Da Avvenire del 18/03/2004
Caso Alpi, l'ombra di due segreti
Il duplice omicidio a Mogadiscio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin resta avvolto da una coltre di segretezza con cui si misura ora la commissione d’inchiesta
di Antonio Maria Mira
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Una fonte preziosa sulla quale cala un "segreto di Stato" e un'autopsia non eseguita per "ordini superiori". A dieci anni dall'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin compaiono nuovi e inquietanti misteri. La conferma del ruolo non ancora completamente chiarito dei servizi segreti e anche della "fretta" con la quale il caso andava chiuso. Dubbi e sospetti confermati dal fatto che ben due commissioni parlamentari si stanno occupando di quanto accadde il 20 marzo 1994 e delle difficili inchieste giudiziarie. E proprio dalle commissioni arrivano le due "novità" che siamo in grado di rivelare.
Un'autopsia da non fare. Il primo mistero è di due giorni appena dopo l'agguato a Mogadiscio. Ci si è sempre chiesti come mai, diversamente da quanto accaduto col corpo di Hrovatin, non venne eseguita l'autopsia della Alpi. A dare finalmente una spiegazione è stato il procuratore generale di Roma, Antonio Vecchione nel corso dell'audizione segreta davanti alla commissione di inchiesta sul caso Alpi. L'alto magistrato, da poco passato alla procura generale dopo aver diretto a lungo la procura della Repubblica, ha rivelato che il 16 dicembre 1999 il sostituto Andrea De Gasperis, all'epoca titolare dell'inchiesta, gli scrisse precisando che non poté procedere all'esame autoptico perché la Questura di Roma, da lui incaricata «di provvedere per l'immediata traslazione della salma all'istituto di medicina legale», aveva risposto che «ciò non era possibile per l'imminenza della cerimonia funebre alla quale avrebbero partecipato varie autorità, cerimonia insuscettibile di intralci». Venne eseguita così solo una ricognizione esterna del cadavere (vedi scheda). Cosa avrebbe detto l'autopsia eseguita nell'immediatezza del fatto? Non lo sappiamo. Certo è che, come commenta il sostituto procuratore Franco Ionta, attuale titolare dell'inchiesta, «quanto accaduto allora è perlomeno curioso». Anche lui ascoltato dalla Commissione ha spiegato che «di fronte ad una morte violenta l'autopsia è un elemento fondamentale di accertamento della dinamica dei fatti» ricordando il caso recente dei morti di Nasiriyah. Ma dieci anni fa non andò così. Chi diede quell'ordine "superiore"?
Top secret sulla fonte. Il secondo mistero è molto più recente ed è contenuto nei documenti consegnati da Ionta alla Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. L'11 luglio 2003 il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega per i servizi segreti Gianni Letta invia al pm una lettera protocollata USG/2.SP/834/289. Con essa si conferma il segreto sulla fonte del Sisde che nel dicembre 1994 aveva indicato la pista del traffico di armi e fatto il nome di due italiani, Giancarlo Marocchino (più volte tirato in ballo) e Elio Sommavilla. Quella fonte, ritenuta "attendibile", non può essere rivelata neanche dopo che si è aperta un'inchiesta parallela per calunnia (Sommavilla ha presentato denuncia). Ionta ci ha provato due volte a sapere il nome. Una prima volta il 24 gennaio, scrivendo che «è indispensabile che il Sisde fornisca tale nominativo». Il direttore del Servizio segreto civile, prefetto Mario Mori, risponde il 21 febbraio scrivendo che per tutelare «la copertura e la salvaguardia dell'anonimato delle fonti fiduciarie, attesa la loro rilevanza ai fini dell'espletamento dei compiti istituzionali, questo Servizio ritiene di avvalersi della facoltà di non aderire alla richiesta». Il 26 febbraio Ionta avanza la richiesta direttamente a Berlusconi. La risposta tarda e così il magistrato il 14 maggio invia al premier un "sollecito". Finalmente l'11 luglio arriva la risposta, corredata da un parare dell'Avvocatura dello Stato, che conferma il segreto in quanto, si legge, «il segreto è sempre e comunque, per sua fisiologica e logica natura, un impedimento, e talvolta un ostacolo insormontabile, all'accertamento di penali responsabilità». Ionta, in un primo tempo, ipotizza un ricorso alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzione, ma Vecchione lo sconsiglia: l'ipotesi, scrive in un appunto a mano, è «improponibile». Cala il sipario. La parola alla commissione di inchiesta.
