Da Osservatorio Democratico del 20/03/2004
La strage di Piazza Fontana tra verità storica e giudiziaria
Dopo la sentenza di assoluzione della 2a Corte D'Assise d'appello di Milano
di Saverio Ferrari
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Venerdì 12 marzo la 2° Corte d’Assise d’appello del tribunale di Milano ha mandato assolti per la strage di Piazza Fontana Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. In un solo attimo è stata ribaltata la sentenza di primo grado e si sono cancellati più di dieci anni di indagini. Le reazioni indignate, soprattutto dei familiari delle vittime, si sono accompagnate allo stupore per un esito, con tutta evidenza, fortemente in contrasto con le stesse carte processuali.
MARTINO SICILIANO:
LO STRAGISTA MANCATO
In questo processo di secondo grado, iniziato il 16 ottobre scorso, centrale era risultata la lunga testimonianza di Martino Siciliano, amico di infanzia di Delfo Zorzi, con lui alla testa della cellula di Ordine Nuovo di Mestre. Il suo racconto aveva ripercorso sia la storia politica del gruppo neofascista che la lunga catena degli attentati che la struttura clandestina dell’organizzazione, cui erano state demandate le azioni terroristiche, aveva materialmente compiuto. Uno squarcio di luce sugli anni della cosiddetta “strategia della tensione”, dalle bombe sui treni dell’agosto 1969 alla deposizione, il 4 ottobre, due mesi e mezzo prima della strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, di ordigni alla scuola di slovena di Trieste ed al cippo di confine di Gorizia. “Non ho materialmente partecipato alla strage di Piazza Fontana per puro caso” questa era stata la conclusione di Martino Siciliano. Le indagini, infatti, che si erano appuntate su di lui riguardo proprio gli episodi di Trieste e Gorizia, avevano sconsigliato al gruppo di inserirlo nel nucleo che avrebbe dovuto successivamente operare a Milano. Da Delfo Zorzi aveva comunque ricevuto, nel capodanno del 1969 a casa di una altro ordinovista, Giancarlo Vianello, la conferma di come erano andate le cose il 12 dicembre. “Mi disse che vi aveva materialmente partecipato”. Questa la ragione, soprattutto dopo la sentenza di primo grado, del tentativo operato dallo stesso Delfo Zorzi di vanificare le sue deposizioni, già rilasciate in sede istruttoria, offrendogli grosse somme di denaro per ritrattare. Una corruzione inizialmente andata a buon fine, fino a quando, attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali, la trama era stata scoperta e lo stesso Martino Siciliano arrestato. Presso il tribunale di Brescia, a breve, anche il processo ad alcuni degli avvocati di Delfo Zorzi rimasti coinvolti nel tentativo di comperare il silenzio del teste.
CARLO DIGILIO:
L’ARMIERE
Le deposizioni di Siciliano avevano in diversi punti confermato le parole di un altro fondamentale collaboratore di giustizia, Carlo Digilio, anch’egli, negli stessi anni, nella struttura veneta di Ordine Nuovo con il compito di armiere. In primo grado Digilio aveva raccontato che proprio Delfo Zorzi gli chiese di verificare qualche giorno prima del 12 dicembre 1969, probabilmente il 7, nei pressi del Canal Salso a Mestre, una grossa quantità di esplosivo custodito in cassette metalliche nel bagagliaio della vecchia 1100 di Carlo Maria Maggi, il capo di Ordine Nuovo nel Triveneto, prima del trasporto a Milano. Dagli stessi Zorzi e Maggi, Digilio aveva in tempi successivi ricevuto la confidenza che quel “carico” era stato utilizzato per la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. La 2° Corte d’assise d’appello non ha evidentemente ritenuto attendibili queste dichiarazioni, nonostante la mole davvero impressionante di riscontri. Solo il deposito delle motivazioni potrà farci scoprire attraverso quali argomentazioni logiche.
