Da L'Unità del 03/08/2005
Chi fischia chi scorda
di Marco Travaglio
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Il 2 agosto di ogni anno, puntuale come i temporali di mezza estate, una «disinvolta congrega» di «maleducati», «faziosi», «ineducati», «qualunquisti» affetti da «infantilismo e primitivismo ideologico» si dà convegno a Bologna con la scusa di ricordare la strage del 1980, ma in realtà con il preciso scopo di guastare le vacanze a Ernesto Galli della Loggia.
Il noto pensatore sottovuotospinto ha pazientato per ben 25 anni. Ora ha deciso di dire basta, sulla prima pagina del Corriere della Sera, con un vibrante attacco alla «disinvolta congrega formata da familiari delle vittime, giornalisti “democratici”, magistrati e politici alla ricerca di consensi». La piantino, i farabutti, con l’«ossessiva evocazione degli “ispiratori e mandanti”». La finiscano col «rito dell’invettiva» e con gli «immancabili fischi ai rappresentanti del governo». Non disturbino il manovratore e lascino riposare il pensatore, sennò diventa nervoso e ce lo rimane per tutto l’anno. Perché «a un certo punto il passato va accolto nella memoria per ciò che è stato, con tutte le sue oscurità, ambiguità, contraddizioni». Insomma, «il passato deve passare». Hanno avuto mogli, figli e genitori scannati da quella bomba fascista? Se ne facciano una ragione e l’accolgano nella memoria con tutte le sue oscurità, ambiguità e contraddizioni. Che ci vorrà mai? Invece schiamazzano sotto la Loggia del Galli, gli infantili faziosi. «Si credono esenti da ogni responsabilità per i mali del Paese». Rifiutano di farsi «l’esame di coscienza», per sé e per i loro morti, che vi si sono appositamente sottratti 25 anni fa. Già.
Che ci facevano quegli 85 scioperati tutti insieme alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980? Potevano starsene a casa. Potevano dividersi fra le stazioni di Cesenatico, Terontola e Casalecchio. Invece no, tutti assembrati alla stazione di Bologna alla stessa ora, gli ineducati qualunquisti: e poi a una Mambro e a un Fioravanti non devono prudere le mani. Per lo tsunami son morte ben più di 84 persone, ma in Indonesia non staranno certo a menarla fino al 2029. «Il passato deve passare», quindi per favore dall’anno prossimo aboliamo questa seccante cerimonia del 2 agosto. O facciamo come con Tangentopoli: lasciamo che siano i colpevoli a riscrivere la storia. Una bella orazione di Mambro & Fioravanti e non se ne parli più. O magari del senatore Cossiga, che ci illustrerà la pista islamica spuntata fuori l’altro giorno.
Lasciando Galli Della Loggia e passando alle cose serie, resta la questione dei fischi. Nello speciale galateo tracciato dal regime col filo spinato per delimitare ciò che possiamo fare e ciò che non possiamo fare, il fischio a ministri, sottosegretari, portaborse e affini è severamente proibito. Finora in nessuna democrazia nessuna legge, penale o morale, aveva mai vietato le contestazioni. Che, anzi, sono la regola a teatro, all’opera, ai concerti, allo stadio, in qualunque pubblica manifestazione artistica, sportiva e ludica. Un tempo anzi, quando il politically correct ancora non ammorbava la vita civile, dai loggioni partivano robusti lanci di ortaggi e di materiali organici. Poi ci si limitò a manifestare il proprio disappunto fischiando. Ma non è raro, in Paesi civilissimi come quelli anglosassoni e scandinavi, assistere a lanci di torte contro presidenti e ministri. Nel grande Truman Show berlusconiano, invece, si può scendere in piazza solo per applaudire. Vietato fischiare. Ma non a tutti: solo a chi contesta il regime. Nel qual caso i fischi diventano «odio», «violenza», «demonizzazione», anticamera del terrorismo. Se invece i fischi sono contro gli avversari del regime, tornano a essere quel che sono in ogni Paese serio: un effetto collaterale, sgradevole ma sacrosanto, della democrazia.
