Da Il Foglio del 03/06/2005
Originale su http://www.ilfoglio.it/uploads/camillo/solaprofonda.html
Caso Watergate
Sòla profonda
di Christian Rocca
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New York. Siamo sicuri che lo scandalo del Watergate sia stato uno scoop della stampa libera e indipendente? Siamo proprio certi che i bravissimi Bob Woodward e Carl Bernstein abbiano scoperchiato soli soletti il marcio della politica di Washington? Siamo davvero pronti a giurare che Gola Profonda sia colui che ha costretto il presidente Richard Nixon a dimettersi? Se si crede alla retorica dei giornali, sì. Se si crede al film tratto dal libro “Tutti gli uomini del presidente”, la risposta è affermativa. Se si crede alla parabola di Davide contro Golia, e al mito dei buoni col taccuino contro i cattivi col potere, certamente è così. Specialmente ora che Vanity Fair ha rivelato che Gola Profonda era l’ex numero 2 dell’Fbi, cioè Mark Felt, e che il circo mediatico ha ripreso a cantarsela e a suonarsela come se fosse un club di eroi senza macchia e senza paura in lotta contro un avversario monolitico, cinico e baro. Solo che non è così. I conti non tornano. Le date non coincidono. I fatti dimostrano il contrario. Gola Profonda non agì per senso dello Stato, viceversa sarebbe andato a testimoniare davanti al giudice e al Congresso, piuttosto perché non aveva ottenuto il posto di direttore dell’Fbi alla morte di J. Edgar Hoover. Gola Profonda non era nemmeno del tutto anonimo: le trascrizioni dei colloqui alla Casa Bianca, pubblicate l’altro ieri da Slate, svelano che Nixon conosceva la sua indentità fin dall’ottobre del 1972.
Eppure la stampa continua ad autoincensarsi col mito del Watergate e del giornalismo d’inchiesta, una rovina per intere generazioni di cronisti che credono di avere come missione fondamentale quella di costringere alle dimissioni almeno un sottosegretario. La stampa si prende sul serio, alimenta il proprio mito e si autodescrive come il baluardo civile contro il potere costituito. Il più delle volte però è fiction o soltanto verosimiglianza. Lo scandalo del Watergate non è stato scoperto dai due ottimi giornalisti del Washington Post, i quali certamente hanno contribuito a tenere alta l’attenzione sulla vicenda. Ma Nixon non si è affatto dimesso a causa delle rivelazioni di Deep Throat. Lo scandalo, piuttosto, è stato scoperto dall’Fbi. Le indagini sono state condotte dalle agenzie federali. Sono state le stesse istituzioni politiche americane ad arrivare fino al presidente. Il colpo decisivo è stato assestato dai procuratori federali, non dal Washington Post. I particolari del coinvolgimento della Casa Bianca sono noti grazie alle inchieste del Grand Jury e alle audizioni del Congresso, non ai reportage di Bob & Carl. Anzi Woodward e Bernstein non si erano nemmeno accorti dei tentativi di insabbiamento nixoniani. Anche in quel caso fu Golia, cioè il potere, a emendare se stesso. Molto spesso capita così: Abu Ghraib, per esempio. C’è chi crede che gli abusi siano stati scoperti da Seymour Hersh o da altri giornalisti, invece sono stati gli stessi militari a denunciarli e poi è stato il Pentagono a indagare, a raccogliere le fotografie e a stilare i rapporti pubblicati dai giornali.
