Da La Repubblica del 10/09/1996
Originale su http://www.repubblica.it/online/album/novantasei/sofri/sofri.html
Delitti e bugie
di Adriano Sofri
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Caro Direttore, opponendo una propria "sobria diffidenza" per le mosse della Procura trapanese alla diffidenza senza riserve manifestata da Enrico Deaglio, Giuseppe D'Avanzo (su Repubblica dell'8 settembre) addebita agli "ex di Lotta Continua" di non aver invocato abbastanza la verità sull'omicidio del loro amico.
Vorrei dare un pezzo di risposta a questo rimprovero, e allegare qualche fatto utile alla riflessione comune. Lo stesso Deaglio, Marco Boato, Andrea Marcenaro e altri - me compreso, per quanto mi era possibile - si sono fortemente impegnati per chiedere e cercare la verità sull'assassinio di Mauro. Quando ci interrogavamo - ci tormentavamo - sugli assassini, in pubblico o in privato, nessun partito preso politico ci faceva velo. Non immaginammo neanche di sospettare la compagna di Mauro, e questa fu l'unica preclusione: della quale ancora mi congratulo. Da che cosa può derivare allora l'impressione esposta, un po' troppo brutalmente, da D'Avanzo? Per quello che mi riguarda, da due ragioni. La prima, è che fra la sorella di Mauro, Carla, la compagna di Mauro, Chicca, e le figlie, Monica e Maddalena, sorsero presto incomprensioni e risentimenti che non parvero a me (e ad altri, e resto di questa opinione) trarre origine da diverse intenzioni sul modo di cercare la verità, bensì da dolori e gelosie più personali e sfuggenti. Poiché ciò mi dava una gran pena, dopo aver provato discretamente ad attenuare quel conflitto, preferii - dichiarandolo - tenermene al di fuori, cercando di conservare a quelle persone, così legate a Mauro, l'affetto più forte che ora provavo per la sua memoria.
Ciò avvenne in particolare quando, nel secondo anniversario della morte di Mauro, dopo aver partecipato con amarezza a due diverse manifestazioni convocate a Trapani, separatamente e con una trasparente tensione polemica, rifiutai, e altri come me, di fermarmi in successivi incontri comuni in cui quella tensione si sarebbe direttamente manifestata.
Solo strada facendo quel risentimento si cristallizzò in una divergenza sulle "piste" dell'inchiesta, che continuò a mescolare, a mio parere, a ipotesi più o meno politiche gelosie e risentimenti fortemente personali. Quando rividi insieme, ciò che avvenne forse un paio di volte, le persone care di Mauro, fu solo per la speranza, benché ormai molto fragile, che tornassero a sentirsi unite. Questo non significò certo che mi premesse meno la verità su Mauro, ma senz'altro che diventò più difficile, non solo per me, seguire le cose. Non immaginavo tuttavia fino a che punto potesse arrivare quella difficoltà. Oggi lo so, grazie alla inconsueta discussione su Lotta Continua innescata sugli sviluppi dell'inchiesta trapanese. Nel 1992, il capitano del Nucleo Operativo dei carabinieri di Trapani, responsabile dell'indagine giudiziaria sull'omicidio di Mauro, trasmise ai magistrati inquirenti tre pagine in cui dichiarava di aver appreso a Milano dal giudice istruttore Antonio Lombardi, che quest'ultimo era certo che Rostagno fosse stato assassinato in connessione col processo Calabresi perché intenzionato a dire quello che sapeva a carico dei suoi ex compagni. Le tre pagine contenenti questa infamia restarono chiuse nel segreto istruttorio. L'anno dopo, nel corso di uno dei tanti processi per l'omicidio Calabresi, un avvocato di parte civile, quel Li Gotti difensore abituale di pentiti mafiosi, disse in aula che Rostagno non era stato ucciso dalla mafia, bensì dalla lupara di Lotta Continua, e dunque da me. Corsi a Trapani a farmi sentire da quei procuratori, e ne ricevetti una dichiarazione scritta che nessun elemento del genere risultava a quella indagine. (...).
Ricapitolando, qualcuno ha fabbricato un documento falso che assegna a noi ex di Lotta Continua la responsabilità dell'assassinio del nostro amico Rostagno; quell'infamia è attribuita al giudice istruttore del processo Calabresi, controfirmata da un ufficiale dei carabinieri, usata nell'arringa di Li Gotti nel processo Calabresi, propalata sui giornali da Carlo Palermo. E D'Avanzo trova che io e i miei amici non alziamo abbastanza la voce per chiedere la verità su Mauro? Noi siamo vittime e prova di un formidabile e doloso depistaggio dell'inchiesta su Mauro. Siamo anche ansiosi della verità, qualunque sia: esterna interna mafiosa amorosa affaristica politica. La differenza che rivendico è nel rispetto per le persone, i loro sentimenti e i loro diritti; nella riluttanza per i pettegolezzi da bordello; nell'attaccamento alla decenza della ragione. Virtù, se non padroneggiate, almeno tentate.
