Da L'Unità del 11/02/2006
Andreotti e la verità cancellata
di Giancarlo Caselli
Francesco Cossiga ha scritto all’Unità di sabato 11 febbraio una lettera sul processo Andreotti, alla quale il giornale ha risposto parlando di «arguzia e vis polemica» del senatore. Si può essere arguti e polemici fin che si vuole, ma i fatti restano fatti. E per quanto concerne il processo Andreotti i fatti sono questi.
All’esito del processo di primo grado celebrato a Palermo il senatore Andreotti è stato assolto. L’assoluzione utilizza lo schema argomentativo tipico dell’insufficienza di prove: afferma la sussistenza di un elemento a carico e vi fa seguire - ogni volta - la considerazione che quell’elemento, preso in sé, potrebbe anche avere altre spiegazioni. Prendiamo, ad esempio, la vicenda di Michele Sindona, bancarottiere legato alla mafia siciliana, condannato come mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della sua banca, ucciso a Milano l’11 luglio 1979. Secondo la sentenza di primo grado, Andreotti destinò a Sindona «un continuativo interessamento, proprio in un periodo in cui egli ricopriva importantissime cariche governative». Fu «attivo» il suo «impegno per agevolare la soluzione dei problemi di ordine economico-finanziario e di ordine giudiziario» di Sindona e per avvantaggiarlo nel «disegno di sottrarsi alle conseguenze delle proprie condotte». Se «gli interessi di Sindona non prevalsero» fu merito di Ambrosoli, che si oppose ai progetti di salvataggio del finanziere, sostenuti invece da Andreotti, altri politici, ambienti mafiosi e piduisti. Andreotti «anche nel periodo in cui rivestiva le cariche di ministro e di presidente del Consiglio si adoperò in favore di Sindona, nei cui confronti l'autorità giudiziaria italiana aveva emesso fin dal 24 ottobre 1974 un ordine di cattura per bancarotta fraudolenta». I referenti mafiosi di Sindona conoscevano «il significato essenziale dell’intervento spiegato dal senatore Andreotti (anche se non le specifiche modalità di esso)». E tuttavia, conclude il Tribunale, non vi è «prova sufficiente che l’imputato abbia agito con la coscienza e volontà di apportare un contributo casualmente rilevante per la conservazione o il rafforzamento dell’organizzazione mafiosa».
L’assoluzione del Tribunale è stata parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Palermo, che con sentenza del 2 maggio 2003 decreta «non doversi procedere... in ordine al reato di associazione per delinquere... commesso fino alla primavera del 1980, per essere lo stesso reato estinto per prescrizione; conferma, nel resto, la appellata sentenza».
Dunque, fino al 1980 il senatore Andreotti è stato riconosciuto responsabile del reato di associazione a delinquere (l’associazione mafiosa, il 416 bis, è stata introdotta solo dopo i fatti contestati). Per le accuse successive alla primavera del 1980, la Corte d’Appello conferma l’assoluzione ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, del Codice di procedura penale, che ricalca la vecchia insufficienza di prove.
Questa sentenza della Corte d’Appello sarà confermata, in via definitiva e irrevocabile, dalla Corte di Cassazione il 15 ottobre 2004.
Chi volesse approfondire la materia può consultare il documentatissimo volume di Livio Pepino intitolato «Andreotti, la mafia, i processi» (Editore EGA, Torino 2005). Qui mi limito a riprodurre un passo della sentenza della Corte d’appello, là dove - sintetizzando una motivazione che si sviluppa per oltre 1500 pagine - si sostiene che l’imputato «con la sua condotta (...non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale e arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi». In definitiva, la Corte ritiene «che sia ravvisabile il reato di partecipazione alla associazione per delinquere nella condotta di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale, nell’arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di una organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell’Isola: a) chieda ed ottenga, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli; b) incontri ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione; c) intrattenga con gli stessi relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti; d) appalesi autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso; e) indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati; f) ometta di denunciare elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi (n.d.a.: le «vicende particolarmente delicate per la vita» di Cosa Nostra e i «fatti di particolarissima gravità» sopra menzionati riguardano Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, coraggioso uomo politico democristiano impegnato in un’opera di moralizzazione che l'aveva posto in rotta di collisione con la mafia, che perciò lo uccise il 6 gennaio 1980); g) dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici - e non meramente fittizi - di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale».
Giudichi il lettore - a questo punto - se i processi di Palermo ad Andreotti possano ancora definirsi un «naufragio giudiziario» (sono le parole che usa il senatore Cossiga, nel riferirsi indistintamente ai «processi a Giulio Andreotti»). Il fatto è che le sentenze di Palermo riguardanti il caso Andreotti sono state sistematicamente stravolte o nascoste. E sono convinto che anche il senatore Cossiga è rimasto vittima di questa colossale disinformazione. Altrimenti non scriverebbe quel che ha scritto. Fornirebbe invece - come ha sempre cercato di fare - il suo onesto contributo alla ricerca della verità. Perché non è con la cancellazione della verità che si contribuisce a risolvere la «questione mafia». Questione che al senatore Cossiga sta indubbiamente a cuore non meno che a me.
