Da Quaderni Radicali del 13/09/2005

Politica e finanza: una cronistoria

di Luigi Rintallo

In Italia accade spesso che politica e finanza diano a intendere di operare al di fuori da reciproche influenze, rispondendo a leggi tanto astratte, quanto inesorabili. Ma a un’osservazione anche solo superficiale appare subito che non è mai stato così.

Ripercorrendo le varie fasi della nostra storia recente, infatti, è immediato il riscontro che le scelte operate nei due ambiti sono state quasi sempre il risultato dei rapporti intessuti fra loro.
Un intreccio caratterizzato per lo più dall’alternanza di momenti di aperto contrasto a momenti di tregua e che ha privilegiato, come luogo in cui manifestarsi, il mercato finanziario.

Più che altrove, nel nostro paese il funzionamento e la funzionalità della Borsa sono stati influenzati dalla politica generale, dalle scelte e dagli obiettivi della classe dirigente, sia politica (i partiti) che economica (i grandi gruppi).
Ciò è stato reso possibile dall’altra sua anomalia di fondo: anziché pilotare i patrimoni mobili verso il finanziamento del sistema industriale, la Borsa ha continuato ad essere soltanto la stazione di passaggio del capitale improduttivo.
Alla funzione reale di allocatore diretto delle risorse, il mercato borsistico italiano ha anteposto quella tutta psicologica di catalizzatore della speculazione. È anche per questo motivo che la nostra economia ha sovente mancato i suoi appuntamenti più significativi, l’ultimo dei quali va certamente collocato nella prima metà degli anni Ottanta.

Sin dal dopoguerra, del resto, si vede prevalere un indirizzo puramente congiunturale che solo a tratti faceva intravedere una disposizione strategica.
A favorire il riavvicinamento tra Borsa e industria contribuisce indubbiamente nel 1946 la salutare opera di deregolamentazione del ministro del Tesoro Epicarmo Corbino.
Opera presto interrotta per l’acuirsi delle critiche da parte della sinistra, che imputava al ministro liberale l’ondata speculativa che spinge al rialzo i maggiori titoli industriali.

Nell’impossibilità di colpire il grande capitale privato, si pregiudicava irreparabilmente il ruolo della Borsa, la quale veniva erroneamente identificata nella mera emanazione dei grandi circoli finanziari.
Un errore che affonda le sue radici nel pregiudizio ideologico e che costa caro: in tal modo si incrina infatti il modello di sviluppo, impedendo all’inizio di un ciclo espansivo l’affermarsi di un azionariato diffuso che, immesso nel mercato finanziario, poteva risultare, se non vitale, certamente importante ai fini di una crescita economica sana, all’insegna della massima compartecipazione e libera dal predominio dei monopoli.
Piuttosto che innescare il meccanismo virtuoso per cui il risparmio si fa sostenitore delle imprese, si permetteva agli avventurieri della finanza di avere campo libero per le loro scorrerie.

La crescita industriale a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta riceve così l’impulso fondamentale dagli incentivi al reddito fisso e da altre misure estranee alla Borsa.
Una linea che incontra, fra l’altro, l’aperto sostegno del cosiddetto partito di Bankitalia che, specialmente negli anni seguenti, si dimostrerà sempre pronto a difendere una concezione dello sviluppo centrata soprattutto sugli istituti di credito e incline a scartare ipotesi che vedano protagonisti altri soggetti, potenzialmente in grado di gestire le risorse economiche.

Dopo la morte di De Gasperi, fautore a suo modo di una politica liberista, si afferma nella Dc la linea dei cosiddetti “giovani turchi” guidati da Fanfani, che realizza sulle comuni basi anticapitalistiche l’incontro con il Psi lombardiano.
Proprio a Fanfani si deve inoltre l’accentuarsi della concorrenzialità tra mondo politico e poteri economici.
Nella necessità di emancipare, in qualche modo, l’attività dei partiti dai condizionamenti di quelli che eran chiamati i “padroni del vapore”, si apre allora la strada al consolidamento di quel pilastro della struttura economica, ereditato dal fascimo, costituito dall’industria pubblica.

Le Partecipazioni statali sono la strada maestra per la quale i partiti riescono a sovrapporsi allo Stato e attraverso cui si garantiscono non solo la sopravvivenza, ma anche lo strumento per trattare su posizioni paritarie con i grandi gruppi imprenditoriali.
Da parte loro, questi ultimi, che si erano ben guardati dal far propri i caratteri del libero mercato e che erano vissuti sempre nella bambagia del protezionismo, assimilano subito il nuovo metodo instaurando con i politici un rapporto tutto all’insegna di un grossolano do ut des, che pregiudica alle radici l’andamento stesso della nostra economia.