Nella campagna elettorale del ’96, in due assemblee della Confcommercio, Prodi si confrontò con Berlusconi e fu sonoramente fischiato. Entusiasmo della stampa e delle tv berlusconiane, nessuno che parlasse di odio. Nel 2002 Giuliano Ferrara invitò i suoi lettori a recarsi al Festival di Sanremo non per fischiare, ma addirittura per «lanciare uova marce» contro Roberto Benigni. Appello caduto ovviamente nel vuoto per mancanza di lettori (ma Benigni, da allora, non è più lo stesso). L’altro giorno, sempre sul Foglio, Antonio Socci invitava i ciellini a fischiare Gianfranco Fini al prossimo Meeting di Rimini, così impara a votare No al referendum. Nessuno, giustamente, ha parlato di odio. Le cronache parlamentari riportano ogni giorno scambi di insulti, quando non di calci e di pugni, fra gli eletti dal popolo. Teodoro Buontempo invita i camerati a «sodomizzare Casini, non in senso metaforico». Carlo Giovanardi tappezza l’Emilia di manifesti che paragonano a Hitler gli avversari della legge sulla fecondazione. Berlusconi e Fini, dopo aver esposto l’Italia al rischio di attentati inviando truppe di occupazione in Iraq, accusano Prodi di esporre l’Italia al rischio di attentati per aver chiamato occupanti gli occupanti. Bossi parla di fucilate e mitragliate da mane a sera, prima e dopo i pasti. Il ministro Calderoli guida cortei con bare per seppellirvi i giudici Papalia e Forleo. Berlusconi insulta da dieci anni i magistrati con ogni sorta di calunnie e accusa l’opposizione di voler seminare «terrore e morte» una volta vinte le elezioni. Taormina va al tribunale di Milano e domanda: «Il giudice Carfì non è ancora morto? Lo odio». Poi, al primo fischio che si leva in lontananza da una piazza, questi raffinati stilnovisti arrotondano la bocca a cul di gallina e fanno gli schizzinosi. «Aiuto, ci odiano, attentato!». E chiamano la pula.
Il rito dell’«unanime condanna ai fischi» è talmente ridicolo che non vi abboccherebbe nemmeno un lontano parente di Giovanardi. Invece abboccano quasi tutti, da destra a sinistra, perché l’impostura è diventata pensiero unico, ripetuta 24 ore su 24 a reti ed edicole unificate. «Non si fischiano i ministri». Per smontarla basterebbe un bimbo che si levasse dal coro per domandare: «E chi l’ha detto? Perché mai non si può fischiare?». Qualcuno dirà: chi fischia «fa il loro gioco», «cade nella trappola» di chi non aspetta altro per scatenare la canea. E chi se ne importa. Tanto, avendo in tasca tutta l’informazione che conta, la canea la scatenano anche se non succede niente. Il rubinetto dello scandalo e dello sdegno l’hanno in mano loro. Lo aprono e lo chiudono a piacimento. Perché mai, allora, cedere al ricatto e rinunciare via via ai nostri elementari diritti civili? Per scansare qualche calunnia che tanto arriva comunque?
Due anni fa, a commemorare la strage, il regime mandò il ministro Lunardi, quello che «con la mafia bisogna convivere». Nel suo discorso agli attoniti bolognesi, sottolineò i danni che la bomba del 1980 aveva causato al materiale rotabile: un incidente ferroviario, ecco. Fu sacrosantamente fischiato, il minimo che si potesse fare. Unanime sdegno del mondo politico. Non per le parole di Lunardi, ma per quei fischi così inurbani. Quest’anno han mandato Tremonti, che andrebbe fischiato solo per la faccia che porta. Ai primi fischi, The Genius ha ironizzato con quella boccuccia da uova fresche: «Bella piazza». E giù altre bordate, liberatorie, sacrosante. Onestamente: che altro si può fare, di nonviolento, quando si ha di fronte un Tremonti, se non fischiare? Naturalmente i fischi non erano soltanto per lui e la sua boccuccia. Ma anche per il governo del tesserato 1816 della loggia P2 (il cui gran maestro, insieme ad altri confratelli, fu condannato per i depistaggi della strage). E per una maggioranza piena di vecchi camerati e nuovi difensori di Mambro & Fioravanti, oltre ad alcuni vecchi amici di Cosa Nostra, l’altra organizzazione terroristica che ha insanguinato l’Italia a suon di stragi (quel Casini che ora parla di «macabro rituale dei fischi» è lo stesso che telefonò macabramente la sua «amicizia e stima» a Dell’Utri alla vigilia della condanna per mafia).
