Da L'Unità del 10/11/2005
Originale su http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC...
Pasolini e la sua "Lotta continua": il documentario 12 dicembre
di Pasquale Colizzi
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Per collaborare con loro ammise di aver messo a tacere parte della sua coscienza. Di contro quei giovani lo consideravano un compagno di strada «sospetto». Il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e il collettivo di Lotta continua fu dall'inizio burrascoso ma possibile perchè basato sulla massima sincerità intellettuale. Così, messe da parte contestazioni e sputi, il regista e il collettivo realizzarono il documentario 12 dicembre sullo stato della lotta ad un anno dalla bomba di piazza Fontana - disponibile su alcuni siti internet (www.ngvision.org/mediabase/210) - e riproposto dall'Accademia di Francia a Roma nell'omaggio al "Pasolini antropologo. L'attività documentaristica". Una versione inedita rispetto a quella uscita nel '72, tagliata e rimontata dal Fondo Pasolini, con la collaborazione di Adriano Sofri.
Le prime riserve rispetto all'intellettuale friulano nacquero quando nel '68 uscì su l'Espresso la poesia "Il Pci ai giovani!": comunque la si voglia mettere il movimento di contestazione si era trovato un altro nemico da combattere. Eppure, secondo Adriano Sofri, Pasolini «aveva una voglia matta di essere riconosciuto dai ragazzi del '68 ma era troppo orgoglioso per poterlo chiedere esplicitamente, non li avrebbe mai adulati. Allora usò i suoi mezzi, e ingaggiò come sempre un corpo a corpo che era foriero poi di una riconciliazione». Il corpo a corpo ci fu durante il Festival di Venezia del '68, dove il regista presentava Teorema mentre il movimento aveva occupato Ca' Foscari. Decise di avventurarsi in territorio nemico, ben sapendo che sarebbe stato deriso e attaccato ferocemente. Così fu: si prese gli sputi, le offese e poi fu cacciato fisicamente dai ragazzi in assemblea. E mentre usciva dal palazzo, incrociandolo con lo sguardo, Sofri ricorda che Pasolini lo fulminò con una frase che lo fece sorridere: «Tu però mi ami!».
La riconcilazione tuttavia non tardò ad arrivare. Già all'inizio del '70 c'era stato un riavvicinamento tra il poeta e questo collettivo che «dà il primo posto alla passione, al sentimento», come si trovò a definirli. Si inizia a discutere e lavorare al documentario 12 dicembre: l'idea è di raccontare lo stato della lotta in Italia ad un anno esatto dalla strage di piazza Fontana a Milano. Ne viene fuori un ritratto in parte drammatico. Perchè si vedono certo gli operai e le masse proletarie che un po' ovunque - dalle grandi fabbriche del triangolo industriale alle disperate città del sud - prendono coscienza della possibilità di sovvertire finalmente l'ordine borghese e patronale che li sta schiacciando. Ma è anche lampante come la prima Repubblica, una giovane appena ventenne, stia vivendo un conflitto sanguinoso che incide nel corpo vivo della società.
Il documentario, autoprodotto, fu pronto per l'inizio del '72 e nonostante gli screzi che ne nacquero - si arrivò al compromeso di scrivere "da un'idea di Pier Paolo Pasolini" - per intercessione del regista friulano ebbe la sua visibilità passando anche al festival di Berlino (dove lui portava I racconti di Canterbury). Lo stesso anno Pasolini si prese anche due denunce, per istigazione alla disobbedienza delle leggi dello Stato, istigazione a delinquere e apologia di reato, in quanto prestava generosamente la sua firma di direttore responsabile (oltre alle sovvenzioni in denaro) per il giornale Lotta continua.
