Da Famiglia cristiana del 09/09/2005
Originale su http://www.stpauls.it/fc/0537fc/0537fc82.htm
Africa - E' l'unico paese al mondo da tre lustri senza un governo
Somalia anno zero
Dopo 14 anni di guerra civile, che ha provocato 300.000 vittime e milioni di sfollati, il Paese vive una sorta di "pace armata". In attesa che nella capitale si insedi il nuovo Governo.
di Luciano Scalettari
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Jowhar, Somalia. «Questo è l’ottavo. Morto di malaria. Non è possibile. Otto bambini, capite?, uccisi da una banale malaria». Scuote la testa, Gabriele, e allarga le braccia, la voce alterata dalla rabbia repressa. Afferra un fascio di carte dalla scrivania e le agita davanti ai nostri occhi. «Otto, in meno di un mese. Possiamo andare avanti così?». Lo sfogo di Gabriele avviene nella pediatria dell’ospedale di Jowhar. Il blu delle pareti accentua la penombra e sfuma i lineamenti dei mucchietti d’ossa denutriti che le mamme tengono in grembo, nei quattro letti della piccola stanza. Abbiamo visitato tutto il piccolo ospedale: un caso di lebbra, alcune ferite d’arma da fuoco, una quindicenne con un cancro al fegato in fase terminale, tanti malati di malaria e malnutriti. E diversi neonati, perché ovviamente la maternità è affollata.
Gabriele Lonardi è un medico. Anzi, è il medico, l’unico nel raggio di decine e decine di chilometri. Veronese, una cinquantina d’anni ben portati, Gabriele è tutt’altro che un pivello, in fatto di cooperazione: plurispecializzato in malattie tropicali, è appena arrivato in Somalia dopo 25 anni di Brasile, direttamente all’ospedale di Jowhar, per rimetterlo in sesto insieme a due altri italiani mandati qui dall’Ong Intersos: l’infermiera Maria Salghetti e Alex Maffeis, responsabile del centro per la tubercolosi. Sono giunti uno dopo l’altro, sei, cinque e tre mesi fa, e hanno trovato non un ospedale ma una via di mezzo fra un girone dantesco e un immondezzaio.
«La gran parte dei pazienti presenta patologie curabilissime. Ma non abbiamo nulla per curarli. Ogni giorno, qui, si alternano momenti di gioia e di dolore», aggiunge il dottore. «Oggi siamo stati sconfitti, questo bambino è stato vinto dalla malaria. Ma ieri abbiamo salvato un neonato, venuto alla luce da un parto trigemellare con una malformazione al retto. Sarebbe morto in pochi giorni. Ce ne siamo accorti proprio mentre facevamo un giro in corsia con un’équipe della Croce Rossa di Nairobi. Si trattava di un delicato intervento per rimuovere una membrana e fare la ricostruzione del retto. "Io questo intervento non lo so fare", ho detto al medico della Croce Rossa. "E tu?". "Io sì", mi ha risposto semplicemente, "sono chirurgo e conosco la tecnica". Detto fatto: ci siamo infilati il camice verde e abbiamo operato. Il neonato è salvo e sta benone. Quasi un miracolo: un giorno prima o un giorno dopo questo intervento non sarebbe stato possibile».
Un ospedale senza medicine
Gabriele, Maria e Alex stanno dando l’anima per far funzionare l’ospedaletto. Ma possono dare solo la propria esperienza e abilità. Infatti, non hanno medicine, non hanno strumenti chirurgici, non hanno nemmeno l’acqua potabile (l’unico pozzo è in cortile). «Intersos ci ha mandati qui, ma il finanziamento è ancora fermo all’Unione europea», dicono i cooperanti. Così, senza soldi e con una struttura pressoché inesistente, si danno da fare a inventarsi soluzioni, a chiedere aiuti estemporanei alle agenzie di Nairobi, a farsi mandare qualche scatola di farmaci e materiale chirurgico dalla Croce Rossa.