Vorrei dare un pezzo di risposta a questo rimprovero, e allegare qualche fatto utile alla riflessione comune. Lo stesso Deaglio, Marco Boato, Andrea Marcenaro e altri - me compreso, per quanto mi era possibile - si sono fortemente impegnati per chiedere e cercare la verità sull'assassinio di Mauro. Quando ci interrogavamo - ci tormentavamo - sugli assassini, in pubblico o in privato, nessun partito preso politico ci faceva velo. Non immaginammo neanche di sospettare la compagna di Mauro, e questa fu l'unica preclusione: della quale ancora mi congratulo. Da che cosa può derivare allora l'impressione esposta, un po' troppo brutalmente, da D'Avanzo? Per quello che mi riguarda, da due ragioni. La prima, è che fra la sorella di Mauro, Carla, la compagna di Mauro, Chicca, e le figlie, Monica e Maddalena, sorsero presto incomprensioni e risentimenti che non parvero a me (e ad altri, e resto di questa opinione) trarre origine da diverse intenzioni sul modo di cercare la verità, bensì da dolori e gelosie più personali e sfuggenti. Poiché ciò mi dava una gran pena, dopo aver provato discretamente ad attenuare quel conflitto, preferii - dichiarandolo - tenermene al di fuori, cercando di conservare a quelle persone, così legate a Mauro, l'affetto più forte che ora provavo per la sua memoria.
Ciò avvenne in particolare quando, nel secondo anniversario della morte di Mauro, dopo aver partecipato con amarezza a due diverse manifestazioni convocate a Trapani, separatamente e con una trasparente tensione polemica, rifiutai, e altri come me, di fermarmi in successivi incontri comuni in cui quella tensione si sarebbe direttamente manifestata.
Solo strada facendo quel risentimento si cristallizzò in una divergenza sulle "piste" dell'inchiesta, che continuò a mescolare, a mio parere, a ipotesi più o meno politiche gelosie e risentimenti fortemente personali. Quando rividi insieme, ciò che avvenne forse un paio di volte, le persone care di Mauro, fu solo per la speranza, benché ormai molto fragile, che tornassero a sentirsi unite. Questo non significò certo che mi premesse meno la verità su Mauro, ma senz'altro che diventò più difficile, non solo per me, seguire le cose. Non immaginavo tuttavia fino a che punto potesse arrivare quella difficoltà. Oggi lo so, grazie alla inconsueta discussione su Lotta Continua innescata sugli sviluppi dell'inchiesta trapanese. Nel 1992, il capitano del Nucleo Operativo dei carabinieri di Trapani, responsabile dell'indagine giudiziaria sull'omicidio di Mauro, trasmise ai magistrati inquirenti tre pagine in cui dichiarava di aver appreso a Milano dal giudice istruttore Antonio Lombardi, che quest'ultimo era certo che Rostagno fosse stato assassinato in connessione col processo Calabresi perché intenzionato a dire quello che sapeva a carico dei suoi ex compagni. Le tre pagine contenenti questa infamia restarono chiuse nel segreto istruttorio. L'anno dopo, nel corso di uno dei tanti processi per l'omicidio Calabresi, un avvocato di parte civile, quel Li Gotti difensore abituale di pentiti mafiosi, disse in aula che Rostagno non era stato ucciso dalla mafia, bensì dalla lupara di Lotta Continua, e dunque da me. Corsi a Trapani a farmi sentire da quei procuratori, e ne ricevetti una dichiarazione scritta che nessun elemento del genere risultava a quella indagine. (...).
Ricapitolando, qualcuno ha fabbricato un documento falso che assegna a noi ex di Lotta Continua la responsabilità dell'assassinio del nostro amico Rostagno; quell'infamia è attribuita al giudice istruttore del processo Calabresi, controfirmata da un ufficiale dei carabinieri, usata nell'arringa di Li Gotti nel processo Calabresi, propalata sui giornali da Carlo Palermo. E D'Avanzo trova che io e i miei amici non alziamo abbastanza la voce per chiedere la verità su Mauro? Noi siamo vittime e prova di un formidabile e doloso depistaggio dell'inchiesta su Mauro. Siamo anche ansiosi della verità, qualunque sia: esterna interna mafiosa amorosa affaristica politica. La differenza che rivendico è nel rispetto per le persone, i loro sentimenti e i loro diritti; nella riluttanza per i pettegolezzi da bordello; nell'attaccamento alla decenza della ragione. Virtù, se non padroneggiate, almeno tentate.
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