Da La Repubblica del 13/03/2006
Originale su http://www.repubblica.it/2006/c/sezioni/cronaca/ladrisegr3/ladrisegr3/...
Il commento
Il teatro delle ombre
di Giuseppe D'Avanzo
L'ABBOZZO è identico in ogni angolo d'Italia. Sono al lavoro agenzie d'investigazioni private a cui collaborano servitori dello Stato: forse infedeli, forse soltanto capaci di cogliere l'aria che tira. Polizie parallele che possono contare su informazioni (conti bancari, intercettazioni legali o illegali, dati personali, resoconti fiscali) trafugate clandestinamente nella macchina dello Stato. Capita che gli spioni "privati" abbiano link con le burocrazie della sicurezza (Guardia di Finanza, Sismi) e con grandi aziende che trattano notizie "sensibili" (come Telecom, Anas). Sono almeno quattro le procure che oggi affrontano questo teatro di ombre. A volte buffonesco, sempre opaco e appestato da irrespirabili miasmi.
Genova indaga sull'avventura del "Dipartimento Studi Strategici Antiterrorismo" (Dssa) di Gaetano Saya e Roberto Sindoca. Catanzaro ricostruisce l'attività della "Data General Security" (Dgs) di Salvatore Di Ganci. Milano, i fortunati e floridi appalti della "Polis d'Istinto" di Emanuele Cipriani e i suoi legami con il centro d'ascolto Telecom (Cnag, centro nazionale per l'autorizzazione giudiziaria) diretto da Giuliano Tavaroli. Roma, i traffici della "Security Service Investigation" (Ssi) di Pierpaolo Pasqua che spia Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini. Non è un caso isolato l'intersezione con la politica. La si afferra in Calabria, nel Lazio, in Toscana e in Liguria. Il fenomeno è dunque diffuso e ramificato e ognuno di questi campioni dell'origliamento è quasi sempre interconnesso agli altri, come se si trattasse di una "squadra", meglio di una banda a carattere nazionale.
Si può anche dire quando e come è nata questa muffa. Ha trovato l'ambiente propizio per crescere all'ombra del panico politico e sociale seguito all'11 settembre. E' in quel momento che la paura diventa un business. C'è bisogno di informazioni per anticipare un colpo che si presume prossimo. Chiunque sia in grado di offrirne viene accettato. Non si guarda tanto per il sottile, tra il 2001 e il 2002. Buffoni, manigoldi, tipacci con un passato di cattive storie, spregiudicati avventurieri che annusano l'affare vengono invitati a entrare nel corteo purché cresca il grado di sicurezza del Paese, ovvero la capacità di raccogliere informazioni.
Superato l'impatto politico e psicologico dell'attacco alle Torri, diventa chiaro che il terrore islamico è una minaccia, ma anche - per chi governa - una favorevole opportunità. Si scopre che può essere addirittura conveniente alimentare l'ansia collettiva. Le utilità politiche che si raccolgono sono, tutto sommato, molte e a basso prezzo perché lo spettro dell'annientamento nucleare, della bomba nelle metropolitane, dei kamikaze, ingrassa la paura e la collera per la paura.
Si crea una "sospensione" istituzionale e la disponibilità, l'assenso collettivo alla concentrazione del potere esecutivo, alla marginalizzazione dei contrappesi, all'ampio impegno di risorse e poteri per la sicurezza e, in molti casi, all'aperta violazione di precetti costituzionali a difesa della libertà delle persone. Insomma, "una regressione autoritaria", di cui la extraordinary rendition di Abu Omar a Milano è un caso di scuola. Alla fine del 2003 la guerra al terrore è già, come è stato scritto tante volte, una location di cartapesta dove vanno in scena gli effetti speciali del mondo defattualizzato proposto dalle leadership politiche; dalla corte degli spin doctors; da agenti segreti che mentono e ingannano; dai manipolatori delle opinioni pubbliche. Un circo. In questa "tempesta perfetta" di comunicazioni distorte è sempre più evidente che non c'è alcun rapporto tra i fatti e le decisioni: si comincia a combattere una guerra contro il terrore che noi stessi creiamo, e non contro il terrorismo che ci minaccia.
E' lungo questa via che l'intera organizzazione (legale/clandestina) degli spioni (veri o prezzolati) piega sugli "affari interni" per aggiustarli a uso politico. Le "cellule in sonno", i kamikaze possibili interessano sempre meno. Nel varco istituzionale che si è creato si possono ora condizionare le storie e gli uomini della politica italiana. La carta bianca concessa alle intelligence per prevenire gli assalti del terrorismo islamico viene ora spesa in altro modo. Perché non si spiega come il fenomeno delle polizie parallele, così diffuso sul territorio nazionale e spesso intrecciato alle burocrazie della sicurezza, sia potuto sfuggire alle strutture e agli uomini dello Stato. Di fronte a quest'infezione, il Paese e le sue istituzioni, a cominciare dal Parlamento, si sono scoperti impreparati. È da qui, da questa impotenza a comprendere il pericolo e a fronteggiarlo per tempo, che bisogna ricominciare. Ha ragione Marco Minniti.
