Da La Repubblica del 18/11/2005
Dall´andamento della guerra alle ripercussioni sulle elezioni, i dialoghi interni all´amministrazione. Identici a quelli di oggi
Un Vietnam che ricorda l´Iraq ecco le carte segrete di Nixon
Tolto il segreto su 50 mila documenti degli anni 70
Dalle carte emerge un copione drammaticamente simile a quello in scena oggi, dopo due anni e mezzo di guerra in Iraq. Cambiano solo i protagonisti: Bush al posto di Nixon, Rice al posto di Kissinger e Melvin Laird al posto di Rumsfeld.
di Vittorio Zucconi
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WASHINGTON - Il presidente è nervoso, pensa alle elezioni. Il segretario di Stato manovra per coprirsi le spalle. Il ministro della Difesa ha l´ordine di mentire, i generali hanno l´ordine di continuare di nascosto i bombardamenti a tappeto. La parola d´ordine pubblica è ripetere che le cose vanno meglio e che stiamo vincendo.
I nomi degli attori sono diversi, nei 50 mila nuovi documenti rigurgitati dagli archivi dei segreti di stato americani, ma il copione sembra amaramente simile alla tragedia irachena che si rappresenta oggi. Nixon come Bush, Kissinger come la Rice, Melvin Laird come Donald "Rummy" Rumsfeld, protagonisti di una rappresentazione delle bugie pubbliche e delle verità nascoste dietro le cortine fumogene, erette attorno a una guerra che non possono perdere e che non sanno come vincere, ieri in Vietnam, oggi in Iraq.
Leggere le 50 mila pagine di documenti inediti rilasciati dagli Archivi Nazionali e disponibili a tutti nel sito internet della Texas University, è più di una lezione per studenti di storia. È un metro per misurare la distanza che sempre corre tra la retorica cucinata per il consumo pubblico e la verità dell´ansia e del panico che afferravano gli strateghi della «guerra per fermare il comunismo» negli anni ‘60, come oggi devono afferrare i condottieri della «guerra per sconfiggere il terrorismo» e domare l´Iraq.
Queste nuove pagine, aggiunte agli oltre due milioni di documenti dell´epoca già archiviati, ci riportano per esempio al maggio del 1970, quando Nixon pronunciò un solenne discorso alla nazione per annunciare che gli Stati Uniti non erano «un gigante patetico e impotente» e niente l´avrebbe mai piegato. Parole che 35 anni dopo George Bush ci avrebbe ripetuto assicurandoci che «nessuno potrà intimidirci o indurci ad andare via». Ma pochi giorni dopo quel discorso, Nixon e il suo stato maggiore erano riuniti in segreto nella sua casa di San Clemente, in California, per spiegare ai generali che «un conto è quello che racconto al pubblico - citiamo dai documenti - e un altro è quello che dovete fare voi». In un ordine segretissimo, classificato «for your eyes only», Nixon ordinò di continuare le operazioni militari in Cambogia e i bombardamenti oltre il Vietnam, «che gli Americani credono siano ormai finiti». «Qui rischio la mia rielezione», spiega nervoso "Tricky Dicky" Nixon.
La doppiezza asfissiante della immagine pubblica da difendere contro la verità nascosta dietro i fumogeni, divennero paranoia quando, inevitabilmente, le notizie di atrocità e violenze sui civili cominciarono ad affiorare e l´amministrazione americana doveva correre ogni giorno a tappare le falle di credibilità e di imbarazzo, con smentite e precisazioni. L´incubo prese nel 1968 il nome di My Lai, il villaggio sudvietnamita nel quale un plotone comandato dal tenente Calley fece strage di 504 innocenti, proprio mentre lo sforzo di raccontare la fiaba di un Vietnam pacificato, avviato alle democrazia e all´autogoverno, dove le truppe americane conquistavano «i cuori e le menti» della popolazione, era al massimo.
