Da Corriere della Sera del 30/09/2005
Originale su http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CRONACA_DI_ROMA&doc=BIAN
Esce nelle sale il film di Michele Placido tratto dal libro di Giancarlo De Cataldo sulla banda che ha insanguinato Roma per quindici anni
Traditi e traditori, con le mani nel sangue
La banda della Magliana dagli esordi alle sepolture in cattedrale
di Giovanni Bianconi
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I luoghi hanno una loro suggestione, a volte una simbologia. E certo è suggestivo, e volendo anche simbolico, che la scena finale del film «Romanzo criminale» si svolga sulla scalinata della basilica di Sant’Agostino. A due passi da piazza Navona, ma soprattutto alle spalle di Sant’Apollinare, la chiesa dov’è stranamente sepolto uno che della banda della Magliana ha fatto parte veramente: Enrico De Pedis, detto «Renatino».
Nel film è Dandi, ma nel finale non c’è, lui è già morto ammazzato. Sul sagrato, prima dei titoli di coda, viene ucciso il Freddo, che era andato lì per ammazzare Ciro, il quale ha fatto saltare in aria la sua fidanzata, Roberta, per vendicare il fratello al quale il Freddo aveva aperto la pancia; si chiamava Aldo, il fratello, e a sua volta aveva tagliato la gola ai guardaspalle di un ex alleato del gruppo, Gemito, poi crivellato di colpi per aver ucciso a coltellate il Libanese, amico del Freddo e del Dandi, che in precedenza avevano ammazzato... Andando a ritroso, di delitto in delitto, si arriva ai titoli di testa, due ore e mezzo prima, quando quattro ragazzini nemmeno adolescenti si ritrovano in una baracca del litorale, inseguiti dalla polizia e intenti ad affibbiarsi soprannomi. «Io me vojo chiamà Dandi», dice uno. E perché? «Perché me piace esse come Fred Astaire, in frac pure a colazione» (e magari sepolto in una basilica, tra papi e cardinali, ma questo non viene detto). E’ l’inizio di Romanzo criminale , film ispirato all’omonimo libro che ripercorre le gesta della banda chiamata «della Magliana». Con molte sintesi della realtà, alcune forzature, qualche invenzione. Un romanzo, insomma. Ma la struttura dei fatti narrati è ciò che accadde a Roma e non solo, tra il 1977 e il 1983, con delle propaggini che arrivano al ’92.
Una storia dove i banditi finiscono per essere descritti come buoni e i poliziotti cattivi, s’è detto. Ma a ben guardare - il film e il romanzo, oltre che la realtà - proprio buoni quei banditi non sembrano. Quanto ai poliziotti cattivi, difficile immaginare che non ce ne fossero per davvero, se quegli stessi banditi hanno potuto scorrazzare per tanto tempo, finendo in galera ogni tanto, ma giusto il tempo necessario a trovare il modo per uscirne.
Mentre il Libanese (al secolo Franco Giuseppucci, 1947-1980, morto con una pallottola in corpo rimediata in pazza San Cosimato, nel cuore di Trastevere) fa la guardia al duca sequestrato per ottenere un riscatto miliardario, a un certo punto apre la botola in cui è rinchiuso l’ostaggio e gli sputa in testa. Da sottoterra si sente il vecchio che chiede aiuto, ma il Libanese richiude la botola e ordina: «Statte zitto». Difficile scorgere qualcosa di buono in uno così. E tantomeno di eroico. Certo, in altre scene il Libanese fa appello all’amicizia che però il Freddo è pronto a tradire, quando capisce che i suoi amici sono al servizio di qualcosa che non capisce, un «gioco più grande» fatto di stragi e omicidi su commissione. Una forzatura con qualche punta di dietrologia, si dirà: ma il cadavere di uno del gruppo rimasto su un marciapiede di Milano mentre sparava al vice-presidente del Banco Ambrosiano è una realtà che appartiene alla banda della Magliana, e forse ne ha segnato l’inizio della fine.
