Da Quaderni Radicali del 01/07/2005
Ilaria Alpi: nove anni in cerca di risposte
di Luigi Rintallo
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Dal 20 marzo 1994, il giorno in cui perirono in un attentato in Somalia la giornalista Rai Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin, sono trascorsi più di nove anni. Nove anni in cerca di risposte che forse in pochi hanno dimostrato di voler davvero trovare. Nel corso del convegno “ L’omicidio di Ilaria Alpi: un mistero irrisolto”, promosso da «Quaderni Radicali», è in fondo emerso che attorno alla vicenda prevalgono gli interrogativi. Essi riguardano molteplici aspetti, che investono tanto le indagini giudiziarie quanto i comportamenti assunti in ambito politico e il ruolo svolto dalll’informazione.
Sia gli interventi dei legali del solo accusato dell’omicidio, Hassan, sia quello dell’avvocato di parte civile, che rappresenta la famiglia Alpi, hanno evidenziato i limiti, le forzature, le vere e proprie irregolarità – al limite della violazione della procedura penale – che hanno caratterizzato l’inchiesta e il processo. La semplice esposizione dei fatti ha rivelato lo sconcertante pressappochismo dei rilevamenti operati dagli inquirenti (mancata autopsia, contraddittorietà plateale delle perizie balistiche…), come pure la sostanziale inerzia nell’approfondire le dinamiche dell’agguato. A tutto ciò si deve aggiungere l’uso che è stato fatto dei testimoni durante il processo: a cominciare dalla raccolta delle loro dichiarazioni avvenuta in forme che lasciano più di un dubbio, per finire con il ribaltamento della sentenza di assoluzione per insufficienza di prove di Hassan, sulla base di riconoscimenti “preconfezionati” in Corte di Appello che hanno determinato la condanna all’ergastolo del giovane somalo.
Che dire? Se è vero che sull’operato degli agenti investigativi (polizia e servizi) si addensano nubi polverose, è altrettanto vero che la stessa magistratura si è mossa dando da un lato l’impressione di procedere con ritmi da pachidermi e, dall’altro, di voler modellare una verità forzando i dati oggettivi, sino a sollecitare ed avallare una seconda perizia in netta contraddizione con la prima, che individuava in una pistola l’arma che uccise Ilaria Alpi. Quasi che la vera preoccupazione fosse quella di mettere ogni tassello al suo posto, così da confermare una ricostruzione studiata a tavolino che voleva i giornalisti italiani mitragliati da un commando di guerriglieri. Di solito è rituale esprimere fiducia nei giudici, ma è difficile non rilevare che anche in questo caso – come in tantissimi altri – il grado di efficacia e operatività dell’apparato giudiziario sembra attestarsi su livelli minimi.
Da questo punto di vista, il caso Alpi rappresenta un elemento di contraddizione forte, dal momento che rende palese una insoddisfazione di fondo verso gli inquirenti che se ne sono occupati. Che a manifestarla – in modo più o meno esplicito – siano stati, durante il convegno, oltre ai legali anche gli esponenti politici di sinistra intervenuti, dimostra che il problema giustizia non può essere affrontato sulla base di schieramenti pregiudiziali. Quanti, a sinistra, hanno ritenuto – come ha sottolineato il direttore di «QR» nelle conclusioni – “di salvare i loro precipitati ideologici, rifugiandosi dietro al potere dei magistrati”, prima o poi dovranno fare i conti con questo dato incontrovertibile del sostanziale stato di fallimento dell’ordinamento giudiziario, non in grado di dare soddisfazione al bisogno concreto di giustizia.
Sul fronte politico, il caso Alpi si colloca – come da più parti è stato evidenziato – al centro di un groviglio di interessi che coinvolgono nel suo insieme il complesso sistema di equilibri di potere sul quale si è retto il nostro Paese, durante quest’ultimo mezzo secolo nella cornice del bipolarismo risultato della spartizione operata a Yalta. È significativo che, nel suo intervento, il deputato ds Carlo Leoni si sia rammaricato del fatto che le forze dell’attuale opposizione devono rimproverarsi di non aver fatto abbastanza per scoprire la verità, mentre erano al governo. Dei nove anni trascorsi dal tragico episodio, ben sei hanno visto infatti la sinistra occupare posti di massima responsabilità: dall’inverno 1995 alla primavera 2001, prima nella maggioranza a sostegno del ministero tecnico Dini e quindi direttamente a Palazzo Chigi per tutta la legislatura 1996-2001.
