Da Corriere della Sera del 30/09/2005
Algeria, un referendum per «abolire» il conflitto
I militanti per i diritti civili: «Lo Stato così si assolve, non ci sarà giustizia»
di Massimo Nava
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PARIGI - Si può mettere fine a una guerra civile per referendum? Si possono cancellare con una scheda duecentomila morti, orrendi massacri, migliaia di sparizioni, terrorismo islamico e terrore di Stato? Sono domande che angosciano diciotto milioni di algerini chiamati a pronunciarsi sulla «carta per la pace e la riconciliazione» proposta dal presidente, Abdelaziz Bouteflika, per chiudere il capitolo più sanguinoso della storia del Paese, dopo la guerra d'indipendenza.
Tredici anni di sangue, lontano dall'attenzione del mondo, che pure avrebbe dovuto leggere nel conflitto dinamiche non molto diverse da quelle irachene: fondamentalismo islamico, dittatura militare, controllo di immense risorse energetiche, eredità del colonialismo. L'esito della consultazione è scontato, il suo valore dipende dal tasso di partecipazione: oltre il 65 per cento alle 17 di ieri.
Il ricorso al perdono ricorda il precedente del Sud Africa, ma non suscita molte speranze nella società algerina, stretta nella morsa del terrorismo di matrice islamica e della repressione del potere politico, a sua volta condizionato dai militari e dalle caste che controllano l'economia. Non solo per l'insopprimibile bisogno di giustizia per le migliaia di vittime innocenti, scomparse nel nulla in un infernale ingranaggio in cui terrorismo e repressione di Stato si sono forniti alibi a vicenda. Ma soprattutto per le ambiguità di una proposta che vorrebbe cancellare il passato, senza garantire una piena svolta democratica.
Associazioni delle vittime e movimenti civili denunciano la sostanziale differenza con la «commissione per la verità e la giustizia» in Sud Africa: il referendum algerino non presuppone l'accertamento delle responsabilità individuali e assolve gli apparati dello Stato.
Nei panni del riconciliatore, Bouteflika - rieletto con 83,5 per cento dei voti nel 2004 - punta a un terzo mandato e ad affrancarsi dalle ipoteche militari senza fare troppe concessioni all'opposizione, alla stampa, al ruolo del parlamento, alle prime «vittime» della guerra civile. La piena democrazia comporterebbe peraltro il rischio di una progressiva islamizzazione del Paese, secondo il principio «un uomo, un voto» che fu all'origine del conflitto, quando, nel 1992, il colpo di Stato annullò le elezioni vinte dal Fronte islamico di salvezza (Fis).
Nei piani del presidente algerino, c'è un regime stabile, pacificato, protetto dalle capitali occidentali, amico dell'ex potenza coloniale, la Francia. L'anno scorso, Chirac è stato accolto con un bagno di folla ad Algeri. Parigi è pronta a firmare un trattato di amicizia, anche se i tempi sono ritardati da polemiche sulla storia coloniale che hanno dato a Bouteflika la possibilità di riaffermare identità e valori nazionali. Le casse dello Stato sono piene, grazie ai proventi del petrolio (40 miliardi di dollari nel 2005) e liberano risorse per grandi lavori pubblici e ridurre il tasso di disoccupazione al 25 per cento. Il dinamismo economico coinvolge anche gli islamici riciclati nel commercio e negli affari. La scommessa di Bouteflika è che l'oblio e la pacificazione si possano anche comprare.
Per il presidente, il referendum rappresenta lo sbocco di un processo di concordia avviato con le leggi del 1999, la resa di ex terroristi, la deposizione delle armi e l'avvio di negoziati discreti. Tuttavia, con meno virulenza, i massacri sono continuati, le libertà civili non si sono affermate e l'esplosione della rivolta berbera nella Cabila ha fornito nuovi argomenti per il pugno di ferro.
L'ambiguità del processo emerge dalle componenti sociali che si sono schierate a favore del sì: sia partiti d'ispirazione islamica, leader del disciolto Fis, gruppi protagonisti di azioni armate sia ambienti militari che portano la principale responsabilità delle sparizioni di civili e oppositori. La riconciliazione esclude responsabili di massacri di massa o di attentati in luoghi pubblici, ma cancella le responsabilità dello Stato, salvo un'offerta d'indennizzo ai familiari delle vittime.