ORDINE NUOVO:
LO STRUMENTO ESECUTIVO
Nel corso di questa vicenda giudiziaria a decine sono stati i testimoni interni all’eversione di destra che hanno chiarito la natura di Ordine Nuovo, completando il quadro di evoluzione di un’organizzazione, nata nel 1956 su iniziativa di Pino Rauti per scissione dal MSI, e trasformatasi nel corso del tempo in mero strumento stragista, a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, al servizio dei diversi e ripetuti piani di violenta destabilizzazione del regime democratico. Dalle carte processuali è anche emerso, come dato oggettivo e comprovato, il quasi totale reclutamento nel Triveneto di Ordine Nuovo all’interno degli apparati di sicurezza dello Stato, dal SID all’Ufficio Affari Riservati. Non un solo uomo è risultato, per altro, essere stato estraneo ad un rapporto anche di dipendenza economica da questi stessi apparati. Strettissimi anche i contatti con alti ufficiali dell’esercito degli Stati Uniti, di stanza nelle basi NATO di Verona e Vicenza. L’ex-capo del reparto D del SID, Gianadelio Maletti, nel corso del suo interrogatorio in primo grado, confermò anche come l’esplosivo utilizzato per le bombe del 12 dicembre 1969, provenisse, secondo una relazione interna al SID, dalle basi NATO della Germania occidentale e fosse stato consegnato proprio agli uomini di Ordine Nuovo nel Veneto.
FRANCO FREDA:
STORIA DI UN PARADOSSO GIUDIZIARIO
Proprio a seguito delle indagini che hanno portato a questo nuovo processo si è raggiunta l’assoluta certezza della compartecipazione di Franco Freda e Giovanni Ventura alla strage di Piazza Fontana. Ormai assolti definitivamente non potranno essere più processati. Un paradosso di enorme rilevanza. L’elettricista Tullio Fabris solo nel novembre del 1994 ha infatti, prima di morire, confessato di essere stato materialmente lui a istruire Freda e Ventura nell’innesco dei congegni elettrici che furono poi utilizzati per la strage. Tacque a lungo per le minacce di morte. Non riferì nel primo processo a Catanzaro quanto accaduto anche per la mancata protezione da parte delle forze di polizia cui si era rivolto. Collaborò, per sua stessa ammissione, con lo stesso Freda all’acquisto di una partita di timer di 50 pezzi presso la ditta Elettrocontrolli di Bologna, distributrice in Italia della Junghans Diehl. Uno di questi, è certo, fu usato per l’attentato del 12 dicembre 1969. Freda gli anticipò anche che nel mese di dicembre sarebbe accaduto “un evento importante” che “rappresentava l’attuazione del progetto di rivolgimento politico delle istituzioni del nostro Paese da realizzare con un colpo di Stato, conseguente alla destabilizzazione provocata dagli attentati”. Un racconto, quello di Tullio Fabris, che si sarebbe potuto saldare benissimo a quello di Martino Siciliano e Carlo Digilio, completando la ricostruzione dei ruoli assunti dalle diverse cellule di Ordine Nuovo nella preparazione della strage.
UNA SOLA SENTENZA DI CONDANNA
Sul piano giudiziario, delle stragi tra il ’69 e il ’74, che segnarono il cammino del terrore, da Piazza Fontana al treno “Italicus”, solo quella di Peteano del 31 maggio 1972, in cui furono assassinati tre carabinieri attirati in una trappola con un’autobomba, è stata sanzionata con una sentenza definitiva di condanna. Per poterci arrivare, dopo anni di indagini e processi ostinatamente orientati “a sinistra”, fu necessario il colpo di teatro dell’autoconsegna alle autorità di polizia dell’ordinovista Vincenzo Vinciguerra che si assunse la responsabilità del fatto, “illuminando” gli inquirenti sulle modalità e le finalità dell’attentato. Vincenzo Vinciguerra, per questo episodio, è oggi all’ergastolo. Con lui Carlo Cicuttini, sempre della cellula di Ordine Nuovo di Udine, da pochi anni estradato dalla Spagna dopo una lunga latitanza. Impossibile non parlare a questo punto, in sede di bilancio, di fallimento della giustizia.
LA MEMORIA COLLETTIVA
La sentenza di appello di Milano inciderà certamente anche sul prossimo processo di secondo grado ai mandanti del finto anarchico Gianfranco Bertoli per la bomba alla Questura del 17 maggio 1973. Tra gli imputati ancora una volta Carlo Maria Maggi chiamato in correità da Carlo Digilio. Le stesse nuove indagini su Ordine Nuovo per la strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974, ormai al capitolo finale e prossime ad una richiesta di rinvio a giudizio, risentiranno delle conclusioni dei giudici di Milano.
Rimangono al momento, come dato certo, frutto di anni di indagini di magistrati tenaci e indipendenti, innumerevoli elementi per ricomporre la verità storica. Una verità a volte più forte e convincente di quella giudiziaria.