Ancora, in un’altra scena il Dandi è pronto a fare a pezzi (letteralmente, con una mannaia) il Secco che riciclava e moltiplicava i soldi della banda, da lui stesso reclutato, quando scopre che quello li stava fregando. E il Freddo (con lo stesso Dandi e il Libanese) affonda un coltello nella schiena del Terribile col quale s’erano accordati poco prima per spartirsi il mercato della droga a Roma. Che cosa c’è di romantico in un simile mix di violenza e voltafaccia? Naturalmente nel romanzo e nel film ci sono anche aspetti affascinanti che contornano le figure dei banditi, ma è il cosiddetto «fascino del male». Che male resta.
Nella realtà, fu persino divertente assistere a qualche siparietto tra i pentiti della banda e i loro ex colleghi. Maurizio Abbatino (la figura che ha ispirato il Freddo) aveva deciso di collaborare coi giudici perché «noi eravamo legati da un’amicizia che implicava dei doveri, gli aiuti e altre cose. Io invece non sono stato aiutato. Non rimprovero niente ai compagni, però logicamente non mi interessa più niente di loro, e quindi non ho difficoltà a fare dichiarazioni». Al processo un imputato gli gridò in faccia che mentre lui stava già con Giuseppucci «tu annavi ancora pe’ fusaje». Risposta di Abbatino: «Ma che ve pensate che i collaboratori hanno cambiato carattere? Pe’ me ce possono chiude dentro ’na stanza quanno te pare», e quello: «Io te smonto come un pupazzetto!».
Fu naturale ridere davanti a questo ed altri scambi di battute. Ma nulla poteva né può cancellare i fatti che c’erano dietro: traffici di droga, omicidi, tradimenti e ancora omicidi. Vere e proprie esecuzioni consumate da chi fino al giorno prima aveva condiviso amori e cene con la vittima. In un clima nel quale perizie, compiacenze e prove manomesse hanno garantito l’impunità. Ancora durante il processo, Abbatino alias il Freddo a un imputato da lui indicato come coautore di un omicidio il quale gli ricordava di avere un alibi per il giorno del delitto ribatté: «Ahò, ma io ho preso la pensione de invalidità e tu stai ancora a parlà de alibi!». Come dire che con i soldi, la corruzione e le minacce i banditi della Magliana (che poi fossero «testaccini», dell’Alberone o di Acilia poco cambia) potevano comprare qualunque cosa.
Per raccontare tutto questo possono tornare utili anche le suggestioni e certe fascinazioni di un romanzo o di un film. Perché è la storia di ciò che è accaduto sotto il cielo di questa città, dove un bandito morto ammazzato in strada riposa in una cripta inaccessibile in territorio Vaticano. A pochi metri da dove finisce l’esistenza del Freddo, e con lui il romanzo criminale che lo ha trasformato da bambino attratto dalle macchine sportive a bandito assassino. Tradito e traditore.
Nel film è Dandi, ma nel finale non c’è, lui è già morto ammazzato. Sul sagrato, prima dei titoli di coda, viene ucciso il Freddo, che era andato lì per ammazzare Ciro, il quale ha fatto saltare in aria la sua fidanzata, Roberta, per vendicare il fratello al quale il Freddo aveva aperto la pancia; si chiamava Aldo, il fratello, e a sua volta aveva tagliato la gola ai guardaspalle di un ex alleato del gruppo, Gemito, poi crivellato di colpi per aver ucciso a coltellate il Libanese, amico del Freddo e del Dandi, che in precedenza avevano ammazzato... Andando a ritroso, di delitto in delitto, si arriva ai titoli di testa, due ore e mezzo prima, quando quattro ragazzini nemmeno adolescenti si ritrovano in una baracca del litorale, inseguiti dalla polizia e intenti ad affibbiarsi soprannomi. «Io me vojo chiamà Dandi», dice uno. E perché? «Perché me piace esse come Fred Astaire, in frac pure a colazione» (e magari sepolto in una basilica, tra papi e cardinali, ma questo non viene detto). E’ l’inizio di Romanzo criminale , film ispirato all’omonimo libro che ripercorre le gesta della banda chiamata «della Magliana». Con molte sintesi della realtà, alcune forzature, qualche invenzione. Un romanzo, insomma. Ma la struttura dei fatti narrati è ciò che accadde a Roma e non solo, tra il 1977 e il 1983, con delle propaggini che arrivano al ’92.
