Da Osservatorio sui Balcani del 13/01/2006
Originale su http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/5147/1/51/

Agca, dove le parole finiscono

di Fabio Salomoni

Mehmet Ali Agca è tornato in libertà ieri mattina. In una grigia mattina invernale è uscito dal carcere di Kartal, nella zona asiatica di Istanbul, dopo 19 ani di reclusione in Italia e cinque e mezzo in Turchia. Lo ha fatto senza rilasciare dichiarazioni, lasciando a bocca asciutta le centinaia di giornalisti, tra cui moltissimi italiani, che lo aspettavano. Tra le persone in attesa anche un gruppo di compaesani che ha lanciato garofani e pregato per lui. “Il nostro assassino nazionale”, come lo ha definito la figlia di Abdi Ipekci, il giornalista ucciso da Agca nel 1979, in una lettera aperta al quotidiano Milliyet, dopo essere passato dal distretto e dall’ospedale militare – teoricamente dovrebbe ancora svolgere il servizio militare - ha fatto perdere le sue tracce a bordo di una lussuosa Mercedes messa a disposizione da uno dei suoi tanti ed influenti amici. Sullo sfondo le voci di protesta di un piccolo gruppo di militanti del TKP (Partito Comunista Turco). Si è concluso così quello che per gran parte della stampa turca è stato “il giorno della vergogna”.

Da giorni sulla stampa rimbalzavano i commenti indignati di giornalisti, politici e giuristi per la decisione della magistratura di scarcerare l’assassino di Abdi Ipekci.

Se per i media e l’opinione pubblica italiana il nome di Agca è associato all’attentato al Papa, in Turchia Agca rappresenta uno dei simboli del periodo più drammatico della recente storia politica del paese.

Non solo in quanto co-autore nel 1979 di uno dei delitti politici, quello del direttore del quotidiano Milliyet, Ipekci, che hanno insanguinato la vita politica del paese e creato le premesse per il colpo di stato del 1980. Ricostruendo la storia criminale di Agca ci si imbatte ripetutamente in una serie di nomi che hanno rappresentato i punti di contatto tra ambienti dell’estrema destra, gruppi mafiosi, apparati dello stato, che sono stati tra i protagonisti della vita politica dell’epoca. Prendiamone uno per tutti, quello di Abdullah Catli, presente anche nella lista di testimoni sentiti dai giudici italiani durante il processo Agca. Dirigente dei Lupi Grigi ad Ankara, nel 1978 è stato accusato di essere fra i responsabili di un’altro delitto politico eccellente, quello del Prof. Bedrettin Comert, brillante professore di filosofia da poco rientrato in Turchia con la moglie italiana. Nello stesso anno Catli viene anche accusato di essere mandante ed organizzatore di una strage, quella di 7 giovani militanti del TIP (Partito Turco dei Lavoratori), strangolati in una casa di Ankara.

L’anno successivo le strade di Catli ed Agca si incrociano. Secondo numerosi voci, mai confermate però, Catli sarebbe stato alla guida di una delle macchine utilizzate nell’omicidio Ipekci.

E’ invece accertato che Catli, insieme ad altri complici, tra i quali Oral Celik, un altro dei testimoni del processo Agca, avrebbe organizzato la fuga di Agca dal carcere militare di Kartal. E’ sempre Catli ad ospitare nella sua casa Agca ed a fornirgli un passaporto con il quale farà perdere le sue tracce.

All’indomani del colpo di stato del 1980, Catli espatria usando un passaporto rilasciato dal questore della città di Nevsehir, che negli anni successivi diventerà comandante delle forze speciali della polizia. Negli anni ’80, di Catli si servono i servizi segreti turchi per azioni coperte in Europa contro i membri del gruppo terroristico armeno ASALA (Esercito di Liberazione del Popolo Armeno) che in quegli anni assassinava diplomatici turchi in giro per il mondo. Dopo la fuga da un carcere svizzero, il nome di Catli ricompare negli anni ’90 nell’ambito della “guerra sporca” contro il PKK ed i suoi fiancheggiatori. Nel frattempo Catli trova anche il modo di essere coinvolto in un tentativo di colpo di stato di stampo nazionalista in Azerbaijan. Nel 1996 Catli, allora ricercato, viene ritrovato cadavere in una Mercedes travolta da un camion su una strada della Turchia occidentale. Accanto a lui un alto funzionario del ministero dell’Interno ed un capo-tribù curdo. E’ lo “scandalo di Susurluk” che rivela alla società turca intrecci pericolosi dei quali fino ad allora si era solo sussurrato.

