Da Corriere della Sera del 24/10/2005
Br, scontro sulla protezione della Banelli
Niente programma per la pentita: la Procura insiste con il Viminale
di Giovanni Bianconi
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ROMA - Il tempo di mettere a punto l’appello contro la condanna a vent’anni di carcere, e la Procura tornerà alla carica con il Viminale. Obiettivo: ottenere il programma di protezione per Cinzia Banelli, l’ex brigatista divenuta collaboratrice di giustizia finora sempre «respinta» dalla commissione del ministero dell’Interno presieduta dal sottosegretario Alfredo Mantovano, di Alleanza nazionale. Per due volte, nonostante il ministro Pisanu abbia pubblicamente sottolineato il «contributo non irrilevante» della prima e finora unica pentita delle nuove Br, i commissari hanno bocciato la richiesta. Ma ora c’è qualche elemento in più. La principale novità risale alla fine di settembre: su richiesta del collega dell’Interno, il ministro della Giustizia ha inflitto ad alcuni brigatisti ergastolani il regime del «carcere duro» previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento. Quello riservato ai boss mafiosi. Tra questi Nadia Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Diana Blefari Melazzi. E Laura Proietti, che s’è dissociata dopo aver confessato l’appartenenza alle Br e la partecipazione al delitto D’Antona. Nei provvedimenti notificati ai detenuti c’è scritto che il giro di vite è necessario per tagliare i contatti con «l’associazione terroristica tuttora operante e tuttora dedita all’attività di proselitismo e di organizzazione, nonché alla programmazione, di gravissimi delitti».
Dunque le nuove Br per lo Stato sono vive, vegete e ancora pericolose. Su un altro versante, però, lo stesso Stato ritiene di non dover proteggere il principale «nemico» delle Br. Anche se il questore di Pisa, territorio dove Cinzia Banelli abita agli arresti domiciliari, ha segnalato la difficoltà di sorvegliare una casa definita «obiettivo vulnerabile», assieme alla presenza nell’area pisana «di simpatizzanti della organizzazione terroristica della nominata (cioè la Banelli, ndr ), o comunque di portatori di ideologie violente della stessa area politica, di soggetti di opposta parte politica ma anche dell’esistenza di gruppi eversivi che alle Br si sono ispirati». Situazione di pericolo, quindi, secondo la polizia. Ma per la commissione del Viminale (in cui è presente anche un magistrato che da giudice delle indagini preliminari di Roma ha partecipato alla prima parte dell’inchiesta sul delitto D’Antona) il contributo della Banelli ai processi contro le nuove Br non è stato così rilevante da meritare il programma. I documenti scoperti grazie alle password dei computer brigatisti forniti dalla pentita, ad esempio, «nulla aggiungono in termini di novità rilevante» rispetto a quel che gli inquirenti avevano già scoperto. Valutazione condivisa, nella sostanza, dai due giudici di Roma e Bologna che hanno condannato la pentita rispettivamente a venti e sedici anni di carcere per gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Senza gli sconti di pena previsti dall’apposita legge sui collaboratori di giustizia.
Di tutt’altro avviso sono state le corti d’assise che hanno condannato gli altri brigatisti accusati dei delitti, infliggendo ergastoli proprio sulla base delle dichiarazioni della pentita. A Bologna l’hanno definita «l’io narrante» del processo; a Roma ne hanno sottolineato «la massima coerenza e precisione nel riferire dettagliatamente i fatti dei quali era a conoscenza». La controprova è che gli indizi raccolti a carico degli imputati di omicidio di cui la Banelli non ha parlato non sono bastati a far scattare le condanne.
Un groviglio giuridico-amministrativo che l’avvocato Grazia Volo, difensore di Cinzia Banelli, commenta così: «Io e il mio studio abbiamo accettato questa difesa per dare un contributo alla soluzione di due terribili delitti e per provare a capire le ragioni che hanno portato alla riproposizione del terrorismo. Ma ottenuta l’abiura della mia assistita, alcuni giudici hanno invertito il criterio di valutazione facendo prevalere il giudizio etico sulla rilevanza della collaborazione. Con la conseguenza che ora la Banelli si trova in una specie di limbo. Per inspiegabili o indicibili beghe annidate nella commissione pentiti del Viminale, e per pregressi conflitti personali negli uffici giudiziari di Roma, si è arrivati a decisioni che sono in stridente contrasto con precedenti scelte con cui è stata attribuita la patente di pentito a soggetti che non hanno dato alcun contributo».
Dunque le nuove Br per lo Stato sono vive, vegete e ancora pericolose. Su un altro versante, però, lo stesso Stato ritiene di non dover proteggere il principale «nemico» delle Br. Anche se il questore di Pisa, territorio dove Cinzia Banelli abita agli arresti domiciliari, ha segnalato la difficoltà di sorvegliare una casa definita «obiettivo vulnerabile», assieme alla presenza nell’area pisana «di simpatizzanti della organizzazione terroristica della nominata (cioè la Banelli, ndr ), o comunque di portatori di ideologie violente della stessa area politica, di soggetti di opposta parte politica ma anche dell’esistenza di gruppi eversivi che alle Br si sono ispirati». Situazione di pericolo, quindi, secondo la polizia. Ma per la commissione del Viminale (in cui è presente anche un magistrato che da giudice delle indagini preliminari di Roma ha partecipato alla prima parte dell’inchiesta sul delitto D’Antona) il contributo della Banelli ai processi contro le nuove Br non è stato così rilevante da meritare il programma. I documenti scoperti grazie alle password dei computer brigatisti forniti dalla pentita, ad esempio, «nulla aggiungono in termini di novità rilevante» rispetto a quel che gli inquirenti avevano già scoperto. Valutazione condivisa, nella sostanza, dai due giudici di Roma e Bologna che hanno condannato la pentita rispettivamente a venti e sedici anni di carcere per gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Senza gli sconti di pena previsti dall’apposita legge sui collaboratori di giustizia.
Di tutt’altro avviso sono state le corti d’assise che hanno condannato gli altri brigatisti accusati dei delitti, infliggendo ergastoli proprio sulla base delle dichiarazioni della pentita. A Bologna l’hanno definita «l’io narrante» del processo; a Roma ne hanno sottolineato «la massima coerenza e precisione nel riferire dettagliatamente i fatti dei quali era a conoscenza». La controprova è che gli indizi raccolti a carico degli imputati di omicidio di cui la Banelli non ha parlato non sono bastati a far scattare le condanne.
Un groviglio giuridico-amministrativo che l’avvocato Grazia Volo, difensore di Cinzia Banelli, commenta così: «Io e il mio studio abbiamo accettato questa difesa per dare un contributo alla soluzione di due terribili delitti e per provare a capire le ragioni che hanno portato alla riproposizione del terrorismo. Ma ottenuta l’abiura della mia assistita, alcuni giudici hanno invertito il criterio di valutazione facendo prevalere il giudizio etico sulla rilevanza della collaborazione. Con la conseguenza che ora la Banelli si trova in una specie di limbo. Per inspiegabili o indicibili beghe annidate nella commissione pentiti del Viminale, e per pregressi conflitti personali negli uffici giudiziari di Roma, si è arrivati a decisioni che sono in stridente contrasto con precedenti scelte con cui è stata attribuita la patente di pentito a soggetti che non hanno dato alcun contributo».
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