Da Corriere della Sera del 12/09/2005
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/09_Settembre/12/carabin...
Rappresaglie e ricatti, Eritrea nel caos
Anche i carabinieri lasciano il Paese
Il Presidente Isayas Afeworki ha militarizzato il Paese
di Massimo A. Alberizzi, Michele Focarete
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Sono almeno cinque anni che i giovani scappano dall’Eritrea dove è al potere una rigida dittatura che vive con l’ossessione delle spie e la sindrome del complotto. Il Presidente Isayas Afeworki ha militarizzato il Paese, con polizia politica e, come ai tempi di Stalin, l’onnipresente partito unico (il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia). Una quindicina di ministri sono scomparsi a settembre di 2 anni fa: chiedevano democrazia e stampa libera. Le strutture di pace dell’Onu sono in continuazione umiliate: 36 auto dell’organizzazione incaricata dello sminamento sono state confiscate e trasformate in veicoli militari. La repressione è fatta di guerra agli intellettuali, studenti, giornalisti, religiosi. Tutti in carcere o, come il vescovo della chiesa ortodossa, agli arresti domiciliari. L’università è chiusa. Le rappresaglie sui familiari di chi non si presenta al reclutamento sono feroci. Da fine luglio sono finiti in carcere più di mille genitori accusati di aver fatto fuggire i figli all’estero. L’uso del fucile contro chi cerca di sottrarsi a un servizio militare senza fine è la norma. E le notizie trapelano con difficoltà. Il 4 novembre scorso è stata repressa a colpi di mitra una tentata fuga dal centro di detenzione di Adi Abito: una ventina di ragazzi massacrati.
In Eritrea c’è una missione Onu (Unmee) che ha il compito di monitorare gli accordi di pace con l’Etiopia, firmati nel 2000. Ma i caschi blu non possono operare. I carabinieri italiani, dopo una serie di imposizioni, sabotaggi e persino sequestri, hanno deciso di andarsene. Il comando dell’Onu non ha impedito che il governo di Asmara trattasse il nostro contingente con arroganza. La forza dei carabinieri, all’inizio del mandato, nel 2000, prevedeva 60 uomini, ridotti di recente a una ventina. Gli eritrei gli impedivano di svolgere il loro mandato: polizia militare. Già nel 2003 Asmara aveva chiesto all’allora comandante del contingente Unmee, il britannico Robert Gordon, di esautorare i carabinieri. Il generale rispose: «Non prendo ordini da voi, ma dal Consiglio di Sicurezza». Il successore di Gordon, l’indiano Rajender Singh, non ha saputo resistere alle pressioni eritree. Così i carabinieri hanno tolto il disturbo. Contro gli italiani c’è stata un’escalation: prima è stato loro impedito di circolare per Asmara, quindi sono stati cacciati dal loro quartier generale, poi gli hanno vietato di abitare all’Hotel Intercontinental e infine di muoversi dall’accampamento Onu. Il 1° luglio un gruppo di carabinieri è stato addirittura sequestrato dalla polizia eritrea.
Il colonnello Maurizio Esposito, comandante del contingente, rientrato per ultimo in Italia il 21 luglio, ha inviato rapporti durissimi. «Basta con le umiliazioni - scriveva -. Andiamocene». Così la Farnesina ha deciso il ritiro. Primo caso della storia dell’Onu: un Paese si ritira prima che termini il mandato. A fine luglio il parlamento ha rinnovato l’incarico ai carabinieri: nessuno si è accorto che è stato votato il finanziamento di una missione che non c’era già più.
