Da L'Unità del 18/10/2005
Intervista a: Dalia Rabin Filosof
"Solo il dialogo porta sicurezza. Rabin, mio padre, lo capì"
di Umberto De Giovannangeli
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«La sua lezione non è andata perduta. La lezione di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa di Israele, in prima fila sui campi di battaglia, quando gli eserciti arabi minacciavano la nostra esistenza; così come è stato in prima fila nell’avviare il dialogo con la controparte palestinese, sapendo bene, da generale e statista, che la sicurezza di Israele non sarà mai garantita dalla sola forza del suo esercito. Sette anni dopo, questa verità non è stata cancellata ma, semmai, rafforzata dal sanguinoso conflitto in corso. Mio padre non si è mai piegato ai ricatti della violenza e del terrorismo ma era consapevole che occorreva dimostrare ai palestinesi che esisteva un’altra strada per conquistare i propri diritti. La strada del dialogo e del compromesso. Per questo ha combattuto e per questo è stato ucciso». Israele ha celebrato ieri, conformemente al calendario lunare ebraico, il settimo anniversario dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin, ucciso il 4 novembre 1995 a Tel Aviv da un giovane estremista di destra, Yigal Amir. Della lezione lasciata dal «generale che osò fare la pace con il nemico di sempre, Yasser Arafat», l’Unità ne parla con Dalia Rabin Filosof, 51 anni, la figlia maggiore del premier laburista, colei che in nome di Yitzhak Rabin ha deciso di entrare in politica, eletta alla Knesset e in seguito vice ministro della Difesa, incarico da cui si è dimessa «perché non condividevo più la scelta del mio partito (il Labour, ndr.) di continuare a far parte di un governo che, passo dopo passo, stava cancellando gli accordi di Oslo e distruggendo ogni possibilità di ripresa del processo di pace».
Sette anni dopo, Israele ricorda Yitzhak Rabin. Ma c’è chi sostiene che gli eventi hanno dimostrato il fallimento della sua lezione.
«È vero l’esatto contrario. Mio padre non era un pacifista romantico, un illuso. Per tutta la vita aveva combattuto per la sicurezza di Israele. Ma da questa esperienza aveva tratto la convinzione che la sicurezza di Israele non poteva essere affidata alla sola forza del suo esercito. Occorreva la politica, aprire un percorso negoziale, offrire alla controparte palestinese una possibilità di riscatto. Senza cedimenti ma con la consapevolezza che una pace duratura, una pace nella sicurezza, dovesse essere ricercata ad un tavolo negoziale, riconoscendo anche le ragioni e le aspirazioni della controparte. Sette anni dopo i fatti hanno dimostrato che questa lezione è ancora del tutto valida, perché non esiste una scorciatoia militare alla soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Eppure alla Knesset, Shimon Peres ha dovuto difendere gli accordi di Oslo dal duro attacco della destra oltranzista.
«Costoro sono gli stessi che alimentarono un clima di odio e di vergognosi attacchi personali nei confronti di mio padre. Ricordo ancora le manifestazioni in cui veniva tacciato di essere un traditore del popolo ebraico, di aver spianato il terreno per una nuova Shoah. Ed è in questo clima di intimidazione, di odio ideologico, che è maturato l’assassinio di mio padre. Yigal Amir avrà forse agito da solo ma sono in molti ad avergli armato ideologicamente la mano. E alcuni di essi ricoprono importanti incarichi politici e di governo».
Gli accordi di Oslo, sostengono i loro detrattori, avevano messo in secondo piano la questione cruciale della sicurezza.
«Non è così. Mio padre aveva a cuore la sicurezza di Israele, per la quale aveva combattuto per tutta una vita. Per questo aveva voluto che al primo punto della Dichiarazione di Oslo-Washington vi fosse il rigetto da parte palestinese dell’uso della violenza per affrontare i contenziosi ancora aperti...».
Ma a scatenare la violenza, replicherebbero i critici di Oslo, è stato Yasser Arafat.