Il Governo nato a Nairobi
Eppure, questo ospedaletto è diventato importante. Non solo perché a Jowhar c’è il nuovo Governo di transizione – e la sede presidenziale si trova di là dalla strada, a non più di 50 metri –, non solo perché l’arrivo di ministri e parlamentari ha comportato un forte afflusso di popolazione civile da tutta l’area, ma anche perché malati e feriti arrivano fin dal confine con l’Etiopia, a 300 chilometri di distanza, perché nella Somalia di oggi la sanità semplicemente non esiste in aree vastissime.
Jowhar, fino a pochi mesi fa, era un paesotto di 22.000 abitanti. Aveva un simulacro d’ospedale, una scuola, una sede dell’Unicef e poco altro. Ora ospita temporaneamente il Governo, nato a Nairobi dall’ultima lunga conferenza di pace (la quattordicesima in 14 anni di guerra civile), in attesa che le istituzioni possano rientrare a Mogadiscio, la capitale storica, che è ancora in balia dei "signori della guerra" e dei gruppi di estremisti islamici. La villa del governatore di Jowhar è stata prestata al presidente Abdullhai Yusuf e al primo ministro Ali Mohamed Gedi. E la scuola primaria è stata riadattata ad accogliere ministri e parlamentari: dormono in camerate, otto o nove per aula, in attesa che siano ultimati gli alloggi che l’Italia ha inviato con un ponte aereo. Il nostro Paese ha organizzato 14 voli con prefabbricati, generatori e materiale logistico per predisporre il campo d’addestramento del primo nucleo – 1.500 uomini – di quelli che saranno il nuovo esercito nazionale e la polizia.
Nel Paese dell’anarchia
La Somalia è all’anno zero. Dopo 14 anni di guerra civile feroce e sanguinaria (la stima è di 300.000 vittime e milioni di sfollati e rifugiati all’estero), basta percorrere le viuzze impolverate della città o cercare di raggiungere la vicina costa a non più di 90 chilometri in linea d’aria per rendersi conto di cosa significhi vivere nell’unico Paese al mondo che ha passato quasi tre lustri nell’anarchia.
Significa che i telefoni cellulari funzionano perfettamente e gli aerei del chat (la piantina blandamente allucinogena che tanti somali masticano senza sosta) atterrano con puntualità svizzera. Ma significa pure che i pochi ospedali esistenti sono gestiti da Ong o agenzie umanitarie, che il sistema scolastico è scomparso, che la luce c’è per chi ha un generatore, che le strade sono ridotte a improbabili piste di sabbia, che l’acqua potabile è un bene prezioso, che paesi e villaggi sono un ammasso di vecchie case fatiscenti o capanne di paglia.
I fantasmi dell’epoca coloniale
Jowhar è attraversata da quella che fu la strada imperiale d’epoca coloniale. A parte qualche pietra miliare col fascio littorio, non ne resta più nulla, tant’è che le pochissime auto – qualche fuoristrada, pochi zoppicanti camion e rabberciate "124 Fiat" degli anni Cinquanta – vi corrono ai lati: meglio la pista di terra battuta che la gragnuola di buche della strada. Le farmacie, o sedicenti tali, vendono farmaci scaduti e ri-etichettati, o confezioni che del medicamento hanno solo il nome. E l’unico caffè di Jowhar si beve al "Lavazza", un bar che ha riadattato la macchina espresso a funzionare col fuoco a legna.
La Somalia vive la pace armata delle milizie, che controllano capillarmente il territorio agli ordini dei "signori della guerra" locali. L’ampia maggioranza di loro si riconosce nel Governo di Abdullhai Yusuf, ma l’area di Mogadiscio e qualche pezzo di territorio sono fuori controllo, sicché il Paese è a macchia di leopardo, con un continuo alternarsi di zone pacificate e altre insicure.
Per raggiungere, ad esempio, il villaggio costiero di Igo – a 260 chilometri a nordest di Jowhar, la stessa distanza che c’è fra Milano e Venezia – ci occorrono 20 ore di pista; e per tornare da Warsheik a Jowhar sono necessarie otto ore lungo un tortuoso viottolo sabbioso nella boscaglia, perché la direttrice che sfiora Mogadiscio è pericolosa.