Una storia dove i banditi finiscono per essere descritti come buoni e i poliziotti cattivi, s’è detto. Ma a ben guardare - il film e il romanzo, oltre che la realtà - proprio buoni quei banditi non sembrano. Quanto ai poliziotti cattivi, difficile immaginare che non ce ne fossero per davvero, se quegli stessi banditi hanno potuto scorrazzare per tanto tempo, finendo in galera ogni tanto, ma giusto il tempo necessario a trovare il modo per uscirne.
Mentre il Libanese (al secolo Franco Giuseppucci, 1947-1980, morto con una pallottola in corpo rimediata in pazza San Cosimato, nel cuore di Trastevere) fa la guardia al duca sequestrato per ottenere un riscatto miliardario, a un certo punto apre la botola in cui è rinchiuso l’ostaggio e gli sputa in testa. Da sottoterra si sente il vecchio che chiede aiuto, ma il Libanese richiude la botola e ordina: «Statte zitto». Difficile scorgere qualcosa di buono in uno così. E tantomeno di eroico. Certo, in altre scene il Libanese fa appello all’amicizia che però il Freddo è pronto a tradire, quando capisce che i suoi amici sono al servizio di qualcosa che non capisce, un «gioco più grande» fatto di stragi e omicidi su commissione. Una forzatura con qualche punta di dietrologia, si dirà: ma il cadavere di uno del gruppo rimasto su un marciapiede di Milano mentre sparava al vice-presidente del Banco Ambrosiano è una realtà che appartiene alla banda della Magliana, e forse ne ha segnato l’inizio della fine.
Ancora, in un’altra scena il Dandi è pronto a fare a pezzi (letteralmente, con una mannaia) il Secco che riciclava e moltiplicava i soldi della banda, da lui stesso reclutato, quando scopre che quello li stava fregando. E il Freddo (con lo stesso Dandi e il Libanese) affonda un coltello nella schiena del Terribile col quale s’erano accordati poco prima per spartirsi il mercato della droga a Roma. Che cosa c’è di romantico in un simile mix di violenza e voltafaccia? Naturalmente nel romanzo e nel film ci sono anche aspetti affascinanti che contornano le figure dei banditi, ma è il cosiddetto «fascino del male». Che male resta.
Nella realtà, fu persino divertente assistere a qualche siparietto tra i pentiti della banda e i loro ex colleghi. Maurizio Abbatino (la figura che ha ispirato il Freddo) aveva deciso di collaborare coi giudici perché «noi eravamo legati da un’amicizia che implicava dei doveri, gli aiuti e altre cose. Io invece non sono stato aiutato. Non rimprovero niente ai compagni, però logicamente non mi interessa più niente di loro, e quindi non ho difficoltà a fare dichiarazioni». Al processo un imputato gli gridò in faccia che mentre lui stava già con Giuseppucci «tu annavi ancora pe’ fusaje». Risposta di Abbatino: «Ma che ve pensate che i collaboratori hanno cambiato carattere? Pe’ me ce possono chiude dentro ’na stanza quanno te pare», e quello: «Io te smonto come un pupazzetto!».
Fu naturale ridere davanti a questo ed altri scambi di battute. Ma nulla poteva né può cancellare i fatti che c’erano dietro: traffici di droga, omicidi, tradimenti e ancora omicidi. Vere e proprie esecuzioni consumate da chi fino al giorno prima aveva condiviso amori e cene con la vittima. In un clima nel quale perizie, compiacenze e prove manomesse hanno garantito l’impunità. Ancora durante il processo, Abbatino alias il Freddo a un imputato da lui indicato come coautore di un omicidio il quale gli ricordava di avere un alibi per il giorno del delitto ribatté: «Ahò, ma io ho preso la pensione de invalidità e tu stai ancora a parlà de alibi!». Come dire che con i soldi, la corruzione e le minacce i banditi della Magliana (che poi fossero «testaccini», dell’Alberone o di Acilia poco cambia) potevano comprare qualunque cosa.
Per raccontare tutto questo possono tornare utili anche le suggestioni e certe fascinazioni di un romanzo o di un film. Perché è la storia di ciò che è accaduto sotto il cielo di questa città, dove un bandito morto ammazzato in strada riposa in una cripta inaccessibile in territorio Vaticano. A pochi metri da dove finisce l’esistenza del Freddo, e con lui il romanzo criminale che lo ha trasformato da bambino attratto dalle macchine sportive a bandito assassino. Tradito e traditore.
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