Da Nigrizia del 31/03/2006

Il dovere della memoria

Caso Alpi-Hrovatin: Chiusa la commissione, resta il mistero

Per Maria Gritta Grainer, ex deputato ds e consulente della commissione d'inchiesta sul duplice omicidio in Somalia, l’ex presidente Taormina aveva come unico obiettivo scagionare Marocchino e Mugne. «È stato raccolto molto materiale, che conferma che l’agguato fu causato dal lavoro di Ilaria Alpi».

di AA.VV.

Sarebbe lei la “mente” della “centrale comunista” che avrebbe inventato e alimentato per 12 anni il “caso Alpi”. O almeno questo è ciò che ha dichiarato l’avvocato Carlo Taormina, già presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte della giornalista del Tg3 e del suo operatore Miran Hrovatin. «Accuse così sgangherate si commentano da sole», la secca replica di Maria Gritta Grainer, l’oggetto degli strali. Ex parlamentare diessina, ex componente della commissione bicamerale d’inchiesta sulla cooperazione, consulente nella commissione presieduta dall’avvocato romano, Gritta Grainer è dal 1995 l’esponente politico che più ha cercato di capire cosa sia realmente successo quel 20 marzo del 1994 a Mogadiscio.

E su questa vicenda, che ha accompagnato come un’ossessione gli ultimi dieci anni della sua vita, ha scritto pure due libri: nel 1999 L’Esecuzione (assieme al giornalista Torrealta e ai genitori di Ilaria) e nel 2005 Ilaria Alpi, una donna, la sua storia.

Una storia sulla quale non è ancora calato il sipario.

Eppure la relazione finale della maggioranza ha una conclusione chiara: i due giornalisti italiani sono morti per un atto banditesco, casuale, un fallito sequestro.

È una “verità” basata sul nulla. Solo sulle disinvolte indagini di un investigatore, una specie di 007 che ha agito con ampi poteri, scarsa trasparenza e pochi controlli. Ci sono state, poi, le collaborazioni di Giancarlo Marocchino, chiacchierato imprenditore italiano in Somalia, e di un suo uomo di fiducia, oggi sotto protezione dello stato italiano.

Sembra certo, tuttavia, che non si sia trattato di un’esecuzione, ma la risposta militare ai primi spari della “guardia del corpo” di Ilaria.

La sentenza del 24 novembre 2000 di condanna di Hasci Omar Hassan aveva già demolito la tesi del sequestro. Leggo: «Le ipotesi che riconducono il drammatico fatto a un tentativo fallito di rapina, ovvero di sequestro, appaiono anch’esse, a un attento esame, assai poco verosimili. Appare evidente, invero, come in un’azione diretta al rapimento di persone non si esplodano colpi verso chi si intende rapire, ma eventualmente verso coloro che con questi si accompagnano e che costituiscono un ostacolo per la riuscita dell’azione criminosa intrapresa (…) Per lo svolgimento dell’azione deve individuarsi nella eliminazione fisica dei due italiani il fine effettivamente perseguito dal commando viaggiante a bordo della Land Rover».

Per Taormina mancherebbe il movente. Dice: può essere che in Somalia ci siano stati i traffici di armi, di rifiuti e la malacooperazione. Però non si è mai riusciti a trovare un legame diretto tra questi affari e il duplice omicidio.

Il lavoro della commissione non ha approfondito, come doveva, le piste legate a questi traffici. Piste che sono consistenti e costituiscono molto più che indizi o sporadiche dichiarazioni.

Tipo?

Oltre ai block notes di Ilaria, sono sparite cassette registrate relative al lavoro svolto a Bosaso. Sono state trovate solo 6 cassette, formato betacam, della durata di non oltre 29-30 minuti ciascuna. Troppo poche per una missione che doveva durare una decina di giorni. Per Miran era il primo viaggio in Somalia e, vista la sua professionalità, non è pensabile che avesse con sé solo 6 cassette, che servono a malapena per un’intervista.

Ma che siano sparite cassette emerge, con certezza, dall’audizione dell’8 e 9 febbraio scorsi di Abdullahi Bogor Musse, il sultano di Bosaso intervistato dai due pochi giorni prima della loro morte.

Cosa ha detto?

Che la telecamera e la registrazione non si sono mai interrotte per quasi 3 ore. A quel punto, Taormina ha chiesto: «Se siete stati 3 ore, ci saranno volute senz’altro 6 o 7 cassette. Noi abbiamo solo 20 minuti». Il sultano ammette, poi, di aver parlato a Ilaria anche della Shifco, la flotta di Omar Mugne, e delle possibili armi che trasportava. «Le avevo detto che quelle navi portavano dalla Somalia il pesce e poi venivano con le armi in Somalia. (…) Ilaria era interessata a sapere da dove venivano quelle armi. (…) Sono tuttora convinto che lei fosse in possesso di informazioni precise, ottenute attraverso documenti. (…) La sola cosa che posso dire è che ho dedotto dal suo (di Ilaria, ndr) assassinio che la Farah Omar (il nome di una barca della Shifco, ndr) portava le armi».

