Da Corriere della Sera del 08/11/2005

L'ex procuratore di Palermo al processo contro Mori e il capitano Ultimo

Covo di Riina, Caselli: «II Ros decise da solo»

"Sospeso il blitz, poi non ci infornò della fine dei controlli"

di Giovanni Bianconi

Articolo presente nelle categorie:
Storia del crimine organizzato in Italia1. Mafia
PALERMO — Vederlo camminare per il Palazzo di giustizia con la scorta due passi indietro e al fianco il segretario d'un tempo e infilarsi nella .stanza del capo attualmente vuota, causa ufficio vacante, è un salto indietro di dodici anni, quasi tredici.
Era il 15 gennaio 1993 quando Gian Carlo Caselli entrò qui come procuratore e un salto indietro nel tempo è la ragione del suo ritorno: la cattura di Totò Riina, avvenuta lo stesso giorno dello «sbarco» in Sicilia del magistrato venuto da Torino e la mancata perquisizione della casa del boss.
Da quei fatti è scaturito un processo, che vede alla sbarra i due principali artefici dell'arresto di Riina: il generale dei carabinieri, oggi direttore del Sisde Mario Mori, e l'allora capitano Ultimo, oggi tenente colonnello. Accusati nientemeno che di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra, proprio per non aver perquisito e lasciato sguarnito il covo di Riina. Caselli è stato chiamato a testimoniare dall'accusa, ma alla fine la sua deposizione potrà tornare utile anche alla difesa degli imputati, che naturalmente respingono con sdegno gli «addebiti». E non soltanto per le parole di apprezzamento, fiducia e stima riservate a Mori e Ultimo.
«Quello che posso ricordare è quanto scritto nella corrispondenza avuta coi responsabili dell'Arma nel febbraio e nel marzo del '93» esordisce l'ex procuratore e la sua deposizione si snoda su una linea che non si discosta mai da quelle lettere «per evitare strumentalizzazioni sulla mia persona»: il giorno dell'arresto si stava per procedere alla perquisizione del covo; i carabinieri del Ros ne chiesero la sospensione per esigenze investigative, concessa «in tanto in quanto fosse garantito il controllo e l'osservazione dell'obiettivo»; quando si scoprì che quell'osservazione non era stata fatta, gli stessi carabinieri si giustificarono definendola una «iniziativa autonoma della quale la Procura non era stata informata».
Dietro la vicenda del mancato controllo erano in agguato i tradizionali «veleni di Palermo» che Caselli conosceva e temeva; di qui l'«arrabbiatura perché qualcosa non era andato per il verso giusto» e la preoccupazione del procuratore, che chiese subito un chiarimento. Arrivato con le lettere in cui i carabinieri ammisero la mancata comunicazione di una decisione unilaterale. Un «equivoco» lo definì Mori nella corrispondenza dell'epoca. E per la difesa del generale-prefetto, come per quella di Ultimo, tale resta, an-cor più dopo la deposizione di Caselli. Il quale, quando il suo ex sostituto Ingroia gli chiede se ci fu solo una «omessa comunicazione» degli investigatori, oppure una «comunicazione diversa dal vero», risponde: «Tutto quello che mi risulta è ciò che è scritto nelle lettere del '93». E nelle lettere non c'è nessun riferimento a eventuali o presunte bugie.
La deposizione dell'ex procuratore di Palermo serve comunque all'accusa per ribadire che gli investigatori dell'Arma sospesero inopinatamente, autonomamente e «riservatamente» il controllo sul covo dal quale i familiari di Riina se ne andarono inosservati e indisturbati pochi giorni dopo l'arresto del boss. Ma i difensori sono anch'essi soddisfatti. Tanto che l'avvocato Piero Milio, legale di Mori, fuori dall'aula si accalora nelle sue complesse interpretazioni, ma davanti al tribunale non fa domande a Caselli. Che esce e torna nel suo ex-ufficio per incontrarsi e salutare i colleghi coi quali aveva creato la «squadra compatta, omogenea, unita» ricordata ai giudici: «Venni qui nel '93 anche per ricomporre le lacerazioni del passato e ottenemmo dei risultati che mi permetto di giudicare positivi».

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