Di questi intrecci pericolosi, si è, per una curiosa coincidenza, ritornato a parlare in Turchia proprio nei giorni precedenti la decisione della magistratura turca di scarcerare Agca. L’occasione l’ha fornita la pubblicazione di un libro di memorie del generale Kemal Yamak.

Yamak è stato agli inizi degli anni ’70 il comandante del Dipartimento per la Guerra speciale. Un nome che ricorda molto quello dell’Ufficio Affari Speciali del ministero dell’Interno, antesignano di Gladio nel nostro paese. Ed anche il Dipartimento per la Guerra Speciale era una struttura istituita nel 1964 nell’ambito della NATO, con l’obbiettivo di reclutare “patrioti” per organizzare la resistenza in caso di occupazione. Dell’esistenza di questa struttura segreta parlò per la prima volta nel 1978 l’allora primo ministro Ecevit. Nel libro, Yamak racconta come i “patrioti” sono stati utilizzati più volte dallo stato in operazioni coperte. Rivelazioni che hanno riacceso il dibattito su molti episodi oscuri, i mandanti e gli esecutori di quella che una volta in Italia si sarebbe chiamata strategia della tensione: gli omicidi eccellenti, come quelli di Ipekci, Comert, Emec ma anche le stragi, come quella compiuta dalla polizia nel corso della manifestazione del 1 maggio 1977 ad Istanbul. L’attacco delle forze dell’ordine ai 500.000 manifestanti fu scatenato dai colpi sparati dai tetti di un albergo nella centrale piazza Taksim. Nonostante numerose illazioni, mai è stata fatta luce sugli autori di quelli spari.

Se, come ha scritto Milliyet, “dopo 25 anni brancoliamo ancora nel buio”, ora sono molti in Turchia a sperare che l’attuale fase di democratizzazione rappresenti anche l’occasione per fare piena luce sul recente e sanguinoso passato politico del paese. Un passato che dagli anni ’70, attraverso il golpe del 1980, stende la sua ombra fino alla fine degli anni ’90. In queste occasioni l’esempio dell’Italia, paese che ha portato allo scoperto l’esistenza della struttura Gladio, ricorre spesso, indicato come modello da imitare. Anche dal punto di vista della storia politica recente la modernizzazione turca ed italiana hanno numerosi punti di contatto: le profonde e controverse trasformazioni socio-politiche, i movimenti sociali e la guerra sporca contro “il pericolo comunista”, la presenza della NATO ed il ruolo degli Stati Uniti nella politica interna, la cornice della guerra fredda. Gli ancora numerosi misteri della storia italiana stanno lì a dimostrare però come l’opera di ricostruzione della realtà storica di quel periodo sia impresa tutt’altro che agevole. Ora, con l’epilogo del caso Agca, la Turchia ha un’altra opportunità di riprendere il cammino di rimessa in discussione del suo passato recente. Un cammino difficile come mostrano anche le reazioni del mondo politico ufficiale alla crisi di questi giorni.

All’indomani dell’annuncio della data di scarcerazione di Agca il ministro della Giustiza Cicek, in altre occasioni risoluto e sicuro di sè, di fronte alle reazioni indignate ha esitato. Prima ha dichiarato che la scarcerazione di Agca era dovuta agli effetti di due amnistie varate negli anni scorsi, evitando di rispondere alle domande su come sia stato fatto il conteggio degli anni di carcere scontati e da scontare. Successivamente ha ammesso di non aver esaminato nel dettaglio la pratica. Alcune ore dopo la scarcerazione invece Cicek è comparso alla televisione dichiarando di sentirsi inquieto per la liberazione di Agca e di aver deciso di fare “l’unica cosa che è nei poteri del ministro. Scrivere alla Corte di Cassazione per chiedere un nuovo conteggio degli anni di condanna inflitti ad Agca”. In attesa di nuovi sviluppi per il momento rimangono le parole di Turgut Kazan, avvocato della famiglia Ipekci: “Siamo arrivati ad un punto in cui le parole finiscono”.

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