All’esito del processo di primo grado celebrato a Palermo il senatore Andreotti è stato assolto. L’assoluzione utilizza lo schema argomentativo tipico dell’insufficienza di prove: afferma la sussistenza di un elemento a carico e vi fa seguire - ogni volta - la considerazione che quell’elemento, preso in sé, potrebbe anche avere altre spiegazioni. Prendiamo, ad esempio, la vicenda di Michele Sindona, bancarottiere legato alla mafia siciliana, condannato come mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della sua banca, ucciso a Milano l’11 luglio 1979. Secondo la sentenza di primo grado, Andreotti destinò a Sindona «un continuativo interessamento, proprio in un periodo in cui egli ricopriva importantissime cariche governative». Fu «attivo» il suo «impegno per agevolare la soluzione dei problemi di ordine economico-finanziario e di ordine giudiziario» di Sindona e per avvantaggiarlo nel «disegno di sottrarsi alle conseguenze delle proprie condotte». Se «gli interessi di Sindona non prevalsero» fu merito di Ambrosoli, che si oppose ai progetti di salvataggio del finanziere, sostenuti invece da Andreotti, altri politici, ambienti mafiosi e piduisti. Andreotti «anche nel periodo in cui rivestiva le cariche di ministro e di presidente del Consiglio si adoperò in favore di Sindona, nei cui confronti l'autorità giudiziaria italiana aveva emesso fin dal 24 ottobre 1974 un ordine di cattura per bancarotta fraudolenta». I referenti mafiosi di Sindona conoscevano «il significato essenziale dell’intervento spiegato dal senatore Andreotti (anche se non le specifiche modalità di esso)». E tuttavia, conclude il Tribunale, non vi è «prova sufficiente che l’imputato abbia agito con la coscienza e volontà di apportare un contributo casualmente rilevante per la conservazione o il rafforzamento dell’organizzazione mafiosa».
L’assoluzione del Tribunale è stata parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Palermo, che con sentenza del 2 maggio 2003 decreta «non doversi procedere... in ordine al reato di associazione per delinquere... commesso fino alla primavera del 1980, per essere lo stesso reato estinto per prescrizione; conferma, nel resto, la appellata sentenza».
Dunque, fino al 1980 il senatore Andreotti è stato riconosciuto responsabile del reato di associazione a delinquere (l’associazione mafiosa, il 416 bis, è stata introdotta solo dopo i fatti contestati). Per le accuse successive alla primavera del 1980, la Corte d’Appello conferma l’assoluzione ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, del Codice di procedura penale, che ricalca la vecchia insufficienza di prove.
Questa sentenza della Corte d’Appello sarà confermata, in via definitiva e irrevocabile, dalla Corte di Cassazione il 15 ottobre 2004.
Chi volesse approfondire la materia può consultare il documentatissimo volume di Livio Pepino intitolato «Andreotti, la mafia, i processi» (Editore EGA, Torino 2005). Qui mi limito a riprodurre un passo della sentenza della Corte d’appello, là dove - sintetizzando una motivazione che si sviluppa per oltre 1500 pagine - si sostiene che l’imputato «con la sua condotta (...non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale e arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi». In definitiva, la Corte ritiene «che sia ravvisabile il reato di partecipazione alla associazione per delinquere nella condotta di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale, nell’arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di una organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell’Isola: a) chieda ed ottenga, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli; b) incontri ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione; c) intrattenga con gli stessi relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti; d) appalesi autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso; e) indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati; f) ometta di denunciare elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi (n.d.a.: le «vicende particolarmente delicate per la vita» di Cosa Nostra e i «fatti di particolarissima gravità» sopra menzionati riguardano Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, coraggioso uomo politico democristiano impegnato in un’opera di moralizzazione che l'aveva posto in rotta di collisione con la mafia, che perciò lo uccise il 6 gennaio 1980); g) dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici - e non meramente fittizi - di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale».
Giudichi il lettore - a questo punto - se i processi di Palermo ad Andreotti possano ancora definirsi un «naufragio giudiziario» (sono le parole che usa il senatore Cossiga, nel riferirsi indistintamente ai «processi a Giulio Andreotti»). Il fatto è che le sentenze di Palermo riguardanti il caso Andreotti sono state sistematicamente stravolte o nascoste. E sono convinto che anche il senatore Cossiga è rimasto vittima di questa colossale disinformazione. Altrimenti non scriverebbe quel che ha scritto. Fornirebbe invece - come ha sempre cercato di fare - il suo onesto contributo alla ricerca della verità. Perché non è con la cancellazione della verità che si contribuisce a risolvere la «questione mafia». Questione che al senatore Cossiga sta indubbiamente a cuore non meno che a me.
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