Nel testo sottoposto a referendum si afferma che lo Stato non è responsabile delle sparizioni di civili, oltre 6.000 secondo le associazioni delle famiglie. Questa oggettiva convergenza d'interessi fra nemici - islamismo radicale e militari - viene denunciata dai partiti d'opposizione, dai movimenti di difesa dei diritti dell'uomo e da componenti della società civile che hanno fatto appello al boicottaggio del voto e protestano per l'overdose di propaganda ufficiale. «La riconciliazione nazionale non può avvenire che attraverso la verità e la giustizia», ha detto Ali Yahia Abdennour, presidente della Lega dei diritti dell'uomo.
Tredici anni di sangue, lontano dall'attenzione del mondo, che pure avrebbe dovuto leggere nel conflitto dinamiche non molto diverse da quelle irachene: fondamentalismo islamico, dittatura militare, controllo di immense risorse energetiche, eredità del colonialismo. L'esito della consultazione è scontato, il suo valore dipende dal tasso di partecipazione: oltre il 65 per cento alle 17 di ieri.
Il ricorso al perdono ricorda il precedente del Sud Africa, ma non suscita molte speranze nella società algerina, stretta nella morsa del terrorismo di matrice islamica e della repressione del potere politico, a sua volta condizionato dai militari e dalle caste che controllano l'economia. Non solo per l'insopprimibile bisogno di giustizia per le migliaia di vittime innocenti, scomparse nel nulla in un infernale ingranaggio in cui terrorismo e repressione di Stato si sono forniti alibi a vicenda. Ma soprattutto per le ambiguità di una proposta che vorrebbe cancellare il passato, senza garantire una piena svolta democratica.
Associazioni delle vittime e movimenti civili denunciano la sostanziale differenza con la «commissione per la verità e la giustizia» in Sud Africa: il referendum algerino non presuppone l'accertamento delle responsabilità individuali e assolve gli apparati dello Stato.
Nei panni del riconciliatore, Bouteflika - rieletto con 83,5 per cento dei voti nel 2004 - punta a un terzo mandato e ad affrancarsi dalle ipoteche militari senza fare troppe concessioni all'opposizione, alla stampa, al ruolo del parlamento, alle prime «vittime» della guerra civile. La piena democrazia comporterebbe peraltro il rischio di una progressiva islamizzazione del Paese, secondo il principio «un uomo, un voto» che fu all'origine del conflitto, quando, nel 1992, il colpo di Stato annullò le elezioni vinte dal Fronte islamico di salvezza (Fis).
Nei piani del presidente algerino, c'è un regime stabile, pacificato, protetto dalle capitali occidentali, amico dell'ex potenza coloniale, la Francia. L'anno scorso, Chirac è stato accolto con un bagno di folla ad Algeri. Parigi è pronta a firmare un trattato di amicizia, anche se i tempi sono ritardati da polemiche sulla storia coloniale che hanno dato a Bouteflika la possibilità di riaffermare identità e valori nazionali. Le casse dello Stato sono piene, grazie ai proventi del petrolio (40 miliardi di dollari nel 2005) e liberano risorse per grandi lavori pubblici e ridurre il tasso di disoccupazione al 25 per cento. Il dinamismo economico coinvolge anche gli islamici riciclati nel commercio e negli affari. La scommessa di Bouteflika è che l'oblio e la pacificazione si possano anche comprare.
Per il presidente, il referendum rappresenta lo sbocco di un processo di concordia avviato con le leggi del 1999, la resa di ex terroristi, la deposizione delle armi e l'avvio di negoziati discreti. Tuttavia, con meno virulenza, i massacri sono continuati, le libertà civili non si sono affermate e l'esplosione della rivolta berbera nella Cabila ha fornito nuovi argomenti per il pugno di ferro.
L'ambiguità del processo emerge dalle componenti sociali che si sono schierate a favore del sì: sia partiti d'ispirazione islamica, leader del disciolto Fis, gruppi protagonisti di azioni armate sia ambienti militari che portano la principale responsabilità delle sparizioni di civili e oppositori. La riconciliazione esclude responsabili di massacri di massa o di attentati in luoghi pubblici, ma cancella le responsabilità dello Stato, salvo un'offerta d'indennizzo ai familiari delle vittime.
Nel testo sottoposto a referendum si afferma che lo Stato non è responsabile delle sparizioni di civili, oltre 6.000 secondo le associazioni delle famiglie. Questa oggettiva convergenza d'interessi fra nemici - islamismo radicale e militari - viene denunciata dai partiti d'opposizione, dai movimenti di difesa dei diritti dell'uomo e da componenti della società civile che hanno fatto appello al boicottaggio del voto e protestano per l'overdose di propaganda ufficiale. «La riconciliazione nazionale non può avvenire che attraverso la verità e la giustizia», ha detto Ali Yahia Abdennour, presidente della Lega dei diritti dell'uomo.
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