Il grosso del girato di 12 dicembre fu opera di Giovanni Bonfanti, che insieme a Goffredo Fofi lo aveva anche sceneggiato. Il taglio è quello del documentarismo militante che in quegli anni era diffusissimo. Si filmano i compagni, li si fanno parlare cercando di evitare le domande. Nasce un affresco della realtà operaia degli anni settanta: da Carrara, dove si muore "inavvertitamente" schiacciati dai massi di marmo bianco alla Montecatini Edison, la Pirelli e la Fiat di Torino. Le facce degli operai in assemblea mostrano preoccupazione ma anche una lucida consapevolezza: non si muore solo di fumi nocivi ma anche di alienazione dopo otto ore passate a ripetere lo stesso movimento. E ancora, nel '70 Reggio Calabria come Belfast. Nella città in rivolta contro l'assegnazione di capoluogo di regione a Catanzaro, si intraverde il prologo di una possibile rivolta di classe. Alcuni ragazzi ammetono che negli scontri con l'esercito si sono infiltrati elementi poco chiari «mentre i padroni si godevano la battaglia dal balcone». Ma è lampante la condizione di miseria indicibile dei baraccati filmati alle porte della città e la loro frustrazione riversata per le strade contro le forze dell'ordine, l'unico avamposto di Stato che abbiano conosciuto.
Le parti girate da Pasolini, ad un occhio attento, sono facilmente individuabili. Partecipò all'episodio iniziale, quello di Milano, intervistando la famiglia Pinelli e l'avvocato di Lotta continua Marcello Gentini. Poi è la volta del tassista Luciano Paolucci, che convinse il collega Cornelio Rolandi a rivolgersi alla polizia dopo essersi accorto che quel giorno aveva accompagnato in auto l'uomo con la valigetta carica di esplosivo. Paolucci racconta di essere stato più volte contattato dalla polizia allarmata del fatto che potesse conoscere i particolari della vicenda. Rolandi invece morì in circostanze anomale nel dicembre del '71.
Ma fu soprattutto nelle riprese all'Italsider di Bagnoli che venne fuori la distanza di cifra stilistica e di senso che divideva Pasolini dal collettivo di Lotta continua. Perchè lui che fu un regista di corpi e di volti cerca una metafora violenta, scomposta, primordiale, per denunciare lo stato di malessere di tanti disoccupati napoletani. La trova nel gesticolare sgraziato, nello sforzo inutile di esprimersi di un handicappato che non riesce a trovare parole comprensibili ma colpisce emotivamente con tutta la sua rabbia. Poi filma una specie di controcanto alle immagini del lungo corteo che apre il documentario, una carrellata di persone che scandiscono slogan senza che si possano distinguere le facce. Pasolini, anche con un po' di ironia rivolta ai compagni del collettivo (e a tutti i ragazzi del movimento di contestazione), passa in rassegna uno per uno i volti di un gruppo di bambini napoletani che sorridenti, con il pugno chiuso, intonano Bandiera rossa. Un omaggio a chi ancora era nel pieno della lotta (che forse avrebbe potuto vincere), da parte di chi sentiva di aver perso molte sue battaglie.
Le prime riserve rispetto all'intellettuale friulano nacquero quando nel '68 uscì su l'Espresso la poesia "Il Pci ai giovani!": comunque la si voglia mettere il movimento di contestazione si era trovato un altro nemico da combattere. Eppure, secondo Adriano Sofri, Pasolini «aveva una voglia matta di essere riconosciuto dai ragazzi del '68 ma era troppo orgoglioso per poterlo chiedere esplicitamente, non li avrebbe mai adulati. Allora usò i suoi mezzi, e ingaggiò come sempre un corpo a corpo che era foriero poi di una riconciliazione». Il corpo a corpo ci fu durante il Festival di Venezia del '68, dove il regista presentava Teorema mentre il movimento aveva occupato Ca' Foscari. Decise di avventurarsi in territorio nemico, ben sapendo che sarebbe stato deriso e attaccato ferocemente. Così fu: si prese gli sputi, le offese e poi fu cacciato fisicamente dai ragazzi in assemblea. E mentre usciva dal palazzo, incrociandolo con lo sguardo, Sofri ricorda che Pasolini lo fulminò con una frase che lo fece sorridere: «Tu però mi ami!».
La riconcilazione tuttavia non tardò ad arrivare. Già all'inizio del '70 c'era stato un riavvicinamento tra il poeta e questo collettivo che «dà il primo posto alla passione, al sentimento», come si trovò a definirli. Si inizia a discutere e lavorare al documentario 12 dicembre: l'idea è di raccontare lo stato della lotta in Italia ad un anno esatto dalla strage di piazza Fontana a Milano. Ne viene fuori un ritratto in parte drammatico. Perchè si vedono certo gli operai e le masse proletarie che un po' ovunque - dalle grandi fabbriche del triangolo industriale alle disperate città del sud - prendono coscienza della possibilità di sovvertire finalmente l'ordine borghese e patronale che li sta schiacciando. Ma è anche lampante come la prima Repubblica, una giovane appena ventenne, stia vivendo un conflitto sanguinoso che incide nel corpo vivo della società.