«Non ho mai messo in discussione il diritto di Israele a difendersi con la massima determinazione dagli attacchi terroristici, così come ho più volte censurato l’avventurismo di Arafat e la sua illusione di poter ottenere di più alimentando la violenza, ma resto convinta che per essere davvero incisiva la risposta di Israele non può muoversi solo sul terreno militare. Purtroppo, ciò che è venuto meno dall’attuale governo è un orizzonte politico, e la mancanza di una strategia di pace impedisce la ripresa di un dialogo proficuo almeno con quei dirigenti palestinesi, e non sono pochi, che si stanno battendo per le riforme e per un reale processo di democratizzazione all’interno dell’Anp che porti ad un ridimensionamento sostanziale del ruolo e dei poteri di Arafat».
Lei motivò le sue dimissioni dall’Esecutivo sostenendo che era proprio nell’assenza di una strategia di pace del governo guidato da Ariel Sharon, che consisteva il tradimento dell’eredità di suo padre. Oggi è ancora della stessa idea?
«Purtroppo sì. Purtroppo, perché avrei voluto che i fatti smentissero il mio pessimismo. Ma non è stato così. L’azione militare, anche se determinata dalle necessità di sicurezza, ha finito per contenere in sé anche l’iniziativa politica. Quella delle dimissioni, mi creda, non è stata una scelta facile da compiere, ma alla fine non me la sono sentita di continuare a far parte di un governo che dice alla popolazione israeliana che i nostri problemi non hanno soluzione e che il nostro futuro è un futuro di guerra. Così si uccide ogni speranza, finendo per ritenere ineluttabile la morte e la sofferenza che segnano il nostro presente».
Sette anni dopo, in molti vorrebbero archiviare l’eredità di Yitzhak Rabin.
«No, questa eredità politica e morale non deve essere archiviata, poiché non appartiene al passato bensì al presente di Israele, anche se i successori di mio padre alla guida del Paese non hanno portato a termine la sua opera».
Ma cosa resta realmente della lezione di Yitzhak Rabin?
«Molto di più di quanto si possa credere all’esterno. E non mi riferisco solo al ricordo di mio padre che ancora oggi vive in tantissime iniziative in Israele e nel mondo. Mi riferisco anche alla convinzione propria della maggioranza degli israeliani, che per aprire una pagina nuova nella storia del Medio Oriente occorra dare una soluzione politica alla questione palestinese che passi anche attraverso la creazione di uno Stato, smilitarizzato ma indipendente. No, la lezione di Yitzhak Rabin non è andata perduta anche se il vuoto politico che lui ha lasciato nel Paese pesa e tantissimo sul presente d’Israele».
Pur difendendo le ragioni di Oslo, lei non ha mai nascosto le sue critiche e la sua delusione per il comportamento di Yasser Arafat. Qual è stato il suo errore più grande?
«Il suo errore imperdonabile è stato credere che potesse raggiungere l’obiettivo della nascita di uno stato palestinese accanto a Israele con la forza - alimentando la violenza e non agendo con la dovuta determinazione contro i gruppi terroristi - e non invece, con l’”arma” più efficace che i palestinesi hanno per fare breccia nell’opinione pubblica di un Paese democratico qual è Israele: l’arma del dialogo».
Sette anni dopo, Israele ricorda Yitzhak Rabin. Ma c’è chi sostiene che gli eventi hanno dimostrato il fallimento della sua lezione.
«È vero l’esatto contrario. Mio padre non era un pacifista romantico, un illuso. Per tutta la vita aveva combattuto per la sicurezza di Israele. Ma da questa esperienza aveva tratto la convinzione che la sicurezza di Israele non poteva essere affidata alla sola forza del suo esercito. Occorreva la politica, aprire un percorso negoziale, offrire alla controparte palestinese una possibilità di riscatto. Senza cedimenti ma con la consapevolezza che una pace duratura, una pace nella sicurezza, dovesse essere ricercata ad un tavolo negoziale, riconoscendo anche le ragioni e le aspirazioni della controparte. Sette anni dopo i fatti hanno dimostrato che questa lezione è ancora del tutto valida, perché non esiste una scorciatoia militare alla soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Eppure alla Knesset, Shimon Peres ha dovuto difendere gli accordi di Oslo dal duro attacco della destra oltranzista.