Proprio in Piazza Fontana, nel centro di Milano, dal 1976 è stata posta una lapide a ricordo di Giuseppe Pinelli. Solo qualche settimana fa, causa la corrosione del tempo, la si è sostituita con una nuova, identica all’originale. Le voci in favore di una sua rimozione si sono fatte sempre più flebili. Nella memoria collettiva, con buona pace di una vergognosa sentenza che fece precipitare l’anarchico per “malore attivo”, Giuseppe Pinelli fu “ucciso innocente nei locali della Questura”.
MARTINO SICILIANO:
LO STRAGISTA MANCATO
In questo processo di secondo grado, iniziato il 16 ottobre scorso, centrale era risultata la lunga testimonianza di Martino Siciliano, amico di infanzia di Delfo Zorzi, con lui alla testa della cellula di Ordine Nuovo di Mestre. Il suo racconto aveva ripercorso sia la storia politica del gruppo neofascista che la lunga catena degli attentati che la struttura clandestina dell’organizzazione, cui erano state demandate le azioni terroristiche, aveva materialmente compiuto. Uno squarcio di luce sugli anni della cosiddetta “strategia della tensione”, dalle bombe sui treni dell’agosto 1969 alla deposizione, il 4 ottobre, due mesi e mezzo prima della strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, di ordigni alla scuola di slovena di Trieste ed al cippo di confine di Gorizia. “Non ho materialmente partecipato alla strage di Piazza Fontana per puro caso” questa era stata la conclusione di Martino Siciliano. Le indagini, infatti, che si erano appuntate su di lui riguardo proprio gli episodi di Trieste e Gorizia, avevano sconsigliato al gruppo di inserirlo nel nucleo che avrebbe dovuto successivamente operare a Milano. Da Delfo Zorzi aveva comunque ricevuto, nel capodanno del 1969 a casa di una altro ordinovista, Giancarlo Vianello, la conferma di come erano andate le cose il 12 dicembre. “Mi disse che vi aveva materialmente partecipato”. Questa la ragione, soprattutto dopo la sentenza di primo grado, del tentativo operato dallo stesso Delfo Zorzi di vanificare le sue deposizioni, già rilasciate in sede istruttoria, offrendogli grosse somme di denaro per ritrattare. Una corruzione inizialmente andata a buon fine, fino a quando, attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali, la trama era stata scoperta e lo stesso Martino Siciliano arrestato. Presso il tribunale di Brescia, a breve, anche il processo ad alcuni degli avvocati di Delfo Zorzi rimasti coinvolti nel tentativo di comperare il silenzio del teste.
CARLO DIGILIO:
L’ARMIERE
Le deposizioni di Siciliano avevano in diversi punti confermato le parole di un altro fondamentale collaboratore di giustizia, Carlo Digilio, anch’egli, negli stessi anni, nella struttura veneta di Ordine Nuovo con il compito di armiere. In primo grado Digilio aveva raccontato che proprio Delfo Zorzi gli chiese di verificare qualche giorno prima del 12 dicembre 1969, probabilmente il 7, nei pressi del Canal Salso a Mestre, una grossa quantità di esplosivo custodito in cassette metalliche nel bagagliaio della vecchia 1100 di Carlo Maria Maggi, il capo di Ordine Nuovo nel Triveneto, prima del trasporto a Milano. Dagli stessi Zorzi e Maggi, Digilio aveva in tempi successivi ricevuto la confidenza che quel “carico” era stato utilizzato per la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. La 2° Corte d’assise d’appello non ha evidentemente ritenuto attendibili queste dichiarazioni, nonostante la mole davvero impressionante di riscontri. Solo il deposito delle motivazioni potrà farci scoprire attraverso quali argomentazioni logiche.
ORDINE NUOVO:
LO STRUMENTO ESECUTIVO
Nel corso di questa vicenda giudiziaria a decine sono stati i testimoni interni all’eversione di destra che hanno chiarito la natura di Ordine Nuovo, completando il quadro di evoluzione di un’organizzazione, nata nel 1956 su iniziativa di Pino Rauti per scissione dal MSI, e trasformatasi nel corso del tempo in mero strumento stragista, a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, al servizio dei diversi e ripetuti piani di violenta destabilizzazione del regime democratico. Dalle carte processuali è anche emerso, come dato oggettivo e comprovato, il quasi totale reclutamento nel Triveneto di Ordine Nuovo all’interno degli apparati di sicurezza dello Stato, dal SID all’Ufficio Affari Riservati. Non un solo uomo è risultato, per altro, essere stato estraneo ad un rapporto anche di dipendenza economica da questi stessi apparati. Strettissimi anche i contatti con alti ufficiali dell’esercito degli Stati Uniti, di stanza nelle basi NATO di Verona e Vicenza. L’ex-capo del reparto D del SID, Gianadelio Maletti, nel corso del suo interrogatorio in primo grado, confermò anche come l’esplosivo utilizzato per le bombe del 12 dicembre 1969, provenisse, secondo una relazione interna al SID, dalle basi NATO della Germania occidentale e fosse stato consegnato proprio agli uomini di Ordine Nuovo nel Veneto.