Se davvero, come è emerso dal convegno, vi sono state pressioni durante il processo affinché nemmeno si sfiorassero argomenti ritenuti “pericolosi”, è inevitabile chiedersi chi le abbia esercitate. E, ammesso che non provenissero dalle istituzioni, è quanto mai problematico pensare che al loro interno non vi fossero per lo meno delle “sponde” o chi risultasse sensibile a certi input. Proprio l’on. Carlo Leoni ha rammentato come a funzionari e ufficiali sia stato permesso di non dire la verità, senza subire nessuna conseguenza.
Da parte sua, Franco Oliva – anch’egli bersaglio di un attentato in Somalia nel 1993 e conoscitore dall’interno dei problemi relativi alla cooperazione internazionale – rammenta, nel suo articolo sulla commissione di inchiesta parlamentare che si occupò di malacooperazione, il comportamento omissivo della stessa, i cui lavori – chiusi alla vigilia delle elezioni – non furono ripresi dopo dal nuovo Parlamento a maggioranza ulivista eletto nell’aprile 1996.
Non si può non rimanere impressionati e un po’ interdetti all’ascolto delle parole dell’avvocato Natale Caputo, che – ripetendo quanto detto in Cassazione – ipotizza una “matrice di sinistra” dietro i ritardi e gli intralci che hanno contraddistinto le indagini sul duplice assassinio. Come rilevato da Massimo Bordin, uguale sorpresa avrebbe suscitato un’attribuzione in senso contrario, in assenza di argomentazioni più stringenti. Tuttavia, un fatto pare indubitabile: sul delitto Alpi sono state espresse solidarietà, in molti si sono ripromessi di impegnarsi allo scopo di chiarirne i contorni, ma alla fine gli esiti sono stati quanto mai deludenti. Quasi che l’impegno profuso, anziché produrre l’effetto sperato, fosse in realtà frenato o introducesse a sua volta sabbia nel meccanismo delle indagini. Emblematico, da questo punto di vista, il caso – citato dall’avvocato Caputo – dell’ambasciatore Cassini, inviato in Somalia dal vice-presidente del Consiglio Walter Veltroni per scoprire qualcosa, che procura invece ai magistrati due testimoni rivelatisi poi mendaci.
Il richiamo di questo passaggio ambiguo dell’inchiesta, ma soprattutto l’accostamento del nome di Veltroni ad esso, ha suscitato più di un disappunto nei genitori di Ilaria Alpi. Entrambi, infatti, hanno inteso dissipare ogni eventuale – anche involontaria – ricaduta strumentale, derivante da analisi pregiudiziali o di parte.
Preoccupazione giustificata, dal momento che non esiste atto terroristico per il quale si sia pervenuti a un chiarimento definitivo: e ciò proprio a causa del persistere di una “doppia verità” nella interpretazione che ne è stata data. In generale, accanto alla verità dei fatti si è quasi sempre affiancata – e spesso imposta – un’altra da usarsi come arma politica. Questa verità “altra”, proclamata attraverso un accorto uso dei mezzi informativi o, talora, dalle stesse aule giudiziarie dove si è preferito allestire teoremi anziché cercare prove, non di rado ha prodotto veri e propri depistaggi, che non hanno nulla da invidiare a quelli – per dir così – “istituzionali”.