Contrariamente alle preoccupazioni manifestate inizialmente da alcuni settori confindustriali, il centrosinistra, impegnato nella ricerca di vittorie politiche, non produce una reale modifica del modello economico.
Nella dialettica interna tra i riformatori - protesi a contenere le distorsioni più evidenti generate dal laissez faire - e i massimalisti che, negli interventi sull’economia, individuavano un modo per sovvertire il sistema capitalistico, alla fine prevalgono soltanto i fautori di uno spoil system dai connotati pesantemente clientelari. Ciò non toglie, però, che l’interventismo statale produca varie conseguenze per quanto riguarda la conformazione e i caratteri del sistema produttivo.

Gli anni della collaborazione fra socialisti e cattolici (collaborazione più volte interrotta da lunghi momenti di crisi) sono anni di controllo politico sullo sviluppo economico. Dapprima esso si manifesta attraverso il mito della programmazione e degli investimenti guidati, ma ben presto muta aspetto dando libero sfogo alla deteriore combinazione di massimalismo e affarismo.
L’oggettiva incapacità della classe imprenditoriale, di fatto complice nelle scelte più importanti dei governi succedutisi negli anni Sessanta e Settanta, concorre a frenare sin quasi a disattivare del tutto il ruolo della Borsa. Le grandi imprese, rifugiatesi all’ombra della finanza dei “salotti buoni” (Mediobanca), si affidano quasi esclusivamente all’indebitamento con le banche. Sottoposte al controllo partitico, queste diventano perciò il tramite principale del trasferimento di risorse pubbliche alle imprese stesse che, nella sostanza, differivano ben poco dalle società a partecipazione statale.

Nell’ambito di queste ultime, era frattanto cresciuta un nuova classe di gestori più che di industriali, secondo criteri del tutto peculiari che ne fanno un potentato a se stante, privo di un qualsiasi disegno al di là di quello rispondente alle esigenze di una preservazione del proprio potere.
Un ulteriore effetto, dai risvolti ugualmente perniciosi, lo determina la legislazione fiscale ispirata da criteri assurdamente punitivi ed estranei ad una coerente cultura liberale dello Stato.
Inutilmente rigorosa sul piano formale, ma nella sostanza inefficace e ingiusta, ad essa si deve tanto l’aumento dell’area del lavoro nero nelle piccole imprese, con le ovvie ricadute sul piano dell’evasione contributiva; quanto il fenomeno della fuga di capitali all’estero, che si palesa in forme consistenti specialmente dopo i sommovimenti del ’68.

La crisi di liquidità che ne deriva, è aggravata da due eventi eccezionali e improvvisi: la fine della parità aurea del dollaro nel 1971 e lo chock petrolifero del 1973.
Come già era avvenuto col fascismo che crollò a seguito della guerra, anche stavolta a determinare un decisivo cambiamento della politica italiana sono fattori totalmente esogeni.
È con la crisi economica del ’73 che si pongono infatti le premesse per la svolta politica e culturale che tuttavia potrà imprimersi soltanto agli inizi degli anni Ottanta.

Prima di giungervi, il paese deve subire un altro accesso “dirigista” con l’ingresso dei comunisti nella maggioranza di governo.
Il consociativismo fra il più grande partito di opposizione e la Dc ha, d’altro canto, la sua “prova generale” con l’approvazione nel febbraio 1971 del nuovo regolamento della Camera, tra i cui artefici principali vi è l’allora capogruppo dc Giulio Andreotti.
Da quel momento, come da più parti si è rilevato, assistiamo alla massima parlamentarizzazione possibile di tutti i soggetti politici (compreso ovviamente il governo), che adottano procedure di mediazione tali da annichilire nei fatti la normale dialettica delle democrazie liberali.
Fra il 1975 e il 1978 si susseguono quindi una serie di leggi miranti nel loro insieme a innalzare un pauroso, quanto costoso edificio normativo il cui vero scopo - percepito all’inizio da pochi - consiste nel mantenimento e rafforzamento del controllo partitico sulla società.

