Da Famiglia cristiana del 20/09/2005
Originale su http://www.stpauls.it/fc/0539fc/0539fc28.htm
ESCLUSIVO SOMALIA-RIFIUTI TOSSICI: ECCO DOVE SONO SEPOLTE LE PROVE
Attenti al traffico
Lunghi preparativi. Poi due viaggi. E alla fine spuntano i testimoni: «Qui abbiamo sepolto i bidoni». Il magnetometro conferma: il ferro c’è. Adesso tocca a chi di dovere andare a scavare per stabilire di quali sostanze si tratta e di chi è la responsabilità.
di Luciano Scalettari
Articolo presente nelle categorie:
Garowe-Bosaso, Somalia
L’indice punta il terreno arido: «I fusti sono qua sotto. I camion li abbiamo scaricati qui». Siamo nel letto di uno wadi, i torrenti della Somalia secchi per 10 mesi all’anno e in piena travolgente negli altri due.
I due autisti si sono guardati intorno con attenzione prima di indicare il luogo preciso: dopo 18 anni non è facile ricordare il punto. All’epoca lavoravano alla costruzione della strada Garowe-Bosaso, opera italiana nei famosi anni del Fai, Fondo aiuti italiano, che poco fece e tanto sprecò. Per un momento dimentichiamo il caldo soffocante, la stanchezza e le tensioni della spedizione.
Questa strada – che peraltro è diventata la vera spina dorsale per i trasporti di un Paese che non ha più alcuna rete viaria – è da anni l’indiziata numero uno. Tanti sono i "si dice" e le voci sull’ipotesi che lungo il suo tracciato siano stati sepolti materiali pericolosi o radioattivi. Di recente, è stato proprio un ingegnere della Lofemon, Vittorio Brofferio, a dichiarare che gli fu proposto di interrare container sigillati, e che lui rifiutò. E non si può dimenticare che questo è stato l’ultimo tragitto percorso da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, prima di essere uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994.
Le verifiche sul posto erano sempre state impossibili: la Somalia era in guerra civile, senza Stato e istituzioni. Adesso un Governo c’è, e le sue due massime cariche, il presidente Abdullahi Yusuf e il premier Ali Mohamed Ghedi, ci hanno assicurato (anche mettendoci a disposizione i rispettivi portavoce, Yusuf Bari-Bari e Abdullatif Mohamud Abdi) la più totale collaborazione delle autorità nazionali e locali del Puntland e del Medio Shabelle, dimostrando nei fatti la volontà di indagare a fondo su chi dove e quando ha smaltito rifiuti in questa parte del Corno d’Africa.
Sono solo "vernici scadute"?
Da Bosaso abbiamo percorso circa 140 chilometri verso Garowe. La strada dista poche centinaia di metri dal greto del torrente, dove i due autisti ci hanno guidato con sicurezza, lungo una pista laterale, che scende allo wadi passando accanto a un ex frantoio, dove si sminuzzavano le pietre per il fondo stradale. Montiamo con un po’ d’ansia lo strumento e il suo sensore. I due autisti hanno parlato di bidoni, era stato detto loro che si trattava "solo di vernici scadute". Se i fusti ci sono, il magnetometro (così si chiama lo strumento) di sicuro li rileverà, perché individua qualsiasi presenza ferrosa, e nel greto di un torrente somalo di ferro è difficile che ce ne sia.
È l’ultimo giorno, è l’ultima misurazione. Il nostro lungo peregrinare attraverso il Paese volge alla fine. Per tre settimane abbiamo cercato di verificare le tante tracce accumulate nel tempo, che parlano di scarichi di rifiuti, in terra e in mare, di nuove patologie sconosciute, di fusti risputati a riva dallo tsunami.
Il viaggio ha toccato molte delle zone pacificate della Somalia: l’area di Jowhar (oggi sede provvisoria del Governo); i 400 chilometri di costa a nordest di Mogadiscio; la regione del Puntland in tutta la lunghezza, da Galkayo a Bosaso. Realtà diverse: nel Centro-sud della Somalia occorrono 40 uomini armati per garantirci la sicurezza; per il Puntland, assai più tranquillo, bastano un paio di poliziotti.