Sembra che un colpo di spugna abbia cancellato tutto ciò che l’epoca coloniale e la lunga dittatura di Siad Barre avevano, nel bene e nel male, costruito. Dove erano stati realizzati grandi insediamenti, come lo zuccherificio o la stazione ferroviaria di Jowhar, restano scheletri disadorni. Dove il manufatto era più fragile, come le strade e gli edifici lungo la costa, non ne resta quasi traccia.
A Jowhar non si vedono in giro uomini armati, a eccezione dell’apparato di sicurezza del governatore e delle nuove istituzioni somale. Ma Jowhar è un’eccezione. Se c’è una risorsa che non manca in Somalia sono le armi, i miliziani e le "tecniche", ossia i fuoristrada Toyota attrezzati con grossi mitragliatori sul tetto.
«Sì, è vero, è tutto da ricostruire, ma oggi il popolo somalo ha ricominciato a sperare, perché finalmente c’è un Governo che vuole la pace. Il compito che ci aspetta è gigantesco», esordisce il presidente Abdullhai Yusuf nell’intervista che ci concede. «In Somalia non c’è legge, non c’è esercito né polizia, non c’è amministrazione», continua Yusuf. «Ci sono solo free-lance della guerra. Pacificare e ricostruire è un lavoro enorme. Ma siamo determinati a rifare la Somalia, a disarmare le milizie, a combattere i terroristi islamici. Abbiamo ancora quattro anni davanti. Sono convinto che ci riusciremo».
Riguardo ai gruppi fondamentalisti, il presidente è durissimo: «Sono i primi veri nemici della Somalia, perché non vogliono la stabilità del Paese», conclude. «I miliziani che per 15 anni sono sopravvissuti col fucile devono essere integrati alla vita civile. Ma i terroristi li conosco bene: li ho combattuti e sconfitti nel ’92 e ’93, quando tentavano di insediarsi nella regione di Bosaso. Oggi sono tanti e hanno molti soldi. Vanno sradicati dalla Somalia».
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COOPERANTI "FAI DA TE"
Com’è possibile che l’ospedale di Jowhar sia in condizioni tanto spaventose? Domanda inevitabile, se si ripercorre la sua storia. Sono stati i militari della missione Ibis, nel 1992, a creare l’ospedale. Dopo la fine della missione – negli ultimi 11 anni – la struttura è sempre stata gestita dall’Ong italiana Intersos, che vi ha mandato nel tempo diversi cooperanti. Tuttavia, il team arrivato ora l’ha trovato in condizioni impossibili, con pochi e antiquati strumenti, senza medicine, privo dei requisiti minimi d’igiene. E senza finanziamenti. Come mai?
«Occorre fare subito chiarezza su quello che è avvenuto nell’ospedale di Jowhar», dice l’onorevole Mauro Bulgarelli, dei Verdi. «Presenterò un’interrogazione parlamentare per sapere quanti fondi sono stati dati per l’ospedale e che uso ne è stato fatto». «Questo episodio», aggiunge, «conferma che va rivisitato del tutto un certo modo di fare cooperazione. Non devono più esistere progetti che sono in realtà contenitori vuoti, utilizzati solo per introiettare denaro».
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L’IMPEGNO DELL’ITALIA E DELL’EUROPA
«Alcuni Paesi purtroppo stanno a guardare. E questo non aiuta la Somalia. Non è così per l’Italia e l’Unione europea che ci stanno offrendo sostegno politico e finanziario». Ali Mohamed Gedi, premier del neonato Governo somalo di transizione parla un ottimo italiano e ha le idee chiare. Sa che il primo problema è uscire dalla "pace armata" in cui le milizie sono ancora in grado di spadroneggiare (secondo Medici senza frontiere negli ultimi mesi ci sono stati 500 feriti da armi da fuoco nei loro ospedali, segno di un livello di violenza ancora intollerabile).
Gedi sa che occorre dimostrare alla comunità internazionale che l’opposizione formatasi a Mogadiscio da parte dei vecchi signori della guerra e dai gruppi estremisti islamici è solo una minoranza. Sa che occorre comunque dialogare e mediare, senza prove di forza. «Ma», aggiunge, «occorre pure che l’Onu smascheri i veri scopi di chi solleva problemi strumentali per mantenere la Somalia nell’instabilità e nel caos».