Il clima politico e culturale determinatosi allora, funziona da blocco allo sviluppo del mercato.
E in effetti, nel corso degli anni ’70, il mondo produttivo si allontana ancor di più dalla Borsa e il suo spazio è rapidamente occupato dagli speculatori: privi di una strategia industriale, essi ne fanno solo il viatico per la crescita dei loro “imperi” finanziari.
La facilità di questa occupazione si spiega in parte con la distrazione e il disinteresse dimostrato dal sistema delle grandi imprese italiane, che respingono (e hanno sempre respinto) l’ipotesi di realizzare un capitalismo diffuso attraverso la Borsa.

Scelgono piuttosto di trincerarsi nel fortino di Mediobanca, la quale funge sì da paladina dei capitalisti, ma sicuramente non del capitalismo.
L’opposizione del Pci all’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo conclude l’esperienza dei ministeri di solidarietà nazionale, a cui segue una nuova fase durante la quale fu condotta a termine una ristrutturazione industriale che rivoluziona nel profondo i rapporti sia all’interno delle aziende, sia tra queste e i referenti politici e sindacali.

Un contributo a tale processo proviene anche dai mutamenti intervenuti a livello politico: nel Psi, dopo l’elezione alla segreteria, Bettino Craxi può finalmente contare su una solida maggioranza che gli consente di far intraprendere al partito un nuovo corso, abbandonando ogni forma di massimalismo in favore dell’aperta adesione a un riformismo moderato.
Altrettanto importante per il risanamento economico, è la messa in discussione del ruolo dei sindacati. Con la marcia dei 40.000 quadri Fiat a Torino del 1980, si ha la percezione visiva di un rifiuto collettivo e spontaneo nei confronti del pan-sindacalismo che, benché formalmente rimosso con la svolta dell’Eur, continuava a essere praticato nei fatti e a dettar legge nelle relazioni industriali.

Ad avviare per prima una riorganizzazione interna del lavoro è la Olivetti, che aveva il vantaggio di godere della preziosa eredità del fondatore Adriano Olivetti, ispiratore negli anni Sessanta del progetto “Comunità”: forse l’unico esempio di progettazione di ampio respiro nella quale si sia mai impegnato un imprenditore italiano. Passata nelle mani di Carlo De Benedetti, l’azienda di Ivrea effettuerà dapprima un drastico ridimensionamento occupazionale e quindi si rivolgerà al mercato per ricercare nuovi finanziamenti.
Operazione che, potenzialmente, avrebbe potuto significare una decisiva inversione di tendenza rispetto al passato, ma che purtroppo l’Ingegnere sciuperà irrimediabilmente, dimostrandosi un maestro nel “capitalizzare i profitti, socializzando le perdite”.

Eppure, dopo decenni in cui le espansioni industriali avvenivano in prevalenza ricorrendo al credito bancario, esistevano ormai le premesse per abbandonare la via finanziaria allo sviluppo.
Proprio nell’arco di questi anni si registra una prima cauta apertura nei confronti del mercato borsistico, tant’è vero che a una politica punitiva subentra un atteggiamento di maggiore attenzione anche da parte degli organismi istituzionali.

Il passaggio, da molti indicato come epocale, è dunque fortemente segnato da contraddizioni e resistenze. Se ne registra il grado di consistenza, nella misura in cui l’attenzione si concentri su alcuni eventi, non ancora chiariti, verificatisi a cavallo degli anni ’70-80.
Al di là delle suggestioni di certa dietrologia, risulta comunque incontestabile che in quell’arco di tempo si svolge un drammatico contrasto fra i protagonisti della finanza italiana. Un contrasto che da un lato assume tinte fosche, sino a sfociare in una lotta senza quartiere il cui esito finale è addirittura l’eliminazione fisica di alcuni soggetti, e dall’altro rientra appunto nel confronto tra potere economico e politico.

A far da prologo a questa fase convulsa è sicuramente la vicenda Sindona, che molti hanno interpretato entro lo scenario del duello, non solo nazionale, tra le finanze cattolica e laica. Sebbene giustamente Giancarlo Galli, intervistato nel numero precedente di «QR», abbia precisato che esso nasce più che altro “dall’esigenza favolistica di creare una contrapposizione ideologica o addirittura religiosa in un mondo dove questo tipo di contrapposizioni non esiste affatto”; è incontestabile che nel caso Sindona (con le relative appendici del crack dell’Ambrosiano, presieduto da Calvi, in condominio con la loggia P2 di Licio Gelli e Umberto Ortolani) si sia evidenziata nettamente l’esistenza di due fronti contrapposti.
Può darsi che la loro rivalità non risieda nell’ideologia o nella religione, ma rimane il fatto che ricorra nel tempo e si manifesti in ogni fase critica della nostra storia, condizionandone irrimediabilmente l’evolversi.