Così, abbiamo potuto ascoltare i pescatori del Medio Shabelle che dicono di aver visto bidoni sospetti sul fondo marino e che soffrono di sintomi sconosciuti. Medici, somali e italiani, che allargano le braccia di fronte a casi «incompatibili», come li definiscono, «con l’Africa e con le patologie tropicali». E i timori di sindaci e autorità locali per la salute della gente, che ci hanno condotto a vedere qualcuno dei bidoni spiaggiati nei pressi di Igo e Warsheik.
Qualche anno fa il tema rifiuti era tabù. Oggi si è quasi all’eccesso opposto: sintomi ignoti e malformazioni spuntate qua e là hanno alimentano la paura, al punto che – avverte il prof. Mohamed Jama, neurochirurgo all’ospedale di Galkayo – «ora la gente attribuisce tutto all’inquinamento, anche malattie che la medicina conosce già».
Eppure, a sentire gli interessati, qualcosa non va. Ne citiamo alcuni fra i tanti. Hilowle Mohamed Omar, 37 anni, 22 dei quali passati a tuffarsi in mare per pescare aragoste. «Dopo lo tsunami ho visto sul fondo tre bidoni simili a questo», spiega indicando il fusto di Warsheik. «Due interi e uno rotto, con dei ganci ai lati e una catena che li lega. I miei colleghi in altri punti ne hanno visti altri simili. I pescatori», aggiunge, «lamentano spesso irritazioni cutanee e problemi respiratori».
Proprio i sintomi patiti da Mohamud Ali Ahmed, che di anni ne ha 80, pescatore da sempre. La sua irritazione cutanea si è presto trasformata «in piaghe sempre più estese». Le cure non hanno sortito effetti, «finché», dice, «la malattia se n’è andata da sola, com’è venuta, dopo 5 mesi». L’unico medico di Warsheik annuisce: non sapeva di che si trattasse né come guarirlo.
A Missigoweyn, 200 chilometri a nordest di Warsheik, c’è solo un piccolo ambulatorio. Gli ospedali più vicini sono a decine di chilometri. L’unica presenza sanitaria è Yusuf Mohamed Hussein, infermiere. Descrive patologie molto simili: «Eruzioni cutanee, problemi respiratori, qualche caso di emoraggia dalla bocca e dal naso. Nell’ultimo mese si sono rivolte a me 230 persone in tutto, 30 delle quali presentavano malattie di questo tipo, che non conosco».
Malattie in aumento
Psicosi da inquinamento? O effetti di veleni venuti da chissà dove? «Difficile a dirsi», commenta il prof. Jama. «Occorrono analisi e studi precisi, che non siamo in grado di fare. Qui a Galkayo, ad esempio, riscontro un aumento dei tumori al seno. Ma qual è la causa? I rifiuti tossici o gli antennoni piazzati di recente? Posso aggiungere che in 20 anni i casi di epilessia in Somalia sono passati da circa 300 a oltre 1.500. E abbiamo alcuni casi all’anno di gravi malformazioni nei bambini, specie all’apparato urogenitale. Ma è un fatto noto, che si verifica anche nel resto del mondo. I casi in Somalia stanno aumentando, o è solo che i genitori oggi si rivolgono più spesso al medico? Insomma, bisogna stare attenti al rischio di allarmismi».
Nell’ultima settimana del nostro viaggio cerchiamo di individuare dei siti. Puntiamo al luogo su cui vi sono più indizi, la strada costruita dai consorzi italiani Lofemon (Lodigiani-Federici-Montedil) e Saces (Cogefar-Astaldi-Edilter), tra l’86 e l’89. La ricerca inizia a Garowe, attraverso il formidabile passaparola dei somali. Il primo a darci una mano è Aseyr Ghelle Mohamed. Ci conduce in due posti e ci spiega una cosa fondamentale: «Se il vostro strumento rileva il ferro, potete escludere che si tratti di bidoni vuoti o rottami innocui. Qui il metallo è prezioso. All’epoca, i fusti vuoti venivano addirittura tagliati e ci si passava sopra col rullo compressore, per ottenerne fogli di lamiera».
Aseyr ci conduce da Mireh Hagi Ahmed, che 18 anni fa era capocantiere nel primo tratto, quello della Lofemon. Mireh ci indica alcuni siti "sospetti" dove c’erano fosse o frantoi, ora interrati («non sono stato testimone di sotterramenti, ma se il fatto è avvenuto, è probabile che sia successo là»). E i rilievi del magnetometro in due dei posti confermano la presenza di ferro. Mireh non s’accontenta: «Vi aiuto io a trovare gente che ha lavorato sulla strada».