Non ha fatto eccezione la vicenda di Ilaria Alpi, sulla quale tre giornalisti di «Famiglia Cristiana» (Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari) hanno scritto un libro-reportage edito da Baldini e Castoldi, più volte citato durante il convegno se non altro per la dettagliata ricostruzione. Senza nascondersi dietro un dito, va detto che in questo volume lo scopo fin troppo palese è quello di puntare un indice accusatore contro una serie di soggetti riconducibili – in vario modo – al Partito socialista. A sostegno di questa, che in definitiva è una “interpretazione” altrettanto di parte, gli autori hanno raccolto a piene mani dagli incartamenti di due inchieste dai contorni alquanto confusi come quelle di Castellamare di Stabia sul traffico di armi e di Trapani sull’omicidio Rostagno.
Sulla “scivolosità” delle basi fornite dalle inchieste delle due procure, si è soffermato Massimo Bordin rilevando come, a volte, nella marcia verso verità e giustizia possa capitare di essere appesantiti da vere e proprie zavorre. Anche se questo – ha spiegato –“non inficia necessariamente l’ipotesi di lavoro che vedrebbe l’omicidio di Ilaria al crocevia dei traffici”. Di traffici, in Somalia, se ne erano svolti e si svolgevano ancora nel 1994 parecchi. Lascia, tuttavia, alquanto scettici che in quell’anno ci fossero scrupoli da parte della magistratura a perseguire eventuali responsabilità di “faccendieri” socialisti, dopo che il loro stesso partito di riferimento, secondo gli estensori di questa “vulgata”, nemmeno più esisteva.
Poiché è comunque quanto mai problematico negare che, nell’accertamento dei fatti connessi all’inchiesta giornalistica della Alpi, qualcosa ha funzionato da freno, pare evidente che ciò non poteva essere il risultato di una interdizione promossa dal “potere” socialista. Forse occorrerebbe davvero volgere lo sguardo altrove, se non si vuole rimanere incagliati nella rete delle ricostruzioni parziali e ritardare ulteriormente il processo di chiarificazione. Anche perché quello della cooperazione è un pentolone in cui rimestavano in tanti, se si tiene conto dei molteplici interessi diplomatici, economici, politici e finanche religiosi coinvolti: tutti più che mai desiderosi di veder circoscrivere a un ambito delimitato l’attenzione dell’opinione pubblica, così da distoglierla dalla prospettiva d’insieme. Quel pentolone, a nostro avviso, dovrà essere prima o poi scoperchiato.
Infine, va segnalato un ultimo aspetto: quello di Ilaria Alpi era un giornalismo di inchiesta. L’avvocato di parte civile, Domenico D’Amati, ha rilevato che uccidere un giornalista che fa inchieste è un atto intimidatorio per gli altri e pertanto va considerato al pari del terrorismo, in quanto costituisce una minaccia a un pilastro della democrazia: la libera informazione. Purtroppo, sappiamo bene che il giornalismo italiano è minacciato anche dal suo interno, nel momento in cui privilegia un approccio ai problemi dimensionato sul fragile ed effervescente modello dei rotocalchi. Per di più inquinato da smaccate faziosità e da pericolosi processi di omogeneizzazione, tanto da giustificare l’appellativo di “redazione unica” attribuito ai compilatori delle principali testate giornalistiche, che sostanzialmente si rimpallano reciprocamente la stessa titolazione e lo stesso modo di inquadrare gli argomenti.
In tale contesto non mancano ovviamente le eccezioni, i giornalisti che studiano ed approfondiscono e che non si fermano alla superficie. Vengono in mente i nomi di Walter Tobagi, di Antonio Russo, di Giancarlo Siani e, quindi, di Ilaria Alpi. Ed è singolare come il destino di costoro sia simile e accomunato dalla tragedia di dover essere assassinati a causa del loro lavoro. Forse proprio perché “anomali” all’interno di una corporazione dal profilo sempre più basso, hanno inoltre in comune il fatto di essere stati sì commemorati e lodati (specialmente post mortem), ma attorno ai loro casi non si è manifestato un concreto impegno nel senso della risoluzione dei misteri che li avvolgono. Durante il convegno, l’on. Vincenzo Siniscalchi ha detto di intravedere “una qualche forma di diserzione interna alla corporazione giornalistica”, a proposito dell’inchiesta sul delitto Alpi. Altrettanto può dirsi per gli altri, basti ricordare il lungo silenzio del «Corriere della Sera» che – per anni – evitò perfino di ricordare il suo inviato Tobagi o l’atteggiamento riservato dall’informazione alla notizia dell’uccisione di Antonio Russo. Il che la dice lunga sul grado di tenuta democratica del nostro “quarto potere”.