Letto da un punto di vista esterno, cercando di collocarsi in una prospettiva di lungo periodo, lo scontro può in definitiva ridursi a quello tra gruppi consolidati, forti di una tradizione imprenditoriale garantita da legami internazionali collaudati, e soggetti desiderosi di imporsi a ogni costo, facendo conto da un lato su espedienti e dall’altro sulla costruzione di alleanze determinate da convenienze solo temporanee.

Difficile attribuire quozienti di maggiore dignità agli uni piuttosto che agli altri, tanto più se ci si sofferma sui passaggi più controversi del conflitto. Ad esempio, nel 1974 Michele Sindona è costretto al fallimento quando si appresta a scalare la Bastogi e non prima, benché la Banca d’Italia avesse già in precedenza avuto modo di riscontrare varie irregolarità.
È solo quando, per così dire, sale il livello del confronto, quando cioè il finanziere di Patti tenta di insidiare quello che Napoleone Colajanni definisce “un punto di convergenza di tutte le maggiori imprese italiane”, che scattano le contromisure.

Ancor più significativo il singolare dipanarsi dell’intreccio Calvi-P2. Per averne un’idea, può essere utile riferirsi al caso ENI-Petromin, quale cartina di tornasole dell’altalena di avvicinamenti e collisioni, che contraddistingue i rapporti intessuti dagli ambienti della finanza occulta e corsara con importanti ed influenti settori economici.
Prima che lo scandalo della tangente di 120 miliardi, pagata dall’ENI per la fornitura di petrolio dall’Arabia Saudita, venga alla luce, contrariamente al solito, occorrerà far fronte a una strenua resistenza da parte dei principali organi di stampa.

Ad essere coinvolti, infatti, non è solo il «Corriere della Sera» che, in quella fine 1979, gravitava nell’orbita piduista, ma anche le testate del gruppo Caracciolo-Scalfari, da sempre in ottimi rapporti con i grandi protagonisti del gotha finanziario. Vi è chi, come Massimo Teodori nel suo libro P2: la controstoria (Sugarco), fa risalire tale convergenza d’intenti al patto sottoscritto il 5 luglio 1979 da Calvi, Caracciolo e Scalfari e nell’81 ritrovato dai magistrati di Milano fra le carte sequestrate nella villa di Licio Gelli a Catiglion Fibocchi.
Non è arbitrario ipotizzare, scrive Teodori, “che l’accordo economico fra i due gruppi riflettesse un’intesa politica più sostanziale (...). Più d’uno ha voluto poi vedere nelle tangenti dell’ENI-Petromin lo strumento con cui procedere alla sistemazione dei problemi della stampa, dei gruppi Rizzoli, Monti e Montedison con riflessi sul gruppo Scalfari-Caracciolo. (...)

Certo è che ... non appena corrono le prime voci dello scandalo ENI-Petromin, «La Repubblica» e il «Corriere della Sera» si schierano accanitamente in difesa dell’affaire e della sua legittimità” (p. 127). Ad avversarlo è invece la corrente dei socialisti craxiani, che dietro vi scorge un’alleanza di cui sarebbe partecipe anche la sinistra del Psi e che avrebbe lo scopo di confinarla nuovamente ai margini della vita politica. Come che sia, rimane il fatto che i protagonisti della trama ENI-Petromin risultano tutti componenti della Loggia P2 (da Stammati, all’epoca dell’affare ministro del Commercio estero nel governo presieduto da Andreotti, a Mazzanti, il presidente dell’ENI che autorizzò il versamento miliardario): la stessa loggia che controllava, attraverso Tassan Din, la Rizzoli e quindi il «Corriere della Sera».

Sarà proprio dalle colonne di questo giornale (11 gennaio 1980) che partirà un avvertimento al Psi, riferito alla sua pesante condizione debitoria (a questa data ammonta a più di 9 miliardi) verso il Banco Ambrosiano.
Una condizione condivisa d’altronde con altri partiti: compreso il Pci che, al febbraio 1982, ha uno scoperto di 10 miliardi.
La banca di Calvi, inoltre, accorda dal 1978 in poi una serie di prestiti alla Società “Il Rinnovamento”, editrice del quotidiano di area comunista «Paese sera», sino a raggiungere nell’83 l’ingente somma di 25 miliardi.
Non è pertanto un caso se, passato un primo momento in cui sembrava si volesse fare chiarezza, sul caso ENI-Petromin calerà la nebbia.