Il ministro della difesa Laird avverte il presidente che il massacro di My Lai «può essere un imbarazzo gravissimo per il nostro governo» e offrire «grano per il mulino dei pacifisti». Suggerisce la soluzione classica che 35 anni dopo sarà adottata dal suo successore Rumsfeld di fronte alle torture di Abu Grahib: la formula della "mela marcia", del singolo ufficiale o soldato fuori di testa. «Occorre che il segretario alle difesa Laird si mostri sconvolto anche lui, per fare la parte della colomba, e poi organizzare subito una corte marziale», interviene Henry Kissinger, l´abile Richelieu con il suo squisito cinismo europeo, «e dare l´impressione che interveniamo subito per eliminare le mele marce (..) questo è il solo modo per alleviare la pressione del pubblico».
Ma i dirigenti americani puntano soprattutto alla «vietnamizzazione» della guerra, come oggi alla «irachizzazione». Devono creare la rappresentazione di un governo autoctono efficiente, popolare, e non di un proconsole o di un corrotto Quisling americano, come tutti sapevano essere il presidente Van Thieu. «Dobbiamo insistere sul fatto che il Sud Vietnam è nelle mani dei Sud Vietnamiti», nota un memorandum interno della Casa Bianca, sapendo che l´esercito vietnamita era un´armata da operetta, un sacco vuoto senza il sostegno delle divisioni Usa. «Occorre che i meccanismi politici interni divengano più credibili», insiste il memo, ma chi lo scrive, come sempre nella burocrazia politica, si copre le spalle. Aggiunge che comunque «dobbiamo imparare a leggere meglio la temperatura e gli umori di quel Paese» che incredibilmente, dopo dieci anni di presenza massiccia (siamo nel 1972) ancora era, come l´Iraq di oggi, un enigma avvolto nei luoghi comuni e negli slogan.
Anche in quegli anni meno inquinati dal tossico dei sondaggi quotidiani, alla fine è l´impatto sulla politica interna, sul partito, sul potere, sulle elezioni, l´ansia principale del Presidente e del suo circolo di "courtiers".
La popolarità di Nixon, eletto trionfalmente nel 1968, si sfarina e scende a quei livelli di impoplarità dove oggi l´Iraq ha spinto Bush. Incombono le elezioni contro il "pacifista" McGovern, e Nixon ha un´idea: i teamsters, il sindacato camionisti. Nel 1971 concede il perdono presidenziale al presidente del sindacato, Jimmy Hoffa, condannato per vari reati odorosi di mafia. «Chiediamo l´aiuto di Hoffa», lo si sente ordinare, e Hoffa fa il suo dovere.
Nixon vince le elezioni nel 1972. Nel 1974 viene costretto alle dimissioni dallo scandalo Watergate. E nel 1975, mentre le divisioni comuniste nord vietnamite entrano trionfalmente a Saigon, Jimmy Hoffa scompare. Trent´anni dopo, il suo cadavere non è ancora stato trovato. Svanito nel nulla, come le garanzie di «vittoria» e di «progresso democratico» in Vietnam.
I nomi degli attori sono diversi, nei 50 mila nuovi documenti rigurgitati dagli archivi dei segreti di stato americani, ma il copione sembra amaramente simile alla tragedia irachena che si rappresenta oggi. Nixon come Bush, Kissinger come la Rice, Melvin Laird come Donald "Rummy" Rumsfeld, protagonisti di una rappresentazione delle bugie pubbliche e delle verità nascoste dietro le cortine fumogene, erette attorno a una guerra che non possono perdere e che non sanno come vincere, ieri in Vietnam, oggi in Iraq.
Leggere le 50 mila pagine di documenti inediti rilasciati dagli Archivi Nazionali e disponibili a tutti nel sito internet della Texas University, è più di una lezione per studenti di storia. È un metro per misurare la distanza che sempre corre tra la retorica cucinata per il consumo pubblico e la verità dell´ansia e del panico che afferravano gli strateghi della «guerra per fermare il comunismo» negli anni ‘60, come oggi devono afferrare i condottieri della «guerra per sconfiggere il terrorismo» e domare l´Iraq.