Sia gli interventi dei legali del solo accusato dell’omicidio, Hassan, sia quello dell’avvocato di parte civile, che rappresenta la famiglia Alpi, hanno evidenziato i limiti, le forzature, le vere e proprie irregolarità – al limite della violazione della procedura penale – che hanno caratterizzato l’inchiesta e il processo. La semplice esposizione dei fatti ha rivelato lo sconcertante pressappochismo dei rilevamenti operati dagli inquirenti (mancata autopsia, contraddittorietà plateale delle perizie balistiche…), come pure la sostanziale inerzia nell’approfondire le dinamiche dell’agguato. A tutto ciò si deve aggiungere l’uso che è stato fatto dei testimoni durante il processo: a cominciare dalla raccolta delle loro dichiarazioni avvenuta in forme che lasciano più di un dubbio, per finire con il ribaltamento della sentenza di assoluzione per insufficienza di prove di Hassan, sulla base di riconoscimenti “preconfezionati” in Corte di Appello che hanno determinato la condanna all’ergastolo del giovane somalo.
Che dire? Se è vero che sull’operato degli agenti investigativi (polizia e servizi) si addensano nubi polverose, è altrettanto vero che la stessa magistratura si è mossa dando da un lato l’impressione di procedere con ritmi da pachidermi e, dall’altro, di voler modellare una verità forzando i dati oggettivi, sino a sollecitare ed avallare una seconda perizia in netta contraddizione con la prima, che individuava in una pistola l’arma che uccise Ilaria Alpi. Quasi che la vera preoccupazione fosse quella di mettere ogni tassello al suo posto, così da confermare una ricostruzione studiata a tavolino che voleva i giornalisti italiani mitragliati da un commando di guerriglieri. Di solito è rituale esprimere fiducia nei giudici, ma è difficile non rilevare che anche in questo caso – come in tantissimi altri – il grado di efficacia e operatività dell’apparato giudiziario sembra attestarsi su livelli minimi.
Da questo punto di vista, il caso Alpi rappresenta un elemento di contraddizione forte, dal momento che rende palese una insoddisfazione di fondo verso gli inquirenti che se ne sono occupati. Che a manifestarla – in modo più o meno esplicito – siano stati, durante il convegno, oltre ai legali anche gli esponenti politici di sinistra intervenuti, dimostra che il problema giustizia non può essere affrontato sulla base di schieramenti pregiudiziali. Quanti, a sinistra, hanno ritenuto – come ha sottolineato il direttore di «QR» nelle conclusioni – “di salvare i loro precipitati ideologici, rifugiandosi dietro al potere dei magistrati”, prima o poi dovranno fare i conti con questo dato incontrovertibile del sostanziale stato di fallimento dell’ordinamento giudiziario, non in grado di dare soddisfazione al bisogno concreto di giustizia.
Sul fronte politico, il caso Alpi si colloca – come da più parti è stato evidenziato – al centro di un groviglio di interessi che coinvolgono nel suo insieme il complesso sistema di equilibri di potere sul quale si è retto il nostro Paese, durante quest’ultimo mezzo secolo nella cornice del bipolarismo risultato della spartizione operata a Yalta. È significativo che, nel suo intervento, il deputato ds Carlo Leoni si sia rammaricato del fatto che le forze dell’attuale opposizione devono rimproverarsi di non aver fatto abbastanza per scoprire la verità, mentre erano al governo. Dei nove anni trascorsi dal tragico episodio, ben sei hanno visto infatti la sinistra occupare posti di massima responsabilità: dall’inverno 1995 alla primavera 2001, prima nella maggioranza a sostegno del ministero tecnico Dini e quindi direttamente a Palazzo Chigi per tutta la legislatura 1996-2001.