Il documentario, autoprodotto, fu pronto per l'inizio del '72 e nonostante gli screzi che ne nacquero - si arrivò al compromeso di scrivere "da un'idea di Pier Paolo Pasolini" - per intercessione del regista friulano ebbe la sua visibilità passando anche al festival di Berlino (dove lui portava I racconti di Canterbury). Lo stesso anno Pasolini si prese anche due denunce, per istigazione alla disobbedienza delle leggi dello Stato, istigazione a delinquere e apologia di reato, in quanto prestava generosamente la sua firma di direttore responsabile (oltre alle sovvenzioni in denaro) per il giornale Lotta continua.
Il grosso del girato di 12 dicembre fu opera di Giovanni Bonfanti, che insieme a Goffredo Fofi lo aveva anche sceneggiato. Il taglio è quello del documentarismo militante che in quegli anni era diffusissimo. Si filmano i compagni, li si fanno parlare cercando di evitare le domande. Nasce un affresco della realtà operaia degli anni settanta: da Carrara, dove si muore "inavvertitamente" schiacciati dai massi di marmo bianco alla Montecatini Edison, la Pirelli e la Fiat di Torino. Le facce degli operai in assemblea mostrano preoccupazione ma anche una lucida consapevolezza: non si muore solo di fumi nocivi ma anche di alienazione dopo otto ore passate a ripetere lo stesso movimento. E ancora, nel '70 Reggio Calabria come Belfast. Nella città in rivolta contro l'assegnazione di capoluogo di regione a Catanzaro, si intraverde il prologo di una possibile rivolta di classe. Alcuni ragazzi ammetono che negli scontri con l'esercito si sono infiltrati elementi poco chiari «mentre i padroni si godevano la battaglia dal balcone». Ma è lampante la condizione di miseria indicibile dei baraccati filmati alle porte della città e la loro frustrazione riversata per le strade contro le forze dell'ordine, l'unico avamposto di Stato che abbiano conosciuto.
Le parti girate da Pasolini, ad un occhio attento, sono facilmente individuabili. Partecipò all'episodio iniziale, quello di Milano, intervistando la famiglia Pinelli e l'avvocato di Lotta continua Marcello Gentini. Poi è la volta del tassista Luciano Paolucci, che convinse il collega Cornelio Rolandi a rivolgersi alla polizia dopo essersi accorto che quel giorno aveva accompagnato in auto l'uomo con la valigetta carica di esplosivo. Paolucci racconta di essere stato più volte contattato dalla polizia allarmata del fatto che potesse conoscere i particolari della vicenda. Rolandi invece morì in circostanze anomale nel dicembre del '71.
Ma fu soprattutto nelle riprese all'Italsider di Bagnoli che venne fuori la distanza di cifra stilistica e di senso che divideva Pasolini dal collettivo di Lotta continua. Perchè lui che fu un regista di corpi e di volti cerca una metafora violenta, scomposta, primordiale, per denunciare lo stato di malessere di tanti disoccupati napoletani. La trova nel gesticolare sgraziato, nello sforzo inutile di esprimersi di un handicappato che non riesce a trovare parole comprensibili ma colpisce emotivamente con tutta la sua rabbia. Poi filma una specie di controcanto alle immagini del lungo corteo che apre il documentario, una carrellata di persone che scandiscono slogan senza che si possano distinguere le facce. Pasolini, anche con un po' di ironia rivolta ai compagni del collettivo (e a tutti i ragazzi del movimento di contestazione), passa in rassegna uno per uno i volti di un gruppo di bambini napoletani che sorridenti, con il pugno chiuso, intonano Bandiera rossa. Un omaggio a chi ancora era nel pieno della lotta (che forse avrebbe potuto vincere), da parte di chi sentiva di aver perso molte sue battaglie.
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