Sul Watergate, trentatrè anni dopo si ricorda una storia diversa. Sembra che siano stati i due cronisti, con l’aiuto di Gola Profonda, a scoprire che la Casa Bianca aveva inviato cinque persone a piazzare le microspie nella sede del Partito Democratico nel palazzo del Watergate. Sembra che sia stata la stampa a “follow the money” cioè a seguire quei soldi che poi dimostrarono il legame tra i cinque delle microspie e gli uomini di Nixon. Non è così. L’Fbi arrestò subito i responsabili dell’irruzione, individuò immediatamente uno di loro come impiegato del comitato di Nixon, e prima della fine della settimana aveva già scoperto che le banconote da cento dollari trovate nel portafoglio di uno dei cinque provenivano dai contributi elettorali del Comitato per la rielezione del presidente. Woodward e Bernstein lo seppero da una soffiata di un investigatore oltre un mese più tardi e ben dopo che la notizia arrivò al Grand Jury. In poche ore l’Fbi scoprì che i soldi erano gestiti da Gordon Liddy e che il consulente di Nixon, Howard Hunt, faceva parte dell’operazione-microspie. Soltanto alcuni mesi dopo, e solo dopo che qualcuno passò al Post la lista dei testimoni già convocati dai magistrati, Woodward e Bernstein rivelarono l’informazione al pubblico. Insomma, nelle tre settimane successive all’irruzione dentro il Watergate, l’Fbi aveva già tutto in mano, compreso un testimone disposto a collaborare. Il Washington Post non fece altro che anticipare il processo già ben istruito e poi pubblicare il contenuto del “Rapporto 302” preparato dall’Fbi e fatto trapelare da Gola Profonda.
I democratici non aspettarono certo le rivelazioni della stampa per passare al contrattacco. Tre giorni dopo l’irruzione, il partito fece causa al Comitato di Nixon. George McGovern, candidato alla presidenza, ne parlò pubblicamente ogni giorno e assunse un ex investigatore dell’Fbi per indagare sulla storia. Né Bernstein né Woodward scoprirono i tentantivi di insabbiamento della Casa Bianca. La stampa ne scrisse soltanto dopo il processo. La scoperta del “cover up” tentato da Nixon non è merito delle denunce pubbliche dei giornalisti, ma delle pressioni del giudice John Sirica e delle commissioni parlamentari (Sirica fece capire ai cinque che se non avessero collaborato, con ogni probabilità avrebbero trascorso gran parte della loro vita in prigione). I particolari del complotto sono stati svelati al grande pubblico e in diretta televisiva dalle audizioni al Senato. Il ruolo della stampa, al massimo, è stato quello di anticipare di qualche giorno la lista dei convocati alle udienze.
C’è di più. Gli investigatori del Watergate avanzarono subito l’ipotesi che chi aveva passato le informazioni riservate dell’Fbi al Washington Post, lo aveva fatto per scatenare una rivolta contro il direttore Patrick Gray, considerato “troppo liberal”. E magari per convincere Nixon che Gray non era l’uomo adatto a gestire l’Agenzia in un momento così delicato, quindi incapace di proteggere il presidente. Tesi confermata sia dalle trascrizioni di Nixon, sia dall’identità svelata di Gola Profonda. Il Watergate dimostra semmai che la stampa è stata usata come una buca delle lettere, come accade quasi sempre.
Eppure la stampa continua ad autoincensarsi col mito del Watergate e del giornalismo d’inchiesta, una rovina per intere generazioni di cronisti che credono di avere come missione fondamentale quella di costringere alle dimissioni almeno un sottosegretario. La stampa si prende sul serio, alimenta il proprio mito e si autodescrive come il baluardo civile contro il potere costituito. Il più delle volte però è fiction o soltanto verosimiglianza. Lo scandalo del Watergate non è stato scoperto dai due ottimi giornalisti del Washington Post, i quali certamente hanno contribuito a tenere alta l’attenzione sulla vicenda. Ma Nixon non si è affatto dimesso a causa delle rivelazioni di Deep Throat. Lo scandalo, piuttosto, è stato scoperto dall’Fbi. Le indagini sono state condotte dalle agenzie federali. Sono state le stesse istituzioni politiche americane ad arrivare fino al presidente. Il colpo decisivo è stato assestato dai procuratori federali, non dal Washington Post. I particolari del coinvolgimento della Casa Bianca sono noti grazie alle inchieste del Grand Jury e alle audizioni del Congresso, non ai reportage di Bob & Carl. Anzi Woodward e Bernstein non si erano nemmeno accorti dei tentativi di insabbiamento nixoniani. Anche in quel caso fu Golia, cioè il potere, a emendare se stesso. Molto spesso capita così: Abu Ghraib, per esempio. C’è chi crede che gli abusi siano stati scoperti da Seymour Hersh o da altri giornalisti, invece sono stati gli stessi militari a denunciarli e poi è stato il Pentagono a indagare, a raccogliere le fotografie e a stilare i rapporti pubblicati dai giornali.