Nell'agenda del nuovo Parlamento deve trovare spazio la bonifica delle burocrazie dell'intelligence che, colpevolmente, è stata trascurata nello scorcio della legislatura che si sta chiudendo quando è apparso chiaro che qualcosa non funzionava, che il teatro delle ombre andava facendosi molto affollato. Occorre allora sapere innanzitutto che cosa è successo, perché, quando, per la responsabilità di chi. Quello che è in gioco non è la carriera di qualche alto funzionario dello Stato o il cursus honorum di qualche politico distratto, compiacente o succube, ma la qualità della nostra democrazia.
Genova indaga sull'avventura del "Dipartimento Studi Strategici Antiterrorismo" (Dssa) di Gaetano Saya e Roberto Sindoca. Catanzaro ricostruisce l'attività della "Data General Security" (Dgs) di Salvatore Di Ganci. Milano, i fortunati e floridi appalti della "Polis d'Istinto" di Emanuele Cipriani e i suoi legami con il centro d'ascolto Telecom (Cnag, centro nazionale per l'autorizzazione giudiziaria) diretto da Giuliano Tavaroli. Roma, i traffici della "Security Service Investigation" (Ssi) di Pierpaolo Pasqua che spia Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini. Non è un caso isolato l'intersezione con la politica. La si afferra in Calabria, nel Lazio, in Toscana e in Liguria. Il fenomeno è dunque diffuso e ramificato e ognuno di questi campioni dell'origliamento è quasi sempre interconnesso agli altri, come se si trattasse di una "squadra", meglio di una banda a carattere nazionale.
Si può anche dire quando e come è nata questa muffa. Ha trovato l'ambiente propizio per crescere all'ombra del panico politico e sociale seguito all'11 settembre. E' in quel momento che la paura diventa un business. C'è bisogno di informazioni per anticipare un colpo che si presume prossimo. Chiunque sia in grado di offrirne viene accettato. Non si guarda tanto per il sottile, tra il 2001 e il 2002. Buffoni, manigoldi, tipacci con un passato di cattive storie, spregiudicati avventurieri che annusano l'affare vengono invitati a entrare nel corteo purché cresca il grado di sicurezza del Paese, ovvero la capacità di raccogliere informazioni.
Superato l'impatto politico e psicologico dell'attacco alle Torri, diventa chiaro che il terrore islamico è una minaccia, ma anche - per chi governa - una favorevole opportunità. Si scopre che può essere addirittura conveniente alimentare l'ansia collettiva. Le utilità politiche che si raccolgono sono, tutto sommato, molte e a basso prezzo perché lo spettro dell'annientamento nucleare, della bomba nelle metropolitane, dei kamikaze, ingrassa la paura e la collera per la paura.
Si crea una "sospensione" istituzionale e la disponibilità, l'assenso collettivo alla concentrazione del potere esecutivo, alla marginalizzazione dei contrappesi, all'ampio impegno di risorse e poteri per la sicurezza e, in molti casi, all'aperta violazione di precetti costituzionali a difesa della libertà delle persone. Insomma, "una regressione autoritaria", di cui la extraordinary rendition di Abu Omar a Milano è un caso di scuola. Alla fine del 2003 la guerra al terrore è già, come è stato scritto tante volte, una location di cartapesta dove vanno in scena gli effetti speciali del mondo defattualizzato proposto dalle leadership politiche; dalla corte degli spin doctors; da agenti segreti che mentono e ingannano; dai manipolatori delle opinioni pubbliche. Un circo. In questa "tempesta perfetta" di comunicazioni distorte è sempre più evidente che non c'è alcun rapporto tra i fatti e le decisioni: si comincia a combattere una guerra contro il terrore che noi stessi creiamo, e non contro il terrorismo che ci minaccia.
E' lungo questa via che l'intera organizzazione (legale/clandestina) degli spioni (veri o prezzolati) piega sugli "affari interni" per aggiustarli a uso politico. Le "cellule in sonno", i kamikaze possibili interessano sempre meno. Nel varco istituzionale che si è creato si possono ora condizionare le storie e gli uomini della politica italiana. La carta bianca concessa alle intelligence per prevenire gli assalti del terrorismo islamico viene ora spesa in altro modo. Perché non si spiega come il fenomeno delle polizie parallele, così diffuso sul territorio nazionale e spesso intrecciato alle burocrazie della sicurezza, sia potuto sfuggire alle strutture e agli uomini dello Stato. Di fronte a quest'infezione, il Paese e le sue istituzioni, a cominciare dal Parlamento, si sono scoperti impreparati. È da qui, da questa impotenza a comprendere il pericolo e a fronteggiarlo per tempo, che bisogna ricominciare. Ha ragione Marco Minniti.
Nell'agenda del nuovo Parlamento deve trovare spazio la bonifica delle burocrazie dell'intelligence che, colpevolmente, è stata trascurata nello scorcio della legislatura che si sta chiudendo quando è apparso chiaro che qualcosa non funzionava, che il teatro delle ombre andava facendosi molto affollato. Occorre allora sapere innanzitutto che cosa è successo, perché, quando, per la responsabilità di chi. Quello che è in gioco non è la carriera di qualche alto funzionario dello Stato o il cursus honorum di qualche politico distratto, compiacente o succube, ma la qualità della nostra democrazia.
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