Da La Repubblica del 10/02/2006

Il 10 febbraio del 1986 a giudizio a Palermo i capi di Cosa Nostra. L´attuale procuratore era giudice a latere

"Vent´anni fa, nel bunker con i boss"

Grasso racconta il maxiprocesso contro la mafia: in quell´aula mi mancò il respiro

Contro le cosche Forze dell´ordine e giudici hanno fatto il loro dovere. Non così fra burocrati, banche e imprenditori giovanni falcone Aprì una porta e mi disse: ‘Ti presento il maxiprocesso´. C'erano 4 pareti coperte di faldoni.

di Attilio Bolzoni

Articolo presente nelle categorie:
Storia del crimine organizzato in Italia1. Mafia
ROMA - Quando entrò nell´aula bunker gli mancò il respiro. «Ho sentito un nodo alla gola», racconta mentre i suoi ricordi scivolano a quella mattina di venti anni fa. C´erano più di quattrocento mafiosi nelle gabbie, più di ottocento occhi che buttavano odio. Loro si sentivano i padroni di Palermo e stavano uno sopra l´altro, schiacciati dietro le sbarre, qualcuno seduto sullo spigolo di una panca di legno e qualcun altro in piedi, immobile, stordito. «L´emozione è durata solo un istante», rievoca Pietro Grasso, oggi superprocuratore antimafia e allora giudice a latere della Corte di Assise del più grande processo mai celebrato contro l´organizzazione criminale chiamata Cosa Nostra.
Siamo andati nel suo quartiere generale in via Giulia per farlo tornare indietro nel tempo, per farci descrivere cosa accadde quel giorno e anche in quei mesi nella Sicilia feroce dove vivevamo e dove stava avvenendo qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la vita di noi siciliani. Si stava processando per la prima volta la mafia. Pietro Grasso aveva allora 41 anni, aveva lo stesso sguardo un po´ romantico, la stessa quiete che qualcuno - a volte e a torto - ha scambiato per debolezza o peggio per rinuncia.
Era il 10 febbraio dell´86, verso le 9,30 del mattino; procuratore, si ricorda il silenzio dell´aula bunker?
«Mi ricordo quanto ero teso nei primi minuti, mi ricordo ogni faccia di quella giornata. Ma già da qualche mese ero entrato nel mondo di Cosa Nostra, mi ero già immerso in quella realtà che avrebbe segnato il resto della mia esistenza».
Giudice a latere per modo di dire, lei è stato in realtà l´anima del maxi processo di Palermo, l´estensore della sentenza, il motore dell´organizzazione. Ci racconti come si preparò all´avvenimento.
«Mi chiamò il presidente del Tribunale Francesco Romano per informarmi che mi aveva scelto come giudice a latere, mi spiegò che avrei dovuto lavorare tanto. Andai a trovare Giovanni Falcone nella sua stanza, lui si alzò, mi portò in fondo all´ufficio istruzione, aprì una porta e disse: ‘Ti presento il maxi processo´. Mentre lo diceva mi guardava con la coda dell´occhio per capire quale fosse la mia reazione, davanti a me c´erano quattro pareti coperte da 120 faldoni. Quando chiesi a Falcone ‘dov´è il primo volume?´, lui sorrise e cominciò la mia avventura nel maxi processo».
Quale era il primo volume?
«Era il rapporto del commissario Ninni Cassarà sulla nuova mafia, il rapporto denominato Michele Greco + 161».
E iniziò subito a studiare quelle 8 mila e passa pagine dell´ordinanza di rinvio a giudizio?
«Avevo anche la responsabilità organizzativa, andavo a verificare i lavori dell´aula bunker accanto all´Ucciardone. Prevedendo una lunga camera di consiglio, ho suggerito ai progettisti di spostare una finestra blindata e farla aprire su un cortiletto dove potevamo prendere aria. Fu la nostra fortuna, in quei 35 giorni di camera di consiglio nel cortile facevamo ginnastica, guardavamo le stelle, respiravamo».
Quale fu per lei il momento decisivo del maxi processo?