Queste nuove pagine, aggiunte agli oltre due milioni di documenti dell´epoca già archiviati, ci riportano per esempio al maggio del 1970, quando Nixon pronunciò un solenne discorso alla nazione per annunciare che gli Stati Uniti non erano «un gigante patetico e impotente» e niente l´avrebbe mai piegato. Parole che 35 anni dopo George Bush ci avrebbe ripetuto assicurandoci che «nessuno potrà intimidirci o indurci ad andare via». Ma pochi giorni dopo quel discorso, Nixon e il suo stato maggiore erano riuniti in segreto nella sua casa di San Clemente, in California, per spiegare ai generali che «un conto è quello che racconto al pubblico - citiamo dai documenti - e un altro è quello che dovete fare voi». In un ordine segretissimo, classificato «for your eyes only», Nixon ordinò di continuare le operazioni militari in Cambogia e i bombardamenti oltre il Vietnam, «che gli Americani credono siano ormai finiti». «Qui rischio la mia rielezione», spiega nervoso "Tricky Dicky" Nixon.
La doppiezza asfissiante della immagine pubblica da difendere contro la verità nascosta dietro i fumogeni, divennero paranoia quando, inevitabilmente, le notizie di atrocità e violenze sui civili cominciarono ad affiorare e l´amministrazione americana doveva correre ogni giorno a tappare le falle di credibilità e di imbarazzo, con smentite e precisazioni. L´incubo prese nel 1968 il nome di My Lai, il villaggio sudvietnamita nel quale un plotone comandato dal tenente Calley fece strage di 504 innocenti, proprio mentre lo sforzo di raccontare la fiaba di un Vietnam pacificato, avviato alle democrazia e all´autogoverno, dove le truppe americane conquistavano «i cuori e le menti» della popolazione, era al massimo.
Il ministro della difesa Laird avverte il presidente che il massacro di My Lai «può essere un imbarazzo gravissimo per il nostro governo» e offrire «grano per il mulino dei pacifisti». Suggerisce la soluzione classica che 35 anni dopo sarà adottata dal suo successore Rumsfeld di fronte alle torture di Abu Grahib: la formula della "mela marcia", del singolo ufficiale o soldato fuori di testa. «Occorre che il segretario alle difesa Laird si mostri sconvolto anche lui, per fare la parte della colomba, e poi organizzare subito una corte marziale», interviene Henry Kissinger, l´abile Richelieu con il suo squisito cinismo europeo, «e dare l´impressione che interveniamo subito per eliminare le mele marce (..) questo è il solo modo per alleviare la pressione del pubblico».
Ma i dirigenti americani puntano soprattutto alla «vietnamizzazione» della guerra, come oggi alla «irachizzazione». Devono creare la rappresentazione di un governo autoctono efficiente, popolare, e non di un proconsole o di un corrotto Quisling americano, come tutti sapevano essere il presidente Van Thieu. «Dobbiamo insistere sul fatto che il Sud Vietnam è nelle mani dei Sud Vietnamiti», nota un memorandum interno della Casa Bianca, sapendo che l´esercito vietnamita era un´armata da operetta, un sacco vuoto senza il sostegno delle divisioni Usa. «Occorre che i meccanismi politici interni divengano più credibili», insiste il memo, ma chi lo scrive, come sempre nella burocrazia politica, si copre le spalle. Aggiunge che comunque «dobbiamo imparare a leggere meglio la temperatura e gli umori di quel Paese» che incredibilmente, dopo dieci anni di presenza massiccia (siamo nel 1972) ancora era, come l´Iraq di oggi, un enigma avvolto nei luoghi comuni e negli slogan.
Anche in quegli anni meno inquinati dal tossico dei sondaggi quotidiani, alla fine è l´impatto sulla politica interna, sul partito, sul potere, sulle elezioni, l´ansia principale del Presidente e del suo circolo di "courtiers".
La popolarità di Nixon, eletto trionfalmente nel 1968, si sfarina e scende a quei livelli di impoplarità dove oggi l´Iraq ha spinto Bush. Incombono le elezioni contro il "pacifista" McGovern, e Nixon ha un´idea: i teamsters, il sindacato camionisti. Nel 1971 concede il perdono presidenziale al presidente del sindacato, Jimmy Hoffa, condannato per vari reati odorosi di mafia. «Chiediamo l´aiuto di Hoffa», lo si sente ordinare, e Hoffa fa il suo dovere.
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