Alla fine dell’ultima nostra giornata disponibile si presentano i due autisti. Il loro racconto è asciutto: «Ci hanno detto di prelevare il carico di vernici scadute e di andare a scaricare in determinati luoghi». Ci portano: due greti di torrente, il primo – chiamato Dhud – a 90 chilometri da Bosaso, l’altro a 140, nello wadi Jiifis, vicino a Dalweyn. Entrambi nel tratto di strada della Saces.
Adesso bisogna scavare
«Nel primo sito c’erano cinque o sei cave scavate per il materiale della strada. Noi e altri autisti le abbiamo riempite con questi piccoli fusti di una ventina di chili ciascuno», raccontano. Nello wadi, però, il magnetometro non rileva nulla. Il letto del torrente è largo, di anni ne sono passati tanti, e basta sbagliare di 30 metri perché lo strumento non capti il metallo. Lasciamo il posto delusi, noi e loro. Ma il secondo sito è molto più identificabile. Gli autisti lo ricordano bene. Il magnetometro comincia a funzionare. E dopo pochi metri già non ci sono dubbi: c’è materiale ferroso.
È la conferma al loro racconto: verso la fine del 1988 arrivò una nave che, come le altre, portava il materiale per la costruzione della strada. Il carico, però, questa volta era costituito da bitume e da piccoli fusti. «Prelevammo il carico», raccontano, «e come al solito lo portammo al magazzino dell’aeroporto. Poi altri camionisti, con mezzi più grandi trasportarono i bidoni nei pressi dei frantoi. Toccò di nuovo a noi scaricarli nelle buche. Avvenne di notte, tra dicembre ’88 e gennaio ’89. Erano buche profonde, col camion ci scendevamo dentro e scaricavamo tutto, alla rinfusa».
Non sanno indicare il nome della nave («stava in rada», dicono. «Il materiale arrivava al porto sulla chiatta»), né da chi partisse l’ordine dato loro di effettuare il seppellimento. Queste cose, del resto, tocca ad altri accertarle. Abdullahi Yusuf Aden e Abdulkarim Said Osman, i due autisti, sperano solo che ora si possano portar via quei fusti, se sono davvero tossici. «Noi viviamo qui», sottolineano. «Allora, non avevamo la minima idea che potesse essere materiale pericoloso». Ora occorre verificare cosa indica quella presenza di metallo. Basta scavare.
Luciano Scalettari
COME È NATA LA SPEDIZIONE
L’idea di un viaggio in Somalia era stata cullata da tempo. Famiglia Cristiana (con i suoi giornalisti Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari), insieme a Francesco Cavalli dell’Associazione "Ilaria Alpi" di Riccione, l’aveva progettato già due anni fa. Non solo per raccontare l’unico Paese al mondo che per 15 anni è sopravvissuto senza istituzioni, ma anche per provare a dare un ulteriore contributo sul caso Alpi-Hrovatin (ne parleremo nel prossimo numero) e sui traffici illeciti italo-somali.
Tuttavia, si era dovuto rinunciare per l’insicurezza del Paese. Qualche mese fa, invece, si è aperto uno spiraglio. A una nostra richiesta, Yusuf Bari-Bari, portavoce del neoeletto presidente della Somalia, aveva risposto: «Ora c’è un Governo. Si può fare». Così, si è messa insieme la squadra: oltre a Scalettari e Cavalli, hanno partecipato l’onorevole Mauro Bulgarelli, dei Verdi, membro (autosospeso) della Commissione parlamentare sul caso Alpi-Hrovatin, e il regista e operatore Alessandro Rocca (che realizzerà con Cavalli alcuni reportage televisivi sul tema).
Complessa è stata la preparazione e grandi le difficoltà. Tanto che i viaggi sono diventati due, in meno di un mese, per un totale di tre settimane in Somalia.
Essenziale è stato procurarsi e imparare a usare il magnetometro (fattoci giungere dalla Codevintec di Milano dall’Inghilterra), uno strumento usato in geofisica capace di "leggere" la presenza di metalli nel sottosuolo. In questo modo, alle testimonianze di chi ci ha raccontato di aver seppellito rifiuti abbiamo potuto associare un dato scientifico e la posizione Gps. Chiunque potrà tornare nei luoghi e verificare: dati, testimoni e documentazione raccolti sono a disposizione.