Una maggioranza che ha abolito la commissione Stragi, che fa la guerra alla giustizia e all’antimafia, che si ostina a coprire col segreto di Stato qualcosa che noi non conosciamo, ma che lorsignori devono conoscere benissimo. Ora, che deve mai fare un cittadino comune che vuole semplicemente la verità sui mandanti occulti di quella strage e di tutte le altre? È giusto criticare i fischi. Perché fischiare è troppo poco.
Il noto pensatore sottovuotospinto ha pazientato per ben 25 anni. Ora ha deciso di dire basta, sulla prima pagina del Corriere della Sera, con un vibrante attacco alla «disinvolta congrega formata da familiari delle vittime, giornalisti “democratici”, magistrati e politici alla ricerca di consensi». La piantino, i farabutti, con l’«ossessiva evocazione degli “ispiratori e mandanti”». La finiscano col «rito dell’invettiva» e con gli «immancabili fischi ai rappresentanti del governo». Non disturbino il manovratore e lascino riposare il pensatore, sennò diventa nervoso e ce lo rimane per tutto l’anno. Perché «a un certo punto il passato va accolto nella memoria per ciò che è stato, con tutte le sue oscurità, ambiguità, contraddizioni». Insomma, «il passato deve passare». Hanno avuto mogli, figli e genitori scannati da quella bomba fascista? Se ne facciano una ragione e l’accolgano nella memoria con tutte le sue oscurità, ambiguità e contraddizioni. Che ci vorrà mai? Invece schiamazzano sotto la Loggia del Galli, gli infantili faziosi. «Si credono esenti da ogni responsabilità per i mali del Paese». Rifiutano di farsi «l’esame di coscienza», per sé e per i loro morti, che vi si sono appositamente sottratti 25 anni fa. Già.
Che ci facevano quegli 85 scioperati tutti insieme alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980? Potevano starsene a casa. Potevano dividersi fra le stazioni di Cesenatico, Terontola e Casalecchio. Invece no, tutti assembrati alla stazione di Bologna alla stessa ora, gli ineducati qualunquisti: e poi a una Mambro e a un Fioravanti non devono prudere le mani. Per lo tsunami son morte ben più di 84 persone, ma in Indonesia non staranno certo a menarla fino al 2029. «Il passato deve passare», quindi per favore dall’anno prossimo aboliamo questa seccante cerimonia del 2 agosto. O facciamo come con Tangentopoli: lasciamo che siano i colpevoli a riscrivere la storia. Una bella orazione di Mambro & Fioravanti e non se ne parli più. O magari del senatore Cossiga, che ci illustrerà la pista islamica spuntata fuori l’altro giorno.
Lasciando Galli Della Loggia e passando alle cose serie, resta la questione dei fischi. Nello speciale galateo tracciato dal regime col filo spinato per delimitare ciò che possiamo fare e ciò che non possiamo fare, il fischio a ministri, sottosegretari, portaborse e affini è severamente proibito. Finora in nessuna democrazia nessuna legge, penale o morale, aveva mai vietato le contestazioni. Che, anzi, sono la regola a teatro, all’opera, ai concerti, allo stadio, in qualunque pubblica manifestazione artistica, sportiva e ludica. Un tempo anzi, quando il politically correct ancora non ammorbava la vita civile, dai loggioni partivano robusti lanci di ortaggi e di materiali organici. Poi ci si limitò a manifestare il proprio disappunto fischiando. Ma non è raro, in Paesi civilissimi come quelli anglosassoni e scandinavi, assistere a lanci di torte contro presidenti e ministri. Nel grande Truman Show berlusconiano, invece, si può scendere in piazza solo per applaudire. Vietato fischiare. Ma non a tutti: solo a chi contesta il regime. Nel qual caso i fischi diventano «odio», «violenza», «demonizzazione», anticamera del terrorismo. Se invece i fischi sono contro gli avversari del regime, tornano a essere quel che sono in ogni Paese serio: un effetto collaterale, sgradevole ma sacrosanto, della democrazia.