Valutazioni che trovano d’accordo anche l’inviato speciale del Governo italiano, Mario Raffaelli, che da due anni segue il processo di pacificazione.
«Questo Governo è frutto di due lunghi anni di difficile mediazione. Solo dalla primavera scorsa presidente e Governo stanno operando. È quindi un Governo che media fra tutti i gruppi e le realtà claniche e fra i signori della guerra. La comunità internazionale ha assistito e sostenuto tutto questo processo».
Il Governo, però, è nato a Nairobi.
«Infatti, ora si è al momento cruciale: Governo e Parlamento sono rientrati in Somalia, seppure con difficoltà. Adesso il processo avvenuto nei palazzi di Nairobi deve essere spiegato alla popolazione, e accettato».
L’opposizione è nata dentro lo stesso Governo. Come sanare la frattura?
«Ci sono due questioni: la prima è che la minoranza all’opposizione non vuole che fra i caschi blu che devono arrivare ci siano soldati dei Paesi confinanti. Ed è un’obiezione ragionevole, su cui il Governo si è detto d’accordo. La seconda è che la sede del Governo dev’essere da subito Mogadiscio. Questo, però, è un falso problema: è ovvio che la capitale sarà Mogadiscio, ma oggi è ancora molto pericolosa. Appena sarà pacificata, le istituzioni prenderanno subito sede nella capitale. Già nei prossimi giorni si riunirà a Mogadiscio il Consiglio dei ministri».
L’Onu e gli Stati Uniti hanno parlato di spaccatura e spingono per la mediazione.
«Dialogo e mediazione in questa fase sono importanti. Ma non si può far finta che non ci sia un governo e che ogni problema provochi lo stallo. Non può esistere alcun "diritto di veto", da parte di nessuno».
Quali sono gli scopi dell’opposizione?
«Oggi mettere insieme due gruppi. Il primo ha un’agenda somala: pone proprie esigenze e istanze per un progetto politico. Il secondo è costituito da estremisti islamici che usano la Somalia per obiettivi più ampi, di instabilità internazionale e di terrorismo. Costoro non vogliono semplicemente alcun governo. Quindi, io dico, non ci sono due parti. C’è l’istituzione, che è una sola, e al suo interno ci sono divergenze. Sostenere che ci sono due fazioni in contrapposizione rischia di dare spazio agli estremisti».
La Somalia è stata teatro di molteplici attività illegali. Come sanare questa situazione?
«Oggi, c’è chi ricava ingenti introiti da attività economiche, legali e no. Occorre gradualmente portare sotto il controllo dello Stato le attività legali. E stroncare quelle illecite, andando anche a verificarne le conseguenze. Mi riferisco a uno di questi business illegali, quello del traffico di rifiuti e scorie, su cui bisognerà vedere quanto e dove si è inquinato. E quindi si dovrà bonificare».
Gabriele Lonardi è un medico. Anzi, è il medico, l’unico nel raggio di decine e decine di chilometri. Veronese, una cinquantina d’anni ben portati, Gabriele è tutt’altro che un pivello, in fatto di cooperazione: plurispecializzato in malattie tropicali, è appena arrivato in Somalia dopo 25 anni di Brasile, direttamente all’ospedale di Jowhar, per rimetterlo in sesto insieme a due altri italiani mandati qui dall’Ong Intersos: l’infermiera Maria Salghetti e Alex Maffeis, responsabile del centro per la tubercolosi. Sono giunti uno dopo l’altro, sei, cinque e tre mesi fa, e hanno trovato non un ospedale ma una via di mezzo fra un girone dantesco e un immondezzaio.
«La gran parte dei pazienti presenta patologie curabilissime. Ma non abbiamo nulla per curarli. Ogni giorno, qui, si alternano momenti di gioia e di dolore», aggiunge il dottore. «Oggi siamo stati sconfitti, questo bambino è stato vinto dalla malaria. Ma ieri abbiamo salvato un neonato, venuto alla luce da un parto trigemellare con una malformazione al retto. Sarebbe morto in pochi giorni. Ce ne siamo accorti proprio mentre facevamo un giro in corsia con un’équipe della Croce Rossa di Nairobi. Si trattava di un delicato intervento per rimuovere una membrana e fare la ricostruzione del retto. "Io questo intervento non lo so fare", ho detto al medico della Croce Rossa. "E tu?". "Io sì", mi ha risposto semplicemente, "sono chirurgo e conosco la tecnica". Detto fatto: ci siamo infilati il camice verde e abbiamo operato. Il neonato è salvo e sta benone. Quasi un miracolo: un giorno prima o un giorno dopo questo intervento non sarebbe stato possibile».