Se davvero, come è emerso dal convegno, vi sono state pressioni durante il processo affinché nemmeno si sfiorassero argomenti ritenuti “pericolosi”, è inevitabile chiedersi chi le abbia esercitate. E, ammesso che non provenissero dalle istituzioni, è quanto mai problematico pensare che al loro interno non vi fossero per lo meno delle “sponde” o chi risultasse sensibile a certi input. Proprio l’on. Carlo Leoni ha rammentato come a funzionari e ufficiali sia stato permesso di non dire la verità, senza subire nessuna conseguenza.
Da parte sua, Franco Oliva – anch’egli bersaglio di un attentato in Somalia nel 1993 e conoscitore dall’interno dei problemi relativi alla cooperazione internazionale – rammenta, nel suo articolo sulla commissione di inchiesta parlamentare che si occupò di malacooperazione, il comportamento omissivo della stessa, i cui lavori – chiusi alla vigilia delle elezioni – non furono ripresi dopo dal nuovo Parlamento a maggioranza ulivista eletto nell’aprile 1996.
Non si può non rimanere impressionati e un po’ interdetti all’ascolto delle parole dell’avvocato Natale Caputo, che – ripetendo quanto detto in Cassazione – ipotizza una “matrice di sinistra” dietro i ritardi e gli intralci che hanno contraddistinto le indagini sul duplice assassinio. Come rilevato da Massimo Bordin, uguale sorpresa avrebbe suscitato un’attribuzione in senso contrario, in assenza di argomentazioni più stringenti. Tuttavia, un fatto pare indubitabile: sul delitto Alpi sono state espresse solidarietà, in molti si sono ripromessi di impegnarsi allo scopo di chiarirne i contorni, ma alla fine gli esiti sono stati quanto mai deludenti. Quasi che l’impegno profuso, anziché produrre l’effetto sperato, fosse in realtà frenato o introducesse a sua volta sabbia nel meccanismo delle indagini. Emblematico, da questo punto di vista, il caso – citato dall’avvocato Caputo – dell’ambasciatore Cassini, inviato in Somalia dal vice-presidente del Consiglio Walter Veltroni per scoprire qualcosa, che procura invece ai magistrati due testimoni rivelatisi poi mendaci.
Il richiamo di questo passaggio ambiguo dell’inchiesta, ma soprattutto l’accostamento del nome di Veltroni ad esso, ha suscitato più di un disappunto nei genitori di Ilaria Alpi. Entrambi, infatti, hanno inteso dissipare ogni eventuale – anche involontaria – ricaduta strumentale, derivante da analisi pregiudiziali o di parte.
Preoccupazione giustificata, dal momento che non esiste atto terroristico per il quale si sia pervenuti a un chiarimento definitivo: e ciò proprio a causa del persistere di una “doppia verità” nella interpretazione che ne è stata data. In generale, accanto alla verità dei fatti si è quasi sempre affiancata – e spesso imposta – un’altra da usarsi come arma politica. Questa verità “altra”, proclamata attraverso un accorto uso dei mezzi informativi o, talora, dalle stesse aule giudiziarie dove si è preferito allestire teoremi anziché cercare prove, non di rado ha prodotto veri e propri depistaggi, che non hanno nulla da invidiare a quelli – per dir così – “istituzionali”.
Non ha fatto eccezione la vicenda di Ilaria Alpi, sulla quale tre giornalisti di «Famiglia Cristiana» (Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari) hanno scritto un libro-reportage edito da Baldini e Castoldi, più volte citato durante il convegno se non altro per la dettagliata ricostruzione. Senza nascondersi dietro un dito, va detto che in questo volume lo scopo fin troppo palese è quello di puntare un indice accusatore contro una serie di soggetti riconducibili – in vario modo – al Partito socialista. A sostegno di questa, che in definitiva è una “interpretazione” altrettanto di parte, gli autori hanno raccolto a piene mani dagli incartamenti di due inchieste dai contorni alquanto confusi come quelle di Castellamare di Stabia sul traffico di armi e di Trapani sull’omicidio Rostagno.