Resta il fatto che si sapeva da 7 mesi che queste sarebbero state le conclusioni di Taormina. Cosa ha fatto l’opposizione per evitare un finale già scritto?

È vero: Taormina aveva già annunciato a Nigrizia, nel luglio 2005, le conclusioni della commissione. Dimostrando di non aver neppure letto le sentenze del tribunale. Gli esponenti del centrosinistra hanno presentato una memoria di minoranza che dettagliatamente contesta le conclusioni, dicendo a chiare lettere che il caso non è chiuso. Lo hanno potuto fare perché sono rimasti vigili e presenti nei mesi di lavoro della commissione. Uscire, abbandonandola, o decidere un’“autosospensione” avrebbe voluto dire lasciare campo aperto a Taormina.

Quella dell’avvocato è una convinzione personale maturata nel tempo? O una posizione “politica”, precofenzionata?

È difficile rispondere per conto di Taormina. Quello che posso dire è che si è voluto demolire, con ogni mezzo, i lavori, le iniziative e le indagini svolte da chiunque prima dell’istituzione della commissione da lui presieduta.

Quali sono gli aspetti volutamente o distrattamente tralasciati dalla commissione e che sarebbero stati, invece, decisivi per capire il caso?

Su Marocchino, sfiorato da pesanti sospetti relativi a presunti traffici illeciti di armi e rifiuti tossici anche prima del duplice delitto, non è stata fatta una indagine seria neppure dalla commissione, che ha scelto, anzi, di avvalersene come collaboratore. Sono mille i dubbi su di lui. Tra i tanti: il colonnello Cannarsa riferisce che Marocchino, mentre gli stava telefonando, urlò che «stavano sparando sulla macchina davanti alla sua». La versione dell’imprenditore è che disse a Cannarsa che «avevano sparato». Non si tratta di un dettaglio verbale, ovviamente, riguardando la presenza o meno di Marocchino al momento dell’agguato. C’è poi la cena a casa sua del 15 o 16 marzo.

Quella dove avvertì i giornalisti che ci sarebbe stato un sequestro?

Si assentò per un’ora e forse più e, al suo ritorno, riferì di essere stato informato che si volevano rapire giornalisti italiani. Fu Marocchino a invitare i presenti a stare molto attenti, perché tra un sequestro e un’uccisione il passo è breve. Magari non si tratta della stessa riunione che è descritta in una informativa della Digos di Udine o in un’altra del Sisde, nelle quali si sarebbe deciso di eliminare i due scomodi giornalisti, ma certo siamo di fronte a un’altra coincidenza “singolare”.

Mai come in questa occasione, tuttavia, l’attività investigativa è stata fatta senza risparmio di mezzi, usando anche strumenti eccezionali, come intercettazioni, perquisizioni e sequestri. Appare strano che non si sia arrivati a una soluzione condivisa.

Ma l’utilizzo di quegli strumenti è stato unidirezionale. È sembrato che l’unico obiettivo fosse di scagionare persone come Marocchino o Mugne, dedicando, invece, un tempo esagerato a indagare chi, in questi anni, ha lavorato per la verità e la giustizia. Penso a funzionari di polizia, a diversi giornalisti, a parlamentari e agli stessi genitori di Ilaria.

In commissione hanno deposto decine e decine di testimoni. C’è stata qualche figura importante che, invece, non è stata sentita e che poteva risultare decisiva?

Ci sono testimoni oculari certi, come l’autista Sid Ali Mohamed Abdi e l’unico uomo di scorta quel giorno, Mohamud Nur Aden, o presunti, come Amhed Ali Rage, detto Jelle, che la commissione non ha né sentiti né rintracciati.

Il primo è morto. Su “Jelle”, l’avvocato Taormina dice di averlo rintracciato, ma a tempo scaduto, cioè quando la commissione d’inchiesta aveva terminato il suo mandato.

Che Jelle potesse trovarsi in Olanda o in Inghilterra è cosa nota da almeno un anno alla commissione. Che Taormina comunichi di averlo rintracciato la sera del 28 febbraio, ultimo giorno di vita della commissione, si commenta da solo.

Che fare ora? Il caso è chiuso o formalmente ci sono altre strade per tenerlo aperto?

La commissione, al di là del pensiero di Taormina, ha raccolto molto materiale che conferma come l’agguato sia stato causato dal lavoro di Ilaria e Miran. Sarà la magistratura competente a dover trarre elementi giudiziariamente validi per accertare la verità. Il nuovo parlamento, “privato” di Taormina, potrà e dovrà anch’esso occuparsene. Di certo, non smetterà di interessarsi al caso chi lo ha fatto in questi anni.

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