Cosa succede in Eritrea lo racconta Munir, 39 anni, che ora vive a Milano. «Sono andati da mio padre. "Dov’è tuo figlio?", gli hanno gridato. "Parla o ti arrestiamo". E l’hanno fatto. Senza pietà per quel vecchio che si muove a fatica. Colpevole, a 80 anni, di avere un figlio fuggito nel ’99 dall’Eritrea e dalle atrocità di una guerra senza fine». A Munir la notizia dell’arresto è arrivata da uno zio: «L’hanno rinchiuso come un animale - si sfoga -. Ma lui cosa c’entra?». Otto giorni di galera con altre 400 persone. Uno accanto all’altro, senza letti, mangiando solo quando un parente riusciva ad avere un permesso per entrare. In un altro stanzone c’erano le donne, in prevalenza mogli di presunti «scappati». «Una di loro - racconta Michael Kidane, tra i responsabili del coordinamento democratici eritrei in Italia - ha partorito lì dentro. Ormai la situazione è drammatica. Il regime eritreo ha messo in prigione intere famiglie». Dopo la galera scatta il ricatto. «Se consegni 50 mila Nakfa (quasi 2.700 euro ndr ) ti lasciamo andare». Il padre di Munir è stato liberato venerdì mattina.
In Eritrea c’è una missione Onu (Unmee) che ha il compito di monitorare gli accordi di pace con l’Etiopia, firmati nel 2000. Ma i caschi blu non possono operare. I carabinieri italiani, dopo una serie di imposizioni, sabotaggi e persino sequestri, hanno deciso di andarsene. Il comando dell’Onu non ha impedito che il governo di Asmara trattasse il nostro contingente con arroganza. La forza dei carabinieri, all’inizio del mandato, nel 2000, prevedeva 60 uomini, ridotti di recente a una ventina. Gli eritrei gli impedivano di svolgere il loro mandato: polizia militare. Già nel 2003 Asmara aveva chiesto all’allora comandante del contingente Unmee, il britannico Robert Gordon, di esautorare i carabinieri. Il generale rispose: «Non prendo ordini da voi, ma dal Consiglio di Sicurezza». Il successore di Gordon, l’indiano Rajender Singh, non ha saputo resistere alle pressioni eritree. Così i carabinieri hanno tolto il disturbo. Contro gli italiani c’è stata un’escalation: prima è stato loro impedito di circolare per Asmara, quindi sono stati cacciati dal loro quartier generale, poi gli hanno vietato di abitare all’Hotel Intercontinental e infine di muoversi dall’accampamento Onu. Il 1° luglio un gruppo di carabinieri è stato addirittura sequestrato dalla polizia eritrea.
Il colonnello Maurizio Esposito, comandante del contingente, rientrato per ultimo in Italia il 21 luglio, ha inviato rapporti durissimi. «Basta con le umiliazioni - scriveva -. Andiamocene». Così la Farnesina ha deciso il ritiro. Primo caso della storia dell’Onu: un Paese si ritira prima che termini il mandato. A fine luglio il parlamento ha rinnovato l’incarico ai carabinieri: nessuno si è accorto che è stato votato il finanziamento di una missione che non c’era già più.
Cosa succede in Eritrea lo racconta Munir, 39 anni, che ora vive a Milano. «Sono andati da mio padre. "Dov’è tuo figlio?", gli hanno gridato. "Parla o ti arrestiamo". E l’hanno fatto. Senza pietà per quel vecchio che si muove a fatica. Colpevole, a 80 anni, di avere un figlio fuggito nel ’99 dall’Eritrea e dalle atrocità di una guerra senza fine». A Munir la notizia dell’arresto è arrivata da uno zio: «L’hanno rinchiuso come un animale - si sfoga -. Ma lui cosa c’entra?». Otto giorni di galera con altre 400 persone. Uno accanto all’altro, senza letti, mangiando solo quando un parente riusciva ad avere un permesso per entrare. In un altro stanzone c’erano le donne, in prevalenza mogli di presunti «scappati». «Una di loro - racconta Michael Kidane, tra i responsabili del coordinamento democratici eritrei in Italia - ha partorito lì dentro. Ormai la situazione è drammatica. Il regime eritreo ha messo in prigione intere famiglie». Dopo la galera scatta il ricatto. «Se consegni 50 mila Nakfa (quasi 2.700 euro ndr ) ti lasciamo andare». Il padre di Munir è stato liberato venerdì mattina.