«Quando il boss Giovanni Bontate lesse un documento in aula dove si dissociava dall´omicidio di un bambino».
Cosa aveva detto di tanto importante Bontate?
«Durante il maxi a Palermo non c´era stato un alito di vento, non un omicidio, non un rumore. Ma qualcuno uccise in una borgata un bimbo, il piccolo Claudio Domino. I mafiosi decisero che era più importante far sapere che non erano stati loro piuttosto che perdere il consenso sociale, piuttosto che far credere che loro avessero potuto uccidere un bambino. E con quella dichiarazione di Bontate, per la prima volta un mafioso pronunciò la parola ‘noi´: noi, significava noi mafiosi. Loro stessi ammettevano la loro esistenza. Era senza precedenti».
Quale imputato l´ha più impressionata?
«Luciano Liggio. Lui però credeva di orchestrare tutto, invece è stato involontariamente il testimone che ha confermato alcune rivelazioni di Tommaso Buscetta. Per screditare il nostro collaboratore aveva parlato del golpe Borghese e del coinvolgimento di Cosa Nostra nel colpo di stato, non sapeva che quelle cose le aveva già raccontate Buscetta e che non erano state ancora depositate agli atti. In pratica, il boss di Corleone ci ha fornito i riscontri più forti su quella vicenda».
Chi erano i mafiosi del maxi, come si comportavano, quale era la loro difesa nel processo che li stava inchiodando?
«Nessuno ha mai detto: io sono innocente. Tutti ripetevano ossessivamente: io sono estraneo. L´obiettivo era negare, negare l´appartenenza a quella cosa che era la loro organizzazione. Con il proclama di Bontate le cose cambiarono».
Una parola mai dimenticata pronunciata dentro quell´aula.
«Quello che disse Michele Greco detto il papa di Ciaculli, all´inizio del suo interrogatorio: signor presidente, la violenza non appartiene alla mia dignità».
Quale mafia avete processato vent´anni fa?
«La mafia che usciva da una guerra sanguinosissima. Quella mafia aveva come capo Totò Riina».
Qualcuno di voi è stato «avvicinato» durante il maxi processo?
«Sì, un giudice popolare supplente. Lo abbiamo saputo e lo abbiamo fatto dimettere».
Allora avete scoperto agli occhi del mondo la Cosa Nostra che vi aveva svelato Buscetta. Oggi cos´è diventata la mafia?
«E´ cambiata rimanendo se stessa, si è adattata. Oggi comanda una nuova mafia legale che entra negli affari e per fare gli affari ha bisogno della politica».
Il capo è sempre Bernardo Provenzano?
«Le nostre indagini dicono che è sempre lui».
Ma è possibile che dopo 43 anni di latitanza, dopo tanti sconvolgimenti nella Cosa Nostra e nella società, sia sempre quel contadino di Corleone il numero uno?
«E´ lui perché c´è il presidente di qualche consiglio comunale che gli fa avere una falsa carta di identità, è lui perché alcuni personaggi delle istituzioni lo informano sulle nostre indagini, è lui perché c´è una fascia di società siciliana che continua ad appoggiare Cosa Nostra».
Ma procuratore, è dal 1963 che è latitante, da quasi mezzo secolo..
«Non è vero, lo cercano da molto meno, forse solo da un dozzina di anni. Da dopo l´arresto di Totò Riina, che è avvenuto nel 1993. Ci siamo andati vicino tante volte alla sua cattura, ma è sempre riuscito a fuggire».
Non siete stati sufficientemente bravi?
«La lotta alla mafia la magistratura in questi anni l´ha fatta. E anche le forze dell´ordine l´hanno fatta. Ma se non la fanno gli imprenditori che vincono certi appalti, se non la fanno certe banche che riciclano denaro sporco, se non la fanno certi burocrati, magistratura e polizia possono solo dare qualche fastidio a Cosa Nostra, solo qualche piccolo fastidio».

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