e mimetico è il «partito stragista» perché le sole armi della forza possano sconfiggerlo. Non siamo in presenza, infatti, di «combattenti regolari» e nemmeno di «terroristi classici»: abbiamo a che fare, piuttosto, con la rappresentazione contemporanea di quella tipologia bellica che Carl Schmitt, già negli anni 30, definiva «totale». Appunto, un «terrorismo totale», che presenta alcuni inequivocabili connotati: è de-localizzato, indiscriminato, a-temporale. Ovvero privo di qualunque riferimento a un territorio delimitato; indifferente a qualunque distinzione tra militare e civile e tra «belligerante» e «non belligerante»; e, infine, il suo ritmo d'azione e il suo scadenzario sembrano totalmente indipendenti dai tempi dell'agenda politica dei singoli stati nazionali e degli stessi soggetti sovranazionali, anche quando interferiscono potentemente con essi. Ebbene, l'idea che un nemico di tal fatta possa essere affrontato con gli strumenti della repressione tradizionale e con l'armamentario dello stato (fattosi) autoritario, francamente fa sorridere. I guerrafondai della Lega - tutti militesenti (come chi scrive, peraltro) - che parlano di «stato di guerra» o i commentatori liberal che invocano la «limitazione delle libertà democratiche» rivelano, grottescamente, quanto il loro «cattivismo» sia nutrito di utopie regressive e di civetteria simil-decisionista. Come Eddie Guerriero, in un incontro di wrestling, si concentrano sulla «mossa»: ovvero il messaggio tonitruante, la postura plastico-simbolica, l'ammiccamento ideologico. E - come in un mantra vedico - la dichiarazione rituale e compiaciuta della «fine del multiculturalismo». È curioso: chi, in questi anni, ha lavorato su questi temi ha sempre avuto ritrosìa a utilizzare simili termini perché ne conosce la fatica e l'incerto destino: e, così, «multiculturalismo» viene utilizzato, oggi, solo dai suoi nemici, subalterni persino nel linguaggio e incapaci di offrire una qualunque alternativa di azione, che non sia modellata sulle mosse del terrorismo e ne riproduca la logica. Dunque, il solo dibattito ammesso in materia di lotta al terrorismo sembra una roba da armaioli o da Mondialpol: verte tutto sul volume di fuoco. Ora, ribadito che la questione della sicurezza è cruciale, restano gli interrogativi su quali siano le strategie più efficaci per ridurre e disincentivare il consenso intorno al «partito stragista». È del tutto ovvio che gli attentati di Londra e, in particolare, l'identità degli esecutori sollevino enormi problemi: e proprio su quegli stranieri di seconda e terza generazione che «non sono più» e «non sono ancora». Ovvero che vedono disgregarsi la loro precedente appartenenza (e storia e cultura) e faticano ad acquisire quella nuova (europea, democratica, universalista). In altre parole: non sono più pakistani (o maghrebini) e non sono (non vogliono essere, non possono essere) inglesi o francesi o italiani. La religione - più come sistema di valori che insieme di credenze - appare loro come la sola fonte di identità. Aiutare, per come si può, la maggioranza dei musulmani a sottrarre quella religione a un uso criminale e stragista, non ha nulla a che fare con i buoni sentimenti. Riguarda, piuttosto, la capacita di elaborare strategie di sopravvivenza - intelligenti e razionali - per tempi difficili. Molto difficili.
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