IL PARERE DELL’ESPERTO SUI RILIEVI
Tre dei rilievi effettuati col magneto-metro hanno indicato la presenza di materiale ferroso nei siti. Uno di questi (Wadi 2) ci è stato indicato esplicitamente come luogo di occultamento di rifiuti. Sono evidenziati nelle foto qui accanto, con l’elaborazione grafica dei dati.
Il magnetometro rileva l’intensità del campo magnetico. I colori mostrano quella normale (in giallo) e le "anomalie", ossia la presenza di materiale ferromagnetico. Il rosso indica l’intensità della parte positiva, il blu quella negativa. Abbiamo chiesto una lettura dei dati a uno dei maggiori esperti italiani nell’uso di queste tecniche a scopi di tutela ambientale, il dottor Marco Marchetti, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e consulente, fra l’altro, della Commissione parlamentare sui rifiuti.
«Prima di analizzare le mappe», spiega, «c’è da considerare che i siti rilevati sono vicini all’Equatore. Il campo magnetico ha un’intensità minore rispetto alle nostre latitudini e un’inclinazione quasi orizzontale. Questo influisce molto sulla geometria e sull’intensità delle anomalie. A quelle latitudini le anomalie presentano due picchi positivi all’esterno e un marcato picco negativo all’interno».
Può commentare i tre rilievi?
«Nel primo è presente una chiara anomalia magnetica, di modesta estensione; le masse ferromagnetiche non dovrebbero essere molto consistenti. Il rilievo 2 comprende quasi tutta l’anomalia, e manca il lobo a sud. Qui il materiale presente dovrebbe essere maggiore e l’intensità dell’anomalia è molto superiore. Potrebbe anche significare che si trovino a minore profondità. L’anomalia della terza figura fa pensare a un discreto quantitativo di materiale ferroso, anche se il rilievo manca della parte sinistra che, come riferitomi, non si poteva misurare a causa di ostacoli naturali».
Se ne può stabilire la profondità?
«Si dovrebbero elaborare modelli inserendo i parametri geomagnetici e geologici della località. Ma dovrebbero essere poco profonde. Non avendo casistica sulla Somalia, l’interpretazione ha qualche elemento di incertezza maggiore. Ma sono dati sufficienti, in ogni caso, ad accertare con uno scavo natura e consistenza delle masse».
L.SC.
ANCHE IL GOVERNO SOMALO VUOLE LA VERITÀ
«Dobbiamo proteggere le risorse nazionali, tutelare il nostro ambiente naturale e rimuovere i rifiuti tossici e industriali che sono stati gettati sulle nostre spiagge». Sono parole pronunciate dal premier Ali Mohamed Ghedi al summit dell’Unione africana, nel luglio scorso. Il Governo somalo pone il problema fra le priorità, come conferma il portavoce del presidente Abdullahi Yusuf: «La nuova leadership somala è decisa a risolvere le contraddizioni del passato», dice Yusuf Bari-Bari, «pensando alle generazioni del futuro. Rientra in quest’ambito il tema dei rifiuti, che richiede un approccio razionale, scevro da strumentalizzazioni politiche». L’obiettivo immediato, aggiunge, è «realizzare un accurato monitoraggio nel Paese e una completa bonifica. E prevenire il ripetersi di simili attività illecite». «Sarebbe ingiusto», aggiunge, «che da episodi circoscritti emergesse l’immagine di una Somalia "discarica internazionale". Cosa non vera e inaccettabile».
Monitoraggio e bonifica sono anche le parole d’ordine dell’onorevole Mauro Bulgarelli, dei Verdi. «Questo, ora, è compito della politica: il nostro Governo, l’Unione europea, l’agenzia Onu per l’ambiente devono dare il massimo sostegno al Governo somalo. Anche perché i rifiuti pericolosi vengono prodotti da sistemi industriali e produttivi che la Somalia di certo non ha. È un problema che noi, Paesi ricchi, abbiamo creato, e di cui dobbiamo farci carico».
«Questa spedizione», conclude Bulgarelli, «realizzata con pochi mezzi e risorse, dimostra che si può intervenire, con efficacia e tempestività».