Un ospedale senza medicine
Gabriele, Maria e Alex stanno dando l’anima per far funzionare l’ospedaletto. Ma possono dare solo la propria esperienza e abilità. Infatti, non hanno medicine, non hanno strumenti chirurgici, non hanno nemmeno l’acqua potabile (l’unico pozzo è in cortile). «Intersos ci ha mandati qui, ma il finanziamento è ancora fermo all’Unione europea», dicono i cooperanti. Così, senza soldi e con una struttura pressoché inesistente, si danno da fare a inventarsi soluzioni, a chiedere aiuti estemporanei alle agenzie di Nairobi, a farsi mandare qualche scatola di farmaci e materiale chirurgico dalla Croce Rossa.
Il Governo nato a Nairobi
Eppure, questo ospedaletto è diventato importante. Non solo perché a Jowhar c’è il nuovo Governo di transizione – e la sede presidenziale si trova di là dalla strada, a non più di 50 metri –, non solo perché l’arrivo di ministri e parlamentari ha comportato un forte afflusso di popolazione civile da tutta l’area, ma anche perché malati e feriti arrivano fin dal confine con l’Etiopia, a 300 chilometri di distanza, perché nella Somalia di oggi la sanità semplicemente non esiste in aree vastissime.
Jowhar, fino a pochi mesi fa, era un paesotto di 22.000 abitanti. Aveva un simulacro d’ospedale, una scuola, una sede dell’Unicef e poco altro. Ora ospita temporaneamente il Governo, nato a Nairobi dall’ultima lunga conferenza di pace (la quattordicesima in 14 anni di guerra civile), in attesa che le istituzioni possano rientrare a Mogadiscio, la capitale storica, che è ancora in balia dei "signori della guerra" e dei gruppi di estremisti islamici. La villa del governatore di Jowhar è stata prestata al presidente Abdullhai Yusuf e al primo ministro Ali Mohamed Gedi. E la scuola primaria è stata riadattata ad accogliere ministri e parlamentari: dormono in camerate, otto o nove per aula, in attesa che siano ultimati gli alloggi che l’Italia ha inviato con un ponte aereo. Il nostro Paese ha organizzato 14 voli con prefabbricati, generatori e materiale logistico per predisporre il campo d’addestramento del primo nucleo – 1.500 uomini – di quelli che saranno il nuovo esercito nazionale e la polizia.
Nel Paese dell’anarchia
La Somalia è all’anno zero. Dopo 14 anni di guerra civile feroce e sanguinaria (la stima è di 300.000 vittime e milioni di sfollati e rifugiati all’estero), basta percorrere le viuzze impolverate della città o cercare di raggiungere la vicina costa a non più di 90 chilometri in linea d’aria per rendersi conto di cosa significhi vivere nell’unico Paese al mondo che ha passato quasi tre lustri nell’anarchia.
Significa che i telefoni cellulari funzionano perfettamente e gli aerei del chat (la piantina blandamente allucinogena che tanti somali masticano senza sosta) atterrano con puntualità svizzera. Ma significa pure che i pochi ospedali esistenti sono gestiti da Ong o agenzie umanitarie, che il sistema scolastico è scomparso, che la luce c’è per chi ha un generatore, che le strade sono ridotte a improbabili piste di sabbia, che l’acqua potabile è un bene prezioso, che paesi e villaggi sono un ammasso di vecchie case fatiscenti o capanne di paglia.
