Da Corriere della Sera del 27/03/2006
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2006/03_Marzo/27/loggia....
Le lapidi a Pinelli
Il marmo dell’odio e la storia di parte
di Ernesto Galli della Loggia
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Dunque d’ora in poi nella milanese piazza Fontana ci saranno due targhe commemorative dedicate a Giuseppe Pinelli, l’anarchico precipitato da una finestra della questura di Milano all’indomani dell’attentato del 12 dicembre del 1969—come tanti italiani ancora ricordano con non spenta emozione: la targa fatta affiggere poche settimane fa dal sindaco Gabriele Albertini (con una scelta di tempi di certo sospetta) e che vuole Pinelli «innocente morto tragicamente », e quella a suo tempo posta dagli anarchici del circolo Ponte della Ghisolfa, poi levata per essere sostituita da quella del Comune di cui sopra.
La stessa targa che qualche giorno fa è stata poi nuovamente rimessa al suo posto da un’azione di forza dell’intera sinistra radicale guidata da Dario Fo—secondo le cui parole invece Pinelli fu «ucciso innocente». A chi proprio in questi giorni si ostina a menare scandalo per le divisioni e le intemperanze elettorali dei due schieramenti, quasi si trattasse di una patologia facilmente curabile, episodi come questo servono a ricordare cosa ancora è realmente nelle sue viscere l’Italia, perlomeno l’Italia della politica. Un Paese animato da un inestinguibile, cieco, spirito di parte, che non per nulla ha già visto la targa del sindaco imbrattata a mo’ di sfregio con una bella falce e martello (gesto da cui peraltro si sono già dissociati gli anarchici). Conle scritte sui muri, con la titolazione di vie e piazze, con i luoghi commemorativi, lo spazio pubblico cittadino è da sempre, e in molti modi, uno dei terreni di scontro preferiti di questo spirito di fazione nazionale, pronto a impadronirsi di ciò che è di tutti per affermare la propria identità, infischiandosene altamente di quella altrui.
Non esiste forse, sempre a Milano, tra via Sarfatti e via Bocconi, nei pressi dell’Università omonima, un monumento dedicato allo studente Roberto Franceschi, ucciso negli anni Settanta in uno scontro con la polizia, che porta questa epigrafe: «A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella nuova Resistenza dal ’45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato»? Tanto peggio per la stragrande maggioranza di milanesi che, verosimilmente, non condivide né ha mai condiviso questa petizione di principio anticapitalistica, e magari pensa che di Resistenza ci sia stata solo quella terminata il 25 aprile del ’45 con la caduta del Fascismo.
Ma le due targhe di piazza Fontana rappresentano, se così si può dire, un salto di qualità nella partigianeria italiana. Esse indicano, infatti, che non già sulle interpretazioni, sul nome da dare ai fatti, ma neppure sui fatti in quanto tali la memoria italiana riesce a trovare un minimo terreno comune. Non importa ad esempio che l’unica sede accreditata ad accertare la verità della morte di Pinelli— per quanto agli esseri umani è dato di conoscere della verità—,e cioè la magistratura (nella persona oltretutto di un magistrato insospettabile come il dottor Gerardo D’Ambrosio), abbia concluso che colui che un’ingiusta campagna di stampa indicava come l’assassino dell’anarchico, il commissario Luigi Calabresi, fosse invece innocente (anche lui!); non importa che sempre la magistratura abbia concluso, al termine di indagini lunghe e imparziali, che Giuseppe Pinelli non fu ucciso da alcuno. No, nulla di queste bazzecole importa nulla. La sola cosa che conta per un numero ancora troppo alto di nostri concittadini è la «verità politica», cioè quello che ci fa comodo pensare affinché il nostro personale teatrino dei buoni e dei cattivi possa continuare a stare in piedi e noi possiamo quindi continuare a cullarci nelle nostre certezze. Al dunque è precisamente questo l’aspetto più avvilente della faziosità italiana: la coatta immobilità delle opinioni sentita come un valore e come la premessa indispensabile per la autocertificazione della propria, inesistente, virtù.
La stessa targa che qualche giorno fa è stata poi nuovamente rimessa al suo posto da un’azione di forza dell’intera sinistra radicale guidata da Dario Fo—secondo le cui parole invece Pinelli fu «ucciso innocente». A chi proprio in questi giorni si ostina a menare scandalo per le divisioni e le intemperanze elettorali dei due schieramenti, quasi si trattasse di una patologia facilmente curabile, episodi come questo servono a ricordare cosa ancora è realmente nelle sue viscere l’Italia, perlomeno l’Italia della politica. Un Paese animato da un inestinguibile, cieco, spirito di parte, che non per nulla ha già visto la targa del sindaco imbrattata a mo’ di sfregio con una bella falce e martello (gesto da cui peraltro si sono già dissociati gli anarchici). Conle scritte sui muri, con la titolazione di vie e piazze, con i luoghi commemorativi, lo spazio pubblico cittadino è da sempre, e in molti modi, uno dei terreni di scontro preferiti di questo spirito di fazione nazionale, pronto a impadronirsi di ciò che è di tutti per affermare la propria identità, infischiandosene altamente di quella altrui.
Non esiste forse, sempre a Milano, tra via Sarfatti e via Bocconi, nei pressi dell’Università omonima, un monumento dedicato allo studente Roberto Franceschi, ucciso negli anni Settanta in uno scontro con la polizia, che porta questa epigrafe: «A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella nuova Resistenza dal ’45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato»? Tanto peggio per la stragrande maggioranza di milanesi che, verosimilmente, non condivide né ha mai condiviso questa petizione di principio anticapitalistica, e magari pensa che di Resistenza ci sia stata solo quella terminata il 25 aprile del ’45 con la caduta del Fascismo.
Ma le due targhe di piazza Fontana rappresentano, se così si può dire, un salto di qualità nella partigianeria italiana. Esse indicano, infatti, che non già sulle interpretazioni, sul nome da dare ai fatti, ma neppure sui fatti in quanto tali la memoria italiana riesce a trovare un minimo terreno comune. Non importa ad esempio che l’unica sede accreditata ad accertare la verità della morte di Pinelli— per quanto agli esseri umani è dato di conoscere della verità—,e cioè la magistratura (nella persona oltretutto di un magistrato insospettabile come il dottor Gerardo D’Ambrosio), abbia concluso che colui che un’ingiusta campagna di stampa indicava come l’assassino dell’anarchico, il commissario Luigi Calabresi, fosse invece innocente (anche lui!); non importa che sempre la magistratura abbia concluso, al termine di indagini lunghe e imparziali, che Giuseppe Pinelli non fu ucciso da alcuno. No, nulla di queste bazzecole importa nulla. La sola cosa che conta per un numero ancora troppo alto di nostri concittadini è la «verità politica», cioè quello che ci fa comodo pensare affinché il nostro personale teatrino dei buoni e dei cattivi possa continuare a stare in piedi e noi possiamo quindi continuare a cullarci nelle nostre certezze. Al dunque è precisamente questo l’aspetto più avvilente della faziosità italiana: la coatta immobilità delle opinioni sentita come un valore e come la premessa indispensabile per la autocertificazione della propria, inesistente, virtù.
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