«È un impegno morale che possiamo prendere tutti, a prescindere da schieramenti e colore politico», insiste Francesco Cavalli, fondatore dell’Associazione "Ilaria Alpi", ma anche del noto premio giornalistico-televisivo di Riccione. «Gli indizi e le indagini giornalistiche svolte in questi anni sull’omicidio di Ilaria e Miran e sui traffici illeciti hanno oggi una conferma. Abbiamo qualche certezza in più. È quindi un punto d’arrivo, ma anche di partenza, che può dare nuovo vigore alle inchieste giudiziarie e parlamentari di casa nostra».
L.SC
L’indice punta il terreno arido: «I fusti sono qua sotto. I camion li abbiamo scaricati qui». Siamo nel letto di uno wadi, i torrenti della Somalia secchi per 10 mesi all’anno e in piena travolgente negli altri due.
I due autisti si sono guardati intorno con attenzione prima di indicare il luogo preciso: dopo 18 anni non è facile ricordare il punto. All’epoca lavoravano alla costruzione della strada Garowe-Bosaso, opera italiana nei famosi anni del Fai, Fondo aiuti italiano, che poco fece e tanto sprecò. Per un momento dimentichiamo il caldo soffocante, la stanchezza e le tensioni della spedizione.
Questa strada – che peraltro è diventata la vera spina dorsale per i trasporti di un Paese che non ha più alcuna rete viaria – è da anni l’indiziata numero uno. Tanti sono i "si dice" e le voci sull’ipotesi che lungo il suo tracciato siano stati sepolti materiali pericolosi o radioattivi. Di recente, è stato proprio un ingegnere della Lofemon, Vittorio Brofferio, a dichiarare che gli fu proposto di interrare container sigillati, e che lui rifiutò. E non si può dimenticare che questo è stato l’ultimo tragitto percorso da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, prima di essere uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994.
Le verifiche sul posto erano sempre state impossibili: la Somalia era in guerra civile, senza Stato e istituzioni. Adesso un Governo c’è, e le sue due massime cariche, il presidente Abdullahi Yusuf e il premier Ali Mohamed Ghedi, ci hanno assicurato (anche mettendoci a disposizione i rispettivi portavoce, Yusuf Bari-Bari e Abdullatif Mohamud Abdi) la più totale collaborazione delle autorità nazionali e locali del Puntland e del Medio Shabelle, dimostrando nei fatti la volontà di indagare a fondo su chi dove e quando ha smaltito rifiuti in questa parte del Corno d’Africa.
Sono solo "vernici scadute"?
Da Bosaso abbiamo percorso circa 140 chilometri verso Garowe. La strada dista poche centinaia di metri dal greto del torrente, dove i due autisti ci hanno guidato con sicurezza, lungo una pista laterale, che scende allo wadi passando accanto a un ex frantoio, dove si sminuzzavano le pietre per il fondo stradale. Montiamo con un po’ d’ansia lo strumento e il suo sensore. I due autisti hanno parlato di bidoni, era stato detto loro che si trattava "solo di vernici scadute". Se i fusti ci sono, il magnetometro (così si chiama lo strumento) di sicuro li rileverà, perché individua qualsiasi presenza ferrosa, e nel greto di un torrente somalo di ferro è difficile che ce ne sia.
È l’ultimo giorno, è l’ultima misurazione. Il nostro lungo peregrinare attraverso il Paese volge alla fine. Per tre settimane abbiamo cercato di verificare le tante tracce accumulate nel tempo, che parlano di scarichi di rifiuti, in terra e in mare, di nuove patologie sconosciute, di fusti risputati a riva dallo tsunami.
Il viaggio ha toccato molte delle zone pacificate della Somalia: l’area di Jowhar (oggi sede provvisoria del Governo); i 400 chilometri di costa a nordest di Mogadiscio; la regione del Puntland in tutta la lunghezza, da Galkayo a Bosaso. Realtà diverse: nel Centro-sud della Somalia occorrono 40 uomini armati per garantirci la sicurezza; per il Puntland, assai più tranquillo, bastano un paio di poliziotti.
Così, abbiamo potuto ascoltare i pescatori del Medio Shabelle che dicono di aver visto bidoni sospetti sul fondo marino e che soffrono di sintomi sconosciuti. Medici, somali e italiani, che allargano le braccia di fronte a casi «incompatibili», come li definiscono, «con l’Africa e con le patologie tropicali». E i timori di sindaci e autorità locali per la salute della gente, che ci hanno condotto a vedere qualcuno dei bidoni spiaggiati nei pressi di Igo e Warsheik.