Da una coltre altrettanto indistinta sono avvolte le fasi che, dopo la morte di Roberto Calvi, avvenuta il 18 giugno 1982, condurranno alla liquidazione del Banco Ambrosiano, che fra l’altro vedrà passare sotto il controllo degli Agnelli, tramite la società Gemina, il colosso editoriale della Rizzoli.

Un’operazione che può dirsi esemplare (assieme alla compartecipazione all’Abrosiano di De Benedetti, che ne diventa vice-presidente nel 1981, per dimettersi due mesi dopo con una buona uscita di decine di milardi) della tentazione alla finanza facile, dal guadagno a breve termine, alla quale non sanno resistere i grandi gruppi industriali, realizzando il “tradimento” delle premesse insite nel ciclo positivo avviato all’inizio degli anni Ottanta.
Piuttosto che finanziare l’industria, la raccolta dei capitali servirà così a favorire concentrazioni e scalate, le quali ben raramente incontrano ostacoli e tanto meno critiche presso il giornalismo e la pubblicistica nostrani.

I cosiddetti “tre moschettieri” dell’economia italiana - Agnelli, De Benedetti e Gardini - sono impegnati dall’85 in poi in una serie di acquisizioni che richiedono molti fondi, per lo più recuperati con operazioni improprie (aumenti capitali, scatole cinesi).
Da ciò scatuirisce in parte anche il clima euforico degli ambienti finanziari, a cui dà un contributo decisivo una stampa apologetica - fortemente condizionata sul piano editoriale - che di fatto ritarda la reazione nei confronti di una situazione palesemente speculativa.

A farne le spese sono soprattutto le medie imprese, mentre i risparmiatori rimangono disillusi dalla serie di abusi subìti nel mercato.
Nel 1986 si interrompe l’andamento in ascesa del mercato italiano, anticipando di un buon anno il calo registrato da Wall Street il 19 ottobre 1987 cosicché, quando nell’89 la crisi americana si ripercuote in tutte le Borse, Milano ne risente più di ogni altra.
Ad esser venuta meno è l’alleanza fra la media e la grande industria che sino al 1984 sembrava voler tracciare i contorni di un nuovo modello di sviluppo, fondato sul mercato. La diserzione va attribuita appunto ai grossi gruppi, che preferiscono sfruttare al massimo la situazione (basti pensare che il 70% delle emissioni è effettuato da cinque soli soggetti: Fiat, Olivetti, IRI, ENI e Montedison).

Se prima il risparmio di massa si era coniugato con un progetto di sviluppo e di riconversione industriale, con la depressione iniziata nell’86 esso serve soltanto a sostenere i nuclei di comando dei grandi gruppi e i loro disegni.
Purtroppo, però, questi ultimi sono di corto respiro e manca una leadership vera, anche perché chi ne avrebbe le potenzialità ha da rimediare agli errori, confidando prevalentemente sul sostegno pubblico, oppure preferisce salvaguardare innanzi tutto i suoi interessi immediati.

Da parte sua una classe politica, timorosa di veder sostituita dal mercato la mediazione pubblica, risponderà all’arroganza dimostrata dai potentati finanziari con un’offensiva nei loro confronti.
Un’offensiva che, come al solito, alla sfida aperta - spinta sin quasi all’occupazione di spazi loro propri o alla minaccia di aperture agli stranieri - alterna la determinazione a concordare nuovi assetti di potere.

Un episodio che illustra paradigmaticamente questa disposizione è senza dubbio lo stop imposto dal presidente del Consiglio Craxi all’incameramento a prezzi stracciati della Sme da parte di De Benedetti, quando già era stato firmato un protocollo d’intesa con l’allora presidente dell’IRI Romano Prodi.
Esso sta lì a dimostrare che il ceto politico, pur intrecciando una rete di rapporti economici con le imprese, non intende rinunciare alla prerogativa di preservarsi un’area di autonomia nelle sue decisioni.
Proprio in questo sta forse una delle ragioni che porteranno alle inchieste di Mani Pulite.

Inchieste che marceranno come un treno quando si tratterà di smantellare l’assetto politico della prima Repubblica e, in particolare, alcuni suoi esponenti; ma che invece sembrano impantanarsi quando si tratta di chiarire i passaggi controversi del riassestamento azionario della Gemina, un altro scandalo che si appresta a scivolare nell’oblio.
A noi non resta, per ora, che registrare il delinearsi di un ulteriore accentramento oligopolistico, contraltare del tendenziale commissariamento imposto alle nostre istituzioni.

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