I fantasmi dell’epoca coloniale
Jowhar è attraversata da quella che fu la strada imperiale d’epoca coloniale. A parte qualche pietra miliare col fascio littorio, non ne resta più nulla, tant’è che le pochissime auto – qualche fuoristrada, pochi zoppicanti camion e rabberciate "124 Fiat" degli anni Cinquanta – vi corrono ai lati: meglio la pista di terra battuta che la gragnuola di buche della strada. Le farmacie, o sedicenti tali, vendono farmaci scaduti e ri-etichettati, o confezioni che del medicamento hanno solo il nome. E l’unico caffè di Jowhar si beve al "Lavazza", un bar che ha riadattato la macchina espresso a funzionare col fuoco a legna.
La Somalia vive la pace armata delle milizie, che controllano capillarmente il territorio agli ordini dei "signori della guerra" locali. L’ampia maggioranza di loro si riconosce nel Governo di Abdullhai Yusuf, ma l’area di Mogadiscio e qualche pezzo di territorio sono fuori controllo, sicché il Paese è a macchia di leopardo, con un continuo alternarsi di zone pacificate e altre insicure.
Per raggiungere, ad esempio, il villaggio costiero di Igo – a 260 chilometri a nordest di Jowhar, la stessa distanza che c’è fra Milano e Venezia – ci occorrono 20 ore di pista; e per tornare da Warsheik a Jowhar sono necessarie otto ore lungo un tortuoso viottolo sabbioso nella boscaglia, perché la direttrice che sfiora Mogadiscio è pericolosa.
Sembra che un colpo di spugna abbia cancellato tutto ciò che l’epoca coloniale e la lunga dittatura di Siad Barre avevano, nel bene e nel male, costruito. Dove erano stati realizzati grandi insediamenti, come lo zuccherificio o la stazione ferroviaria di Jowhar, restano scheletri disadorni. Dove il manufatto era più fragile, come le strade e gli edifici lungo la costa, non ne resta quasi traccia.
A Jowhar non si vedono in giro uomini armati, a eccezione dell’apparato di sicurezza del governatore e delle nuove istituzioni somale. Ma Jowhar è un’eccezione. Se c’è una risorsa che non manca in Somalia sono le armi, i miliziani e le "tecniche", ossia i fuoristrada Toyota attrezzati con grossi mitragliatori sul tetto.
«Sì, è vero, è tutto da ricostruire, ma oggi il popolo somalo ha ricominciato a sperare, perché finalmente c’è un Governo che vuole la pace. Il compito che ci aspetta è gigantesco», esordisce il presidente Abdullhai Yusuf nell’intervista che ci concede. «In Somalia non c’è legge, non c’è esercito né polizia, non c’è amministrazione», continua Yusuf. «Ci sono solo free-lance della guerra. Pacificare e ricostruire è un lavoro enorme. Ma siamo determinati a rifare la Somalia, a disarmare le milizie, a combattere i terroristi islamici. Abbiamo ancora quattro anni davanti. Sono convinto che ci riusciremo».
Riguardo ai gruppi fondamentalisti, il presidente è durissimo: «Sono i primi veri nemici della Somalia, perché non vogliono la stabilità del Paese», conclude. «I miliziani che per 15 anni sono sopravvissuti col fucile devono essere integrati alla vita civile. Ma i terroristi li conosco bene: li ho combattuti e sconfitti nel ’92 e ’93, quando tentavano di insediarsi nella regione di Bosaso. Oggi sono tanti e hanno molti soldi. Vanno sradicati dalla Somalia».
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COOPERANTI "FAI DA TE"
Com’è possibile che l’ospedale di Jowhar sia in condizioni tanto spaventose? Domanda inevitabile, se si ripercorre la sua storia. Sono stati i militari della missione Ibis, nel 1992, a creare l’ospedale. Dopo la fine della missione – negli ultimi 11 anni – la struttura è sempre stata gestita dall’Ong italiana Intersos, che vi ha mandato nel tempo diversi cooperanti. Tuttavia, il team arrivato ora l’ha trovato in condizioni impossibili, con pochi e antiquati strumenti, senza medicine, privo dei requisiti minimi d’igiene. E senza finanziamenti. Come mai?
«Occorre fare subito chiarezza su quello che è avvenuto nell’ospedale di Jowhar», dice l’onorevole Mauro Bulgarelli, dei Verdi. «Presenterò un’interrogazione parlamentare per sapere quanti fondi sono stati dati per l’ospedale e che uso ne è stato fatto». «Questo episodio», aggiunge, «conferma che va rivisitato del tutto un certo modo di fare cooperazione. Non devono più esistere progetti che sono in realtà contenitori vuoti, utilizzati solo per introiettare denaro».