Qualche anno fa il tema rifiuti era tabù. Oggi si è quasi all’eccesso opposto: sintomi ignoti e malformazioni spuntate qua e là hanno alimentano la paura, al punto che – avverte il prof. Mohamed Jama, neurochirurgo all’ospedale di Galkayo – «ora la gente attribuisce tutto all’inquinamento, anche malattie che la medicina conosce già».
Eppure, a sentire gli interessati, qualcosa non va. Ne citiamo alcuni fra i tanti. Hilowle Mohamed Omar, 37 anni, 22 dei quali passati a tuffarsi in mare per pescare aragoste. «Dopo lo tsunami ho visto sul fondo tre bidoni simili a questo», spiega indicando il fusto di Warsheik. «Due interi e uno rotto, con dei ganci ai lati e una catena che li lega. I miei colleghi in altri punti ne hanno visti altri simili. I pescatori», aggiunge, «lamentano spesso irritazioni cutanee e problemi respiratori».
Proprio i sintomi patiti da Mohamud Ali Ahmed, che di anni ne ha 80, pescatore da sempre. La sua irritazione cutanea si è presto trasformata «in piaghe sempre più estese». Le cure non hanno sortito effetti, «finché», dice, «la malattia se n’è andata da sola, com’è venuta, dopo 5 mesi». L’unico medico di Warsheik annuisce: non sapeva di che si trattasse né come guarirlo.
A Missigoweyn, 200 chilometri a nordest di Warsheik, c’è solo un piccolo ambulatorio. Gli ospedali più vicini sono a decine di chilometri. L’unica presenza sanitaria è Yusuf Mohamed Hussein, infermiere. Descrive patologie molto simili: «Eruzioni cutanee, problemi respiratori, qualche caso di emoraggia dalla bocca e dal naso. Nell’ultimo mese si sono rivolte a me 230 persone in tutto, 30 delle quali presentavano malattie di questo tipo, che non conosco».
Malattie in aumento
Psicosi da inquinamento? O effetti di veleni venuti da chissà dove? «Difficile a dirsi», commenta il prof. Jama. «Occorrono analisi e studi precisi, che non siamo in grado di fare. Qui a Galkayo, ad esempio, riscontro un aumento dei tumori al seno. Ma qual è la causa? I rifiuti tossici o gli antennoni piazzati di recente? Posso aggiungere che in 20 anni i casi di epilessia in Somalia sono passati da circa 300 a oltre 1.500. E abbiamo alcuni casi all’anno di gravi malformazioni nei bambini, specie all’apparato urogenitale. Ma è un fatto noto, che si verifica anche nel resto del mondo. I casi in Somalia stanno aumentando, o è solo che i genitori oggi si rivolgono più spesso al medico? Insomma, bisogna stare attenti al rischio di allarmismi».
Nell’ultima settimana del nostro viaggio cerchiamo di individuare dei siti. Puntiamo al luogo su cui vi sono più indizi, la strada costruita dai consorzi italiani Lofemon (Lodigiani-Federici-Montedil) e Saces (Cogefar-Astaldi-Edilter), tra l’86 e l’89. La ricerca inizia a Garowe, attraverso il formidabile passaparola dei somali. Il primo a darci una mano è Aseyr Ghelle Mohamed. Ci conduce in due posti e ci spiega una cosa fondamentale: «Se il vostro strumento rileva il ferro, potete escludere che si tratti di bidoni vuoti o rottami innocui. Qui il metallo è prezioso. All’epoca, i fusti vuoti venivano addirittura tagliati e ci si passava sopra col rullo compressore, per ottenerne fogli di lamiera».
Aseyr ci conduce da Mireh Hagi Ahmed, che 18 anni fa era capocantiere nel primo tratto, quello della Lofemon. Mireh ci indica alcuni siti "sospetti" dove c’erano fosse o frantoi, ora interrati («non sono stato testimone di sotterramenti, ma se il fatto è avvenuto, è probabile che sia successo là»). E i rilievi del magnetometro in due dei posti confermano la presenza di ferro. Mireh non s’accontenta: «Vi aiuto io a trovare gente che ha lavorato sulla strada».
Alla fine dell’ultima nostra giornata disponibile si presentano i due autisti. Il loro racconto è asciutto: «Ci hanno detto di prelevare il carico di vernici scadute e di andare a scaricare in determinati luoghi». Ci portano: due greti di torrente, il primo – chiamato Dhud – a 90 chilometri da Bosaso, l’altro a 140, nello wadi Jiifis, vicino a Dalweyn. Entrambi nel tratto di strada della Saces.
