Da Aprile del 01/11/2005
Originale su http://www.aprileonline.info/articolo.asp?ID=6933&numero='40'
Inchieste. Il legale di Fi, presidente della Commissione parlamentare sull'assassinio, cala il sipario sul caso. La rabbia della famiglia
La ''letteratura giornalistica'' di Taormina. Ilaria Alpi uccisa due volte
di Marzia Bonacci
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Il tempo decisamente non giova alla ricerca della verità sull’assassinio dell’inviata del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, uccisi il 20 marzo del 1994 in Somalia.
A undici anni di distanza dalla morte dei due giornalisti, infatti, non rimane che una confusa matassa di depistaggi, di perizie smentite, di sottrazione di materiali importanti mai ritrovati e di ancora inspiegabili collusioni fra governi, servizi segreti, corpi militari e interessi ecomafiosi. Gli ingredienti per riconoscere la tradizionale storia italiana, che lega Ustica alle stragi di Stato, sembrerebbero dunque esserci tutti.
E’ proprio questa fitta nebbia di misteri a far apparire importanti le nuove acquisizioni che sul caso Alpi sono state ottenute negli scorsi mesi, culminate nella dichiarazione dell’avvocato Carlo Taormina lo scorso venerdì. Secondo il legale, infatti, la pista del traffico di armi e di rifiuti, che da più di un decennio è stata considerata la via principale verso l’accertamento della verità, è semplice “letteratura giornalistica”. Per comprendere il senso dell’affermazione del legale di Fi, dal luglio 2003 presidente della Commissione parlamentare istituita per indagare sul caso, è opportuno ripercorrere brevemente gli ultimi sviluppi in merito alla morte di Ilaria e di Miran.
Il 17 settembre 2005 arriva all’aeroporto di Pratica di Mare la Toyota pick-up, l'auto su cui furono uccisi i due cronisti italiani. Il veicolo viene trasferita presso i laboratori della Polizia Scientifica, dove prendono il via gli accertamenti balistici e medico-legali. Nello stesso periodo il settimanale Famiglia Cristiana pubblica un’inchiesta condotta a Bosaso, in Somalia, dal giornalista Luciano Scalettari, dal deputato verde Mauro Bulgarelli, da Francesco Cavalli (fondatore del premio “Alpi”) e dal regista Francesco Rocca. L’inchiesta, opera dell’attività di un giornale da sempre attento a non far cadere l’oblio sull’assassinio somalo del 20 marzo, attesta il ritrovamento di rifiuti tossici proprio nella zona in cui la giornalista e il suo cameraman stavano lavorando. La documentazione prodotta è accolta lo stesso 28 settembre dalla Commissione parlamentare sull’Ecomafia, interessata da tempo ad accertare il presunto –nemmeno troppo- traffico di rifiuti illegali che viene organizzato da anni tra la Somalia e l’Italia. Del resto già Lega ambiente, Greenpeace e Wwf avevano denunciato il ritrovamento sulla costa somala di ingenti quantità di rifiuti altamente pericolosi, affiorati in superficie in seguito al drammatico tsunami del marzo scorso.
Venerdì 26 ottobre vengono resi pubblici i risultati degli esami condotti sull’auto: la morte di Ilaria e Miran non sarebbe stata una vera esecuzione perché il colpo che uccise la giornalista, ferendola mortalmente alla testa, fu sparato in modo diretto da una sola arma posizionata ad una decina di metri dalla vettura. Crolla perciò la tradizionale dinamica sostenuta dalla famiglia, che vedeva la morte di Ilaria come una esecuzione in pieno stile: l’assassino che apre la portiera posteriore e punta l’arma su Ilaria sparandole a bruciapelo. I risultati degli esami scientifici condotti sulla vettura permettono a Taormina di abbandonare la pista più scomoda –quella della vendetta per l’attività che la giornalista stava portando avanti in Somalia sul traffico di armi e di rifiuti radioattivi che coinvolgeva le sfere politiche occidentali - e di sostenere l’ipotesi di una rappresaglia islamica.