FRANCO FREDA:
STORIA DI UN PARADOSSO GIUDIZIARIO
Proprio a seguito delle indagini che hanno portato a questo nuovo processo si è raggiunta l’assoluta certezza della compartecipazione di Franco Freda e Giovanni Ventura alla strage di Piazza Fontana. Ormai assolti definitivamente non potranno essere più processati. Un paradosso di enorme rilevanza. L’elettricista Tullio Fabris solo nel novembre del 1994 ha infatti, prima di morire, confessato di essere stato materialmente lui a istruire Freda e Ventura nell’innesco dei congegni elettrici che furono poi utilizzati per la strage. Tacque a lungo per le minacce di morte. Non riferì nel primo processo a Catanzaro quanto accaduto anche per la mancata protezione da parte delle forze di polizia cui si era rivolto. Collaborò, per sua stessa ammissione, con lo stesso Freda all’acquisto di una partita di timer di 50 pezzi presso la ditta Elettrocontrolli di Bologna, distributrice in Italia della Junghans Diehl. Uno di questi, è certo, fu usato per l’attentato del 12 dicembre 1969. Freda gli anticipò anche che nel mese di dicembre sarebbe accaduto “un evento importante” che “rappresentava l’attuazione del progetto di rivolgimento politico delle istituzioni del nostro Paese da realizzare con un colpo di Stato, conseguente alla destabilizzazione provocata dagli attentati”. Un racconto, quello di Tullio Fabris, che si sarebbe potuto saldare benissimo a quello di Martino Siciliano e Carlo Digilio, completando la ricostruzione dei ruoli assunti dalle diverse cellule di Ordine Nuovo nella preparazione della strage.
UNA SOLA SENTENZA DI CONDANNA
Sul piano giudiziario, delle stragi tra il ’69 e il ’74, che segnarono il cammino del terrore, da Piazza Fontana al treno “Italicus”, solo quella di Peteano del 31 maggio 1972, in cui furono assassinati tre carabinieri attirati in una trappola con un’autobomba, è stata sanzionata con una sentenza definitiva di condanna. Per poterci arrivare, dopo anni di indagini e processi ostinatamente orientati “a sinistra”, fu necessario il colpo di teatro dell’autoconsegna alle autorità di polizia dell’ordinovista Vincenzo Vinciguerra che si assunse la responsabilità del fatto, “illuminando” gli inquirenti sulle modalità e le finalità dell’attentato. Vincenzo Vinciguerra, per questo episodio, è oggi all’ergastolo. Con lui Carlo Cicuttini, sempre della cellula di Ordine Nuovo di Udine, da pochi anni estradato dalla Spagna dopo una lunga latitanza. Impossibile non parlare a questo punto, in sede di bilancio, di fallimento della giustizia.
LA MEMORIA COLLETTIVA
La sentenza di appello di Milano inciderà certamente anche sul prossimo processo di secondo grado ai mandanti del finto anarchico Gianfranco Bertoli per la bomba alla Questura del 17 maggio 1973. Tra gli imputati ancora una volta Carlo Maria Maggi chiamato in correità da Carlo Digilio. Le stesse nuove indagini su Ordine Nuovo per la strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974, ormai al capitolo finale e prossime ad una richiesta di rinvio a giudizio, risentiranno delle conclusioni dei giudici di Milano.
Rimangono al momento, come dato certo, frutto di anni di indagini di magistrati tenaci e indipendenti, innumerevoli elementi per ricomporre la verità storica. Una verità a volte più forte e convincente di quella giudiziaria.
Proprio in Piazza Fontana, nel centro di Milano, dal 1976 è stata posta una lapide a ricordo di Giuseppe Pinelli. Solo qualche settimana fa, causa la corrosione del tempo, la si è sostituita con una nuova, identica all’originale. Le voci in favore di una sua rimozione si sono fatte sempre più flebili. Nella memoria collettiva, con buona pace di una vergognosa sentenza che fece precipitare l’anarchico per “malore attivo”, Giuseppe Pinelli fu “ucciso innocente nei locali della Questura”.
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