Adesso bisogna scavare
«Nel primo sito c’erano cinque o sei cave scavate per il materiale della strada. Noi e altri autisti le abbiamo riempite con questi piccoli fusti di una ventina di chili ciascuno», raccontano. Nello wadi, però, il magnetometro non rileva nulla. Il letto del torrente è largo, di anni ne sono passati tanti, e basta sbagliare di 30 metri perché lo strumento non capti il metallo. Lasciamo il posto delusi, noi e loro. Ma il secondo sito è molto più identificabile. Gli autisti lo ricordano bene. Il magnetometro comincia a funzionare. E dopo pochi metri già non ci sono dubbi: c’è materiale ferroso.
È la conferma al loro racconto: verso la fine del 1988 arrivò una nave che, come le altre, portava il materiale per la costruzione della strada. Il carico, però, questa volta era costituito da bitume e da piccoli fusti. «Prelevammo il carico», raccontano, «e come al solito lo portammo al magazzino dell’aeroporto. Poi altri camionisti, con mezzi più grandi trasportarono i bidoni nei pressi dei frantoi. Toccò di nuovo a noi scaricarli nelle buche. Avvenne di notte, tra dicembre ’88 e gennaio ’89. Erano buche profonde, col camion ci scendevamo dentro e scaricavamo tutto, alla rinfusa».
Non sanno indicare il nome della nave («stava in rada», dicono. «Il materiale arrivava al porto sulla chiatta»), né da chi partisse l’ordine dato loro di effettuare il seppellimento. Queste cose, del resto, tocca ad altri accertarle. Abdullahi Yusuf Aden e Abdulkarim Said Osman, i due autisti, sperano solo che ora si possano portar via quei fusti, se sono davvero tossici. «Noi viviamo qui», sottolineano. «Allora, non avevamo la minima idea che potesse essere materiale pericoloso». Ora occorre verificare cosa indica quella presenza di metallo. Basta scavare.
Luciano Scalettari
COME È NATA LA SPEDIZIONE
L’idea di un viaggio in Somalia era stata cullata da tempo. Famiglia Cristiana (con i suoi giornalisti Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari), insieme a Francesco Cavalli dell’Associazione "Ilaria Alpi" di Riccione, l’aveva progettato già due anni fa. Non solo per raccontare l’unico Paese al mondo che per 15 anni è sopravvissuto senza istituzioni, ma anche per provare a dare un ulteriore contributo sul caso Alpi-Hrovatin (ne parleremo nel prossimo numero) e sui traffici illeciti italo-somali.
Tuttavia, si era dovuto rinunciare per l’insicurezza del Paese. Qualche mese fa, invece, si è aperto uno spiraglio. A una nostra richiesta, Yusuf Bari-Bari, portavoce del neoeletto presidente della Somalia, aveva risposto: «Ora c’è un Governo. Si può fare». Così, si è messa insieme la squadra: oltre a Scalettari e Cavalli, hanno partecipato l’onorevole Mauro Bulgarelli, dei Verdi, membro (autosospeso) della Commissione parlamentare sul caso Alpi-Hrovatin, e il regista e operatore Alessandro Rocca (che realizzerà con Cavalli alcuni reportage televisivi sul tema).
Complessa è stata la preparazione e grandi le difficoltà. Tanto che i viaggi sono diventati due, in meno di un mese, per un totale di tre settimane in Somalia.
Essenziale è stato procurarsi e imparare a usare il magnetometro (fattoci giungere dalla Codevintec di Milano dall’Inghilterra), uno strumento usato in geofisica capace di "leggere" la presenza di metalli nel sottosuolo. In questo modo, alle testimonianze di chi ci ha raccontato di aver seppellito rifiuti abbiamo potuto associare un dato scientifico e la posizione Gps. Chiunque potrà tornare nei luoghi e verificare: dati, testimoni e documentazione raccolti sono a disposizione.
IL PARERE DELL’ESPERTO SUI RILIEVI
Tre dei rilievi effettuati col magneto-metro hanno indicato la presenza di materiale ferroso nei siti. Uno di questi (Wadi 2) ci è stato indicato esplicitamente come luogo di occultamento di rifiuti. Sono evidenziati nelle foto qui accanto, con l’elaborazione grafica dei dati.