Da tempo, infatti, il principe del foro, che vanta all’attivo la difesa di pii cristiani come Erich Priebke e Saddam Hussein, è incline a vedere la morte di Ilaria Alpi e del suo collega come un evento accidentale o al massimo come una ritorsione fondamentalista per l’attività svolta dall’inviata a favore delle donne somale. Con grande soddisfazione, quindi, il dottor Taormina ha tacciato la pista del trasporto nero dei rifiuti occidentali verso l’Africa, che veniva retribuita con la cessione di armi, come “letteratura giornalistica”. Il riferimento è chiaramente indirizzato all’inchiesta del giornale cattolico, ma va a coinvolgere anche l’attività che in passato diverse riviste, in primis l’Espresso, hanno condotto sul caso. L’ipotesi di un legame fra il caso Alpi e l’indagine della Procura calabrese in relazione all’affondamento nel Corno d’Africa di navi cariche di rifiuti tossici è stata infatti sostenuta dal settimanale di Scalfari. Di quel legame, però, Taormina non si è mai detto convinto, nonostante il procuratore di Reggio Calabria, Francesco Neri, abbia presentato diversi documenti sull'esistenza di un legame tra traffico internazionale di rifiuti, che coinvolgeva i governi europei e che aveva il suo coordinatore nell’ingegner Giorgio Comerio, e la morte dell’inviata. Il procuratore Neri racconta, infatti, che in casa di Comerio i carabinieri reggini hanno ritrovato un certificato di morte di Ilaria Alpi, custodito all’interno di un incartamento in cui veniva esplicato il progetto O.d.m. (Oceanic Disposal menagement), ovvero l’idea di seppellire nel mare africano i rifiuti prodotti in Europa e anche in Italia. L’attività della procura di Reggio smentisce la convinzione di Taormina secondo cui la pista rifiuti illeciti sarebbe soltanto una trovata fantascientifica della stampa, la quale da anni sarebbe responsabile di aver spinto le indagini su binari morti incapaci di condurre verso la verità.
Ora Taormina, però, ha detto basta con i presunti dietrismi giornalistici e appare sempre più intenzionato a far accettare la sua tesi. Ma la famiglia di Ilaria Alpi, fresca di querela proprio da parte dell'avvocato, non è convinta e non lo sono nemmeno i tanti colleghi, che all’avvocato appaiono come fantasiosi inventori di spy story. Alla base della loro convinzione ci sono i pochi appunti ritrovati in cui la giornalista si chiedeva “Dove sono finiti i 14.000 miliardi investiti dalla Cooperazione italiana in Somalia?”. Lei la risposta l’aveva cominciata a trovare nel legame fra governi occidentali – qualcuno parlava di politici italiani vicini al leader del Psi Bettino Craxi- e signori della guerra africani. I primi interessati a fare dell’Africa la discarica radioattiva dell’ opulento Occidente e i secondi, in cambio dell’accoglienza delle navi cariche di scorie e camuffate dalla missione umanitaria (come la Shifco per esempio), desiderosi di guadagnarsi le armi per la loro lotta intestina
A undici anni di distanza dalla morte dei due giornalisti, infatti, non rimane che una confusa matassa di depistaggi, di perizie smentite, di sottrazione di materiali importanti mai ritrovati e di ancora inspiegabili collusioni fra governi, servizi segreti, corpi militari e interessi ecomafiosi. Gli ingredienti per riconoscere la tradizionale storia italiana, che lega Ustica alle stragi di Stato, sembrerebbero dunque esserci tutti.
E’ proprio questa fitta nebbia di misteri a far apparire importanti le nuove acquisizioni che sul caso Alpi sono state ottenute negli scorsi mesi, culminate nella dichiarazione dell’avvocato Carlo Taormina lo scorso venerdì. Secondo il legale, infatti, la pista del traffico di armi e di rifiuti, che da più di un decennio è stata considerata la via principale verso l’accertamento della verità, è semplice “letteratura giornalistica”. Per comprendere il senso dell’affermazione del legale di Fi, dal luglio 2003 presidente della Commissione parlamentare istituita per indagare sul caso, è opportuno ripercorrere brevemente gli ultimi sviluppi in merito alla morte di Ilaria e di Miran.
Il 17 settembre 2005 arriva all’aeroporto di Pratica di Mare la Toyota pick-up, l'auto su cui furono uccisi i due cronisti italiani. Il veicolo viene trasferita presso i laboratori della Polizia Scientifica, dove prendono il via gli accertamenti balistici e medico-legali. Nello stesso periodo il settimanale Famiglia Cristiana pubblica un’inchiesta condotta a Bosaso, in Somalia, dal giornalista Luciano Scalettari, dal deputato verde Mauro Bulgarelli, da Francesco Cavalli (fondatore del premio “Alpi”) e dal regista Francesco Rocca. L’inchiesta, opera dell’attività di un giornale da sempre attento a non far cadere l’oblio sull’assassinio somalo del 20 marzo, attesta il ritrovamento di rifiuti tossici proprio nella zona in cui la giornalista e il suo cameraman stavano lavorando. La documentazione prodotta è accolta lo stesso 28 settembre dalla Commissione parlamentare sull’Ecomafia, interessata da tempo ad accertare il presunto –nemmeno troppo- traffico di rifiuti illegali che viene organizzato da anni tra la Somalia e l’Italia. Del resto già Lega ambiente, Greenpeace e Wwf avevano denunciato il ritrovamento sulla costa somala di ingenti quantità di rifiuti altamente pericolosi, affiorati in superficie in seguito al drammatico tsunami del marzo scorso.