Nella campagna elettorale del ’96, in due assemblee della Confcommercio, Prodi si confrontò con Berlusconi e fu sonoramente fischiato. Entusiasmo della stampa e delle tv berlusconiane, nessuno che parlasse di odio. Nel 2002 Giuliano Ferrara invitò i suoi lettori a recarsi al Festival di Sanremo non per fischiare, ma addirittura per «lanciare uova marce» contro Roberto Benigni. Appello caduto ovviamente nel vuoto per mancanza di lettori (ma Benigni, da allora, non è più lo stesso). L’altro giorno, sempre sul Foglio, Antonio Socci invitava i ciellini a fischiare Gianfranco Fini al prossimo Meeting di Rimini, così impara a votare No al referendum. Nessuno, giustamente, ha parlato di odio. Le cronache parlamentari riportano ogni giorno scambi di insulti, quando non di calci e di pugni, fra gli eletti dal popolo. Teodoro Buontempo invita i camerati a «sodomizzare Casini, non in senso metaforico». Carlo Giovanardi tappezza l’Emilia di manifesti che paragonano a Hitler gli avversari della legge sulla fecondazione. Berlusconi e Fini, dopo aver esposto l’Italia al rischio di attentati inviando truppe di occupazione in Iraq, accusano Prodi di esporre l’Italia al rischio di attentati per aver chiamato occupanti gli occupanti. Bossi parla di fucilate e mitragliate da mane a sera, prima e dopo i pasti. Il ministro Calderoli guida cortei con bare per seppellirvi i giudici Papalia e Forleo. Berlusconi insulta da dieci anni i magistrati con ogni sorta di calunnie e accusa l’opposizione di voler seminare «terrore e morte» una volta vinte le elezioni. Taormina va al tribunale di Milano e domanda: «Il giudice Carfì non è ancora morto? Lo odio». Poi, al primo fischio che si leva in lontananza da una piazza, questi raffinati stilnovisti arrotondano la bocca a cul di gallina e fanno gli schizzinosi. «Aiuto, ci odiano, attentato!». E chiamano la pula.
Il rito dell’«unanime condanna ai fischi» è talmente ridicolo che non vi abboccherebbe nemmeno un lontano parente di Giovanardi. Invece abboccano quasi tutti, da destra a sinistra, perché l’impostura è diventata pensiero unico, ripetuta 24 ore su 24 a reti ed edicole unificate. «Non si fischiano i ministri». Per smontarla basterebbe un bimbo che si levasse dal coro per domandare: «E chi l’ha detto? Perché mai non si può fischiare?». Qualcuno dirà: chi fischia «fa il loro gioco», «cade nella trappola» di chi non aspetta altro per scatenare la canea. E chi se ne importa. Tanto, avendo in tasca tutta l’informazione che conta, la canea la scatenano anche se non succede niente. Il rubinetto dello scandalo e dello sdegno l’hanno in mano loro. Lo aprono e lo chiudono a piacimento. Perché mai, allora, cedere al ricatto e rinunciare via via ai nostri elementari diritti civili? Per scansare qualche calunnia che tanto arriva comunque?
Due anni fa, a commemorare la strage, il regime mandò il ministro Lunardi, quello che «con la mafia bisogna convivere». Nel suo discorso agli attoniti bolognesi, sottolineò i danni che la bomba del 1980 aveva causato al materiale rotabile: un incidente ferroviario, ecco. Fu sacrosantamente fischiato, il minimo che si potesse fare. Unanime sdegno del mondo politico. Non per le parole di Lunardi, ma per quei fischi così inurbani. Quest’anno han mandato Tremonti, che andrebbe fischiato solo per la faccia che porta. Ai primi fischi, The Genius ha ironizzato con quella boccuccia da uova fresche: «Bella piazza». E giù altre bordate, liberatorie, sacrosante. Onestamente: che altro si può fare, di nonviolento, quando si ha di fronte un Tremonti, se non fischiare? Naturalmente i fischi non erano soltanto per lui e la sua boccuccia. Ma anche per il governo del tesserato 1816 della loggia P2 (il cui gran maestro, insieme ad altri confratelli, fu condannato per i depistaggi della strage). E per una maggioranza piena di vecchi camerati e nuovi difensori di Mambro & Fioravanti, oltre ad alcuni vecchi amici di Cosa Nostra, l’altra organizzazione terroristica che ha insanguinato l’Italia a suon di stragi (quel Casini che ora parla di «macabro rituale dei fischi» è lo stesso che telefonò macabramente la sua «amicizia e stima» a Dell’Utri alla vigilia della condanna per mafia).
Una maggioranza che ha abolito la commissione Stragi, che fa la guerra alla giustizia e all’antimafia, che si ostina a coprire col segreto di Stato qualcosa che noi non conosciamo, ma che lorsignori devono conoscere benissimo. Ora, che deve mai fare un cittadino comune che vuole semplicemente la verità sui mandanti occulti di quella strage e di tutte le altre? È giusto criticare i fischi. Perché fischiare è troppo poco.
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