Un'autopsia da non fare. Il primo mistero è di due giorni appena dopo l'agguato a Mogadiscio. Ci si è sempre chiesti come mai, diversamente da quanto accaduto col corpo di Hrovatin, non venne eseguita l'autopsia della Alpi. A dare finalmente una spiegazione è stato il procuratore generale di Roma, Antonio Vecchione nel corso dell'audizione segreta davanti alla commissione di inchiesta sul caso Alpi. L'alto magistrato, da poco passato alla procura generale dopo aver diretto a lungo la procura della Repubblica, ha rivelato che il 16 dicembre 1999 il sostituto Andrea De Gasperis, all'epoca titolare dell'inchiesta, gli scrisse precisando che non poté procedere all'esame autoptico perché la Questura di Roma, da lui incaricata «di provvedere per l'immediata traslazione della salma all'istituto di medicina legale», aveva risposto che «ciò non era possibile per l'imminenza della cerimonia funebre alla quale avrebbero partecipato varie autorità, cerimonia insuscettibile di intralci». Venne eseguita così solo una ricognizione esterna del cadavere (vedi scheda). Cosa avrebbe detto l'autopsia eseguita nell'immediatezza del fatto? Non lo sappiamo. Certo è che, come commenta il sostituto procuratore Franco Ionta, attuale titolare dell'inchiesta, «quanto accaduto allora è perlomeno curioso». Anche lui ascoltato dalla Commissione ha spiegato che «di fronte ad una morte violenta l'autopsia è un elemento fondamentale di accertamento della dinamica dei fatti» ricordando il caso recente dei morti di Nasiriyah. Ma dieci anni fa non andò così. Chi diede quell'ordine "superiore"?
Top secret sulla fonte. Il secondo mistero è molto più recente ed è contenuto nei documenti consegnati da Ionta alla Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. L'11 luglio 2003 il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega per i servizi segreti Gianni Letta invia al pm una lettera protocollata USG/2.SP/834/289. Con essa si conferma il segreto sulla fonte del Sisde che nel dicembre 1994 aveva indicato la pista del traffico di armi e fatto il nome di due italiani, Giancarlo Marocchino (più volte tirato in ballo) e Elio Sommavilla. Quella fonte, ritenuta "attendibile", non può essere rivelata neanche dopo che si è aperta un'inchiesta parallela per calunnia (Sommavilla ha presentato denuncia). Ionta ci ha provato due volte a sapere il nome. Una prima volta il 24 gennaio, scrivendo che «è indispensabile che il Sisde fornisca tale nominativo». Il direttore del Servizio segreto civile, prefetto Mario Mori, risponde il 21 febbraio scrivendo che per tutelare «la copertura e la salvaguardia dell'anonimato delle fonti fiduciarie, attesa la loro rilevanza ai fini dell'espletamento dei compiti istituzionali, questo Servizio ritiene di avvalersi della facoltà di non aderire alla richiesta». Il 26 febbraio Ionta avanza la richiesta direttamente a Berlusconi. La risposta tarda e così il magistrato il 14 maggio invia al premier un "sollecito". Finalmente l'11 luglio arriva la risposta, corredata da un parare dell'Avvocatura dello Stato, che conferma il segreto in quanto, si legge, «il segreto è sempre e comunque, per sua fisiologica e logica natura, un impedimento, e talvolta un ostacolo insormontabile, all'accertamento di penali responsabilità». Ionta, in un primo tempo, ipotizza un ricorso alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzione, ma Vecchione lo sconsiglia: l'ipotesi, scrive in un appunto a mano, è «improponibile». Cala il sipario. La parola alla commissione di inchiesta.
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