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L’IMPEGNO DELL’ITALIA E DELL’EUROPA
«Alcuni Paesi purtroppo stanno a guardare. E questo non aiuta la Somalia. Non è così per l’Italia e l’Unione europea che ci stanno offrendo sostegno politico e finanziario». Ali Mohamed Gedi, premier del neonato Governo somalo di transizione parla un ottimo italiano e ha le idee chiare. Sa che il primo problema è uscire dalla "pace armata" in cui le milizie sono ancora in grado di spadroneggiare (secondo Medici senza frontiere negli ultimi mesi ci sono stati 500 feriti da armi da fuoco nei loro ospedali, segno di un livello di violenza ancora intollerabile).
Gedi sa che occorre dimostrare alla comunità internazionale che l’opposizione formatasi a Mogadiscio da parte dei vecchi signori della guerra e dai gruppi estremisti islamici è solo una minoranza. Sa che occorre comunque dialogare e mediare, senza prove di forza. «Ma», aggiunge, «occorre pure che l’Onu smascheri i veri scopi di chi solleva problemi strumentali per mantenere la Somalia nell’instabilità e nel caos».
Valutazioni che trovano d’accordo anche l’inviato speciale del Governo italiano, Mario Raffaelli, che da due anni segue il processo di pacificazione.
«Questo Governo è frutto di due lunghi anni di difficile mediazione. Solo dalla primavera scorsa presidente e Governo stanno operando. È quindi un Governo che media fra tutti i gruppi e le realtà claniche e fra i signori della guerra. La comunità internazionale ha assistito e sostenuto tutto questo processo».
Il Governo, però, è nato a Nairobi.
«Infatti, ora si è al momento cruciale: Governo e Parlamento sono rientrati in Somalia, seppure con difficoltà. Adesso il processo avvenuto nei palazzi di Nairobi deve essere spiegato alla popolazione, e accettato».
L’opposizione è nata dentro lo stesso Governo. Come sanare la frattura?
«Ci sono due questioni: la prima è che la minoranza all’opposizione non vuole che fra i caschi blu che devono arrivare ci siano soldati dei Paesi confinanti. Ed è un’obiezione ragionevole, su cui il Governo si è detto d’accordo. La seconda è che la sede del Governo dev’essere da subito Mogadiscio. Questo, però, è un falso problema: è ovvio che la capitale sarà Mogadiscio, ma oggi è ancora molto pericolosa. Appena sarà pacificata, le istituzioni prenderanno subito sede nella capitale. Già nei prossimi giorni si riunirà a Mogadiscio il Consiglio dei ministri».
L’Onu e gli Stati Uniti hanno parlato di spaccatura e spingono per la mediazione.
«Dialogo e mediazione in questa fase sono importanti. Ma non si può far finta che non ci sia un governo e che ogni problema provochi lo stallo. Non può esistere alcun "diritto di veto", da parte di nessuno».
Quali sono gli scopi dell’opposizione?
«Oggi mettere insieme due gruppi. Il primo ha un’agenda somala: pone proprie esigenze e istanze per un progetto politico. Il secondo è costituito da estremisti islamici che usano la Somalia per obiettivi più ampi, di instabilità internazionale e di terrorismo. Costoro non vogliono semplicemente alcun governo. Quindi, io dico, non ci sono due parti. C’è l’istituzione, che è una sola, e al suo interno ci sono divergenze. Sostenere che ci sono due fazioni in contrapposizione rischia di dare spazio agli estremisti».
La Somalia è stata teatro di molteplici attività illegali. Come sanare questa situazione?
«Oggi, c’è chi ricava ingenti introiti da attività economiche, legali e no. Occorre gradualmente portare sotto il controllo dello Stato le attività legali. E stroncare quelle illecite, andando anche a verificarne le conseguenze. Mi riferisco a uno di questi business illegali, quello del traffico di rifiuti e scorie, su cui bisognerà vedere quanto e dove si è inquinato. E quindi si dovrà bonificare».
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