Sul Watergate, trentatrè anni dopo si ricorda una storia diversa. Sembra che siano stati i due cronisti, con l’aiuto di Gola Profonda, a scoprire che la Casa Bianca aveva inviato cinque persone a piazzare le microspie nella sede del Partito Democratico nel palazzo del Watergate. Sembra che sia stata la stampa a “follow the money” cioè a seguire quei soldi che poi dimostrarono il legame tra i cinque delle microspie e gli uomini di Nixon. Non è così. L’Fbi arrestò subito i responsabili dell’irruzione, individuò immediatamente uno di loro come impiegato del comitato di Nixon, e prima della fine della settimana aveva già scoperto che le banconote da cento dollari trovate nel portafoglio di uno dei cinque provenivano dai contributi elettorali del Comitato per la rielezione del presidente. Woodward e Bernstein lo seppero da una soffiata di un investigatore oltre un mese più tardi e ben dopo che la notizia arrivò al Grand Jury. In poche ore l’Fbi scoprì che i soldi erano gestiti da Gordon Liddy e che il consulente di Nixon, Howard Hunt, faceva parte dell’operazione-microspie. Soltanto alcuni mesi dopo, e solo dopo che qualcuno passò al Post la lista dei testimoni già convocati dai magistrati, Woodward e Bernstein rivelarono l’informazione al pubblico. Insomma, nelle tre settimane successive all’irruzione dentro il Watergate, l’Fbi aveva già tutto in mano, compreso un testimone disposto a collaborare. Il Washington Post non fece altro che anticipare il processo già ben istruito e poi pubblicare il contenuto del “Rapporto 302” preparato dall’Fbi e fatto trapelare da Gola Profonda.
I democratici non aspettarono certo le rivelazioni della stampa per passare al contrattacco. Tre giorni dopo l’irruzione, il partito fece causa al Comitato di Nixon. George McGovern, candidato alla presidenza, ne parlò pubblicamente ogni giorno e assunse un ex investigatore dell’Fbi per indagare sulla storia. Né Bernstein né Woodward scoprirono i tentantivi di insabbiamento della Casa Bianca. La stampa ne scrisse soltanto dopo il processo. La scoperta del “cover up” tentato da Nixon non è merito delle denunce pubbliche dei giornalisti, ma delle pressioni del giudice John Sirica e delle commissioni parlamentari (Sirica fece capire ai cinque che se non avessero collaborato, con ogni probabilità avrebbero trascorso gran parte della loro vita in prigione). I particolari del complotto sono stati svelati al grande pubblico e in diretta televisiva dalle audizioni al Senato. Il ruolo della stampa, al massimo, è stato quello di anticipare di qualche giorno la lista dei convocati alle udienze.
C’è di più. Gli investigatori del Watergate avanzarono subito l’ipotesi che chi aveva passato le informazioni riservate dell’Fbi al Washington Post, lo aveva fatto per scatenare una rivolta contro il direttore Patrick Gray, considerato “troppo liberal”. E magari per convincere Nixon che Gray non era l’uomo adatto a gestire l’Agenzia in un momento così delicato, quindi incapace di proteggere il presidente. Tesi confermata sia dalle trascrizioni di Nixon, sia dall’identità svelata di Gola Profonda. Il Watergate dimostra semmai che la stampa è stata usata come una buca delle lettere, come accade quasi sempre.
Citazioni
Joseph Pulitzer
Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri.
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