Sulla “scivolosità” delle basi fornite dalle inchieste delle due procure, si è soffermato Massimo Bordin rilevando come, a volte, nella marcia verso verità e giustizia possa capitare di essere appesantiti da vere e proprie zavorre. Anche se questo – ha spiegato –“non inficia necessariamente l’ipotesi di lavoro che vedrebbe l’omicidio di Ilaria al crocevia dei traffici”. Di traffici, in Somalia, se ne erano svolti e si svolgevano ancora nel 1994 parecchi. Lascia, tuttavia, alquanto scettici che in quell’anno ci fossero scrupoli da parte della magistratura a perseguire eventuali responsabilità di “faccendieri” socialisti, dopo che il loro stesso partito di riferimento, secondo gli estensori di questa “vulgata”, nemmeno più esisteva.
Poiché è comunque quanto mai problematico negare che, nell’accertamento dei fatti connessi all’inchiesta giornalistica della Alpi, qualcosa ha funzionato da freno, pare evidente che ciò non poteva essere il risultato di una interdizione promossa dal “potere” socialista. Forse occorrerebbe davvero volgere lo sguardo altrove, se non si vuole rimanere incagliati nella rete delle ricostruzioni parziali e ritardare ulteriormente il processo di chiarificazione. Anche perché quello della cooperazione è un pentolone in cui rimestavano in tanti, se si tiene conto dei molteplici interessi diplomatici, economici, politici e finanche religiosi coinvolti: tutti più che mai desiderosi di veder circoscrivere a un ambito delimitato l’attenzione dell’opinione pubblica, così da distoglierla dalla prospettiva d’insieme. Quel pentolone, a nostro avviso, dovrà essere prima o poi scoperchiato.
Infine, va segnalato un ultimo aspetto: quello di Ilaria Alpi era un giornalismo di inchiesta. L’avvocato di parte civile, Domenico D’Amati, ha rilevato che uccidere un giornalista che fa inchieste è un atto intimidatorio per gli altri e pertanto va considerato al pari del terrorismo, in quanto costituisce una minaccia a un pilastro della democrazia: la libera informazione. Purtroppo, sappiamo bene che il giornalismo italiano è minacciato anche dal suo interno, nel momento in cui privilegia un approccio ai problemi dimensionato sul fragile ed effervescente modello dei rotocalchi. Per di più inquinato da smaccate faziosità e da pericolosi processi di omogeneizzazione, tanto da giustificare l’appellativo di “redazione unica” attribuito ai compilatori delle principali testate giornalistiche, che sostanzialmente si rimpallano reciprocamente la stessa titolazione e lo stesso modo di inquadrare gli argomenti.
In tale contesto non mancano ovviamente le eccezioni, i giornalisti che studiano ed approfondiscono e che non si fermano alla superficie. Vengono in mente i nomi di Walter Tobagi, di Antonio Russo, di Giancarlo Siani e, quindi, di Ilaria Alpi. Ed è singolare come il destino di costoro sia simile e accomunato dalla tragedia di dover essere assassinati a causa del loro lavoro. Forse proprio perché “anomali” all’interno di una corporazione dal profilo sempre più basso, hanno inoltre in comune il fatto di essere stati sì commemorati e lodati (specialmente post mortem), ma attorno ai loro casi non si è manifestato un concreto impegno nel senso della risoluzione dei misteri che li avvolgono. Durante il convegno, l’on. Vincenzo Siniscalchi ha detto di intravedere “una qualche forma di diserzione interna alla corporazione giornalistica”, a proposito dell’inchiesta sul delitto Alpi. Altrettanto può dirsi per gli altri, basti ricordare il lungo silenzio del «Corriere della Sera» che – per anni – evitò perfino di ricordare il suo inviato Tobagi o l’atteggiamento riservato dall’informazione alla notizia dell’uccisione di Antonio Russo. Il che la dice lunga sul grado di tenuta democratica del nostro “quarto potere”.
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