Il magnetometro rileva l’intensità del campo magnetico. I colori mostrano quella normale (in giallo) e le "anomalie", ossia la presenza di materiale ferromagnetico. Il rosso indica l’intensità della parte positiva, il blu quella negativa. Abbiamo chiesto una lettura dei dati a uno dei maggiori esperti italiani nell’uso di queste tecniche a scopi di tutela ambientale, il dottor Marco Marchetti, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e consulente, fra l’altro, della Commissione parlamentare sui rifiuti.
«Prima di analizzare le mappe», spiega, «c’è da considerare che i siti rilevati sono vicini all’Equatore. Il campo magnetico ha un’intensità minore rispetto alle nostre latitudini e un’inclinazione quasi orizzontale. Questo influisce molto sulla geometria e sull’intensità delle anomalie. A quelle latitudini le anomalie presentano due picchi positivi all’esterno e un marcato picco negativo all’interno».
Può commentare i tre rilievi?
«Nel primo è presente una chiara anomalia magnetica, di modesta estensione; le masse ferromagnetiche non dovrebbero essere molto consistenti. Il rilievo 2 comprende quasi tutta l’anomalia, e manca il lobo a sud. Qui il materiale presente dovrebbe essere maggiore e l’intensità dell’anomalia è molto superiore. Potrebbe anche significare che si trovino a minore profondità. L’anomalia della terza figura fa pensare a un discreto quantitativo di materiale ferroso, anche se il rilievo manca della parte sinistra che, come riferitomi, non si poteva misurare a causa di ostacoli naturali».
Se ne può stabilire la profondità?
«Si dovrebbero elaborare modelli inserendo i parametri geomagnetici e geologici della località. Ma dovrebbero essere poco profonde. Non avendo casistica sulla Somalia, l’interpretazione ha qualche elemento di incertezza maggiore. Ma sono dati sufficienti, in ogni caso, ad accertare con uno scavo natura e consistenza delle masse».
L.SC.
ANCHE IL GOVERNO SOMALO VUOLE LA VERITÀ
«Dobbiamo proteggere le risorse nazionali, tutelare il nostro ambiente naturale e rimuovere i rifiuti tossici e industriali che sono stati gettati sulle nostre spiagge». Sono parole pronunciate dal premier Ali Mohamed Ghedi al summit dell’Unione africana, nel luglio scorso. Il Governo somalo pone il problema fra le priorità, come conferma il portavoce del presidente Abdullahi Yusuf: «La nuova leadership somala è decisa a risolvere le contraddizioni del passato», dice Yusuf Bari-Bari, «pensando alle generazioni del futuro. Rientra in quest’ambito il tema dei rifiuti, che richiede un approccio razionale, scevro da strumentalizzazioni politiche». L’obiettivo immediato, aggiunge, è «realizzare un accurato monitoraggio nel Paese e una completa bonifica. E prevenire il ripetersi di simili attività illecite». «Sarebbe ingiusto», aggiunge, «che da episodi circoscritti emergesse l’immagine di una Somalia "discarica internazionale". Cosa non vera e inaccettabile».
Monitoraggio e bonifica sono anche le parole d’ordine dell’onorevole Mauro Bulgarelli, dei Verdi. «Questo, ora, è compito della politica: il nostro Governo, l’Unione europea, l’agenzia Onu per l’ambiente devono dare il massimo sostegno al Governo somalo. Anche perché i rifiuti pericolosi vengono prodotti da sistemi industriali e produttivi che la Somalia di certo non ha. È un problema che noi, Paesi ricchi, abbiamo creato, e di cui dobbiamo farci carico».
«Questa spedizione», conclude Bulgarelli, «realizzata con pochi mezzi e risorse, dimostra che si può intervenire, con efficacia e tempestività».
«È un impegno morale che possiamo prendere tutti, a prescindere da schieramenti e colore politico», insiste Francesco Cavalli, fondatore dell’Associazione "Ilaria Alpi", ma anche del noto premio giornalistico-televisivo di Riccione. «Gli indizi e le indagini giornalistiche svolte in questi anni sull’omicidio di Ilaria e Miran e sui traffici illeciti hanno oggi una conferma. Abbiamo qualche certezza in più. È quindi un punto d’arrivo, ma anche di partenza, che può dare nuovo vigore alle inchieste giudiziarie e parlamentari di casa nostra».
L.SC
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