«Costoro sono gli stessi che alimentarono un clima di odio e di vergognosi attacchi personali nei confronti di mio padre. Ricordo ancora le manifestazioni in cui veniva tacciato di essere un traditore del popolo ebraico, di aver spianato il terreno per una nuova Shoah. Ed è in questo clima di intimidazione, di odio ideologico, che è maturato l’assassinio di mio padre. Yigal Amir avrà forse agito da solo ma sono in molti ad avergli armato ideologicamente la mano. E alcuni di essi ricoprono importanti incarichi politici e di governo».
Gli accordi di Oslo, sostengono i loro detrattori, avevano messo in secondo piano la questione cruciale della sicurezza.
«Non è così. Mio padre aveva a cuore la sicurezza di Israele, per la quale aveva combattuto per tutta una vita. Per questo aveva voluto che al primo punto della Dichiarazione di Oslo-Washington vi fosse il rigetto da parte palestinese dell’uso della violenza per affrontare i contenziosi ancora aperti...».
Ma a scatenare la violenza, replicherebbero i critici di Oslo, è stato Yasser Arafat.
«Non ho mai messo in discussione il diritto di Israele a difendersi con la massima determinazione dagli attacchi terroristici, così come ho più volte censurato l’avventurismo di Arafat e la sua illusione di poter ottenere di più alimentando la violenza, ma resto convinta che per essere davvero incisiva la risposta di Israele non può muoversi solo sul terreno militare. Purtroppo, ciò che è venuto meno dall’attuale governo è un orizzonte politico, e la mancanza di una strategia di pace impedisce la ripresa di un dialogo proficuo almeno con quei dirigenti palestinesi, e non sono pochi, che si stanno battendo per le riforme e per un reale processo di democratizzazione all’interno dell’Anp che porti ad un ridimensionamento sostanziale del ruolo e dei poteri di Arafat».
Lei motivò le sue dimissioni dall’Esecutivo sostenendo che era proprio nell’assenza di una strategia di pace del governo guidato da Ariel Sharon, che consisteva il tradimento dell’eredità di suo padre. Oggi è ancora della stessa idea?
«Purtroppo sì. Purtroppo, perché avrei voluto che i fatti smentissero il mio pessimismo. Ma non è stato così. L’azione militare, anche se determinata dalle necessità di sicurezza, ha finito per contenere in sé anche l’iniziativa politica. Quella delle dimissioni, mi creda, non è stata una scelta facile da compiere, ma alla fine non me la sono sentita di continuare a far parte di un governo che dice alla popolazione israeliana che i nostri problemi non hanno soluzione e che il nostro futuro è un futuro di guerra. Così si uccide ogni speranza, finendo per ritenere ineluttabile la morte e la sofferenza che segnano il nostro presente».
Sette anni dopo, in molti vorrebbero archiviare l’eredità di Yitzhak Rabin.
«No, questa eredità politica e morale non deve essere archiviata, poiché non appartiene al passato bensì al presente di Israele, anche se i successori di mio padre alla guida del Paese non hanno portato a termine la sua opera».
Ma cosa resta realmente della lezione di Yitzhak Rabin?
«Molto di più di quanto si possa credere all’esterno. E non mi riferisco solo al ricordo di mio padre che ancora oggi vive in tantissime iniziative in Israele e nel mondo. Mi riferisco anche alla convinzione propria della maggioranza degli israeliani, che per aprire una pagina nuova nella storia del Medio Oriente occorra dare una soluzione politica alla questione palestinese che passi anche attraverso la creazione di uno Stato, smilitarizzato ma indipendente. No, la lezione di Yitzhak Rabin non è andata perduta anche se il vuoto politico che lui ha lasciato nel Paese pesa e tantissimo sul presente d’Israele».
Pur difendendo le ragioni di Oslo, lei non ha mai nascosto le sue critiche e la sua delusione per il comportamento di Yasser Arafat. Qual è stato il suo errore più grande?
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