Venerdì 26 ottobre vengono resi pubblici i risultati degli esami condotti sull’auto: la morte di Ilaria e Miran non sarebbe stata una vera esecuzione perché il colpo che uccise la giornalista, ferendola mortalmente alla testa, fu sparato in modo diretto da una sola arma posizionata ad una decina di metri dalla vettura. Crolla perciò la tradizionale dinamica sostenuta dalla famiglia, che vedeva la morte di Ilaria come una esecuzione in pieno stile: l’assassino che apre la portiera posteriore e punta l’arma su Ilaria sparandole a bruciapelo. I risultati degli esami scientifici condotti sulla vettura permettono a Taormina di abbandonare la pista più scomoda –quella della vendetta per l’attività che la giornalista stava portando avanti in Somalia sul traffico di armi e di rifiuti radioattivi che coinvolgeva le sfere politiche occidentali - e di sostenere l’ipotesi di una rappresaglia islamica.
Da tempo, infatti, il principe del foro, che vanta all’attivo la difesa di pii cristiani come Erich Priebke e Saddam Hussein, è incline a vedere la morte di Ilaria Alpi e del suo collega come un evento accidentale o al massimo come una ritorsione fondamentalista per l’attività svolta dall’inviata a favore delle donne somale. Con grande soddisfazione, quindi, il dottor Taormina ha tacciato la pista del trasporto nero dei rifiuti occidentali verso l’Africa, che veniva retribuita con la cessione di armi, come “letteratura giornalistica”. Il riferimento è chiaramente indirizzato all’inchiesta del giornale cattolico, ma va a coinvolgere anche l’attività che in passato diverse riviste, in primis l’Espresso, hanno condotto sul caso. L’ipotesi di un legame fra il caso Alpi e l’indagine della Procura calabrese in relazione all’affondamento nel Corno d’Africa di navi cariche di rifiuti tossici è stata infatti sostenuta dal settimanale di Scalfari. Di quel legame, però, Taormina non si è mai detto convinto, nonostante il procuratore di Reggio Calabria, Francesco Neri, abbia presentato diversi documenti sull'esistenza di un legame tra traffico internazionale di rifiuti, che coinvolgeva i governi europei e che aveva il suo coordinatore nell’ingegner Giorgio Comerio, e la morte dell’inviata. Il procuratore Neri racconta, infatti, che in casa di Comerio i carabinieri reggini hanno ritrovato un certificato di morte di Ilaria Alpi, custodito all’interno di un incartamento in cui veniva esplicato il progetto O.d.m. (Oceanic Disposal menagement), ovvero l’idea di seppellire nel mare africano i rifiuti prodotti in Europa e anche in Italia. L’attività della procura di Reggio smentisce la convinzione di Taormina secondo cui la pista rifiuti illeciti sarebbe soltanto una trovata fantascientifica della stampa, la quale da anni sarebbe responsabile di aver spinto le indagini su binari morti incapaci di condurre verso la verità.
Ora Taormina, però, ha detto basta con i presunti dietrismi giornalistici e appare sempre più intenzionato a far accettare la sua tesi. Ma la famiglia di Ilaria Alpi, fresca di querela proprio da parte dell'avvocato, non è convinta e non lo sono nemmeno i tanti colleghi, che all’avvocato appaiono come fantasiosi inventori di spy story. Alla base della loro convinzione ci sono i pochi appunti ritrovati in cui la giornalista si chiedeva “Dove sono finiti i 14.000 miliardi investiti dalla Cooperazione italiana in Somalia?”. Lei la risposta l’aveva cominciata a trovare nel legame fra governi occidentali – qualcuno parlava di politici italiani vicini al leader del Psi Bettino Craxi- e signori della guerra africani. I primi interessati a fare dell’Africa la discarica radioattiva dell’ opulento Occidente e i secondi, in cambio dell’accoglienza delle navi cariche di scorie e camuffate dalla missione umanitaria (come la Shifco per esempio), desiderosi di guadagnarsi le armi per la loro lotta intestina
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