Da Il Manifesto del 02/04/2006

Trafficanti di morte

Tutte le nostre armi in giro per il mondo

Presentata la relazione annuale al parlamento sul commercio «letale». L'Italia occupa le prime posizioni nel mondo per la produzione di armamenti da guerra e «civili». Un mercato sempre florido, che muove miliardi. Tutto alla luce del sole: le maggiori compravendite avvengono tra stati.

Venerdì 31 marzo il governo ha esposto in Parlamento la relazione annuale sul commercio e sul traffico di armamenti militari. Mitra, fucili d'assalto, mitragliatrici, lancia granate, mortai. Per la produzione di questo tipo di armi, comunemente definite da guerra, è stato speso nel 2004 un trilione di dollari, 841 miliardi di euro. I dati sono dell'Istituto per la pace di Stoccolma, il Sipri.

In questa speciale classifica, l'Italia occupa il settimo posto al mondo come paese produttore di armi da guerra.

Pistole, revolver, carabine, fucili da caccia o per legittima difesa, sono le cosiddette armi sportive o civili e per la produzione in questo settore l'Italia spicca in seconda posizione, subito dopo gli Stati uniti d'America. Negli ultimi cinque anni, per l'export di armi civili è stato speso un miliardo e mezzo di euro.

Per il 2006 ci dobbiamo riferire a dati apparentemente vecchi perché è difficile risalire alle commesse per le armi, e ancor più difficile calcolarne il reale portato perché spesso bisogna incrociare più dati. L'ultimo rapporto a nostra disposizione, l'edizione del 2006 di «Economia a mano armata» è stato redatto da Sbilanciamoci. Perché è così difficile ricostruire i dati, lo abbiamo chiesto ad uno dei curatori del rapporto, il giornalista Martino Mazzonis: «Noi sappiamo che il bilancio della difesa italiana è fermo, ma negli ultimi anni le missioni all'estero del nostro esercito sono state finanziate con soldi extra ministero della difesa, per esempio dal ministero delle attività produttive quando si è trattato di sviluppare, per esempio, la produzione di un determinato tipo di arma».

Il mercato delle armi è florido, lo abbiamo visto dai miliardi dell'export. Un mercato quasi tutto alla luce del sole, dove le maggiori compravendite avvengono tra stati.

La normativa

Questo mercato avrà pur delle regole. In Italia, per esempio, la legge che regolamenta il traffico di armi da guerra è la 185 del 1990, da molti definita una buona legge. Per Emilio Emmolo, studioso dell'Archivio Disarmo, la legge 185 è uno dei migliori esempi internazionali in materia di controllo del commercio delle armi: «La 185 pone il divieto di esportare armi in zone di conflitto, verso paesi che violano i diritti umani, o verso cui vi sia il rischio di triangolazioni. Un altro punto qualificante sono le misure di trasparenza. Ogni anno il governo presenta una relazione al Parlamento e all'opinione pubblica sulle politiche del commercio di armi e prevede informazioni molto dettagliate sulle singole esportazioni di armi ai singoli paesi».

L'ultima relazione del governo sul commercio di armi è stata presentata venerdì 31 marzo.

Dal '90 ad oggi però, la 185 è stata modificata nei suoi tratti salienti: una modifica bipartisan, tentata sia dal governo D'Alema che dal governo Berlusconi. «In questi ultimi quindici anni la legge è stata quasi del tutto modificata - dice Emilio Emmolo - nel 1992 sono state escluse dall'applicazione della 185 tutte le piccole armi, le pistole, i fucili considerati ad uso sportivo. E poi vengono allentati tutti i divieti, fino all'inizio del 2003 quando vengono addirittura escluse dalla relazione prevista per la 185 tutte le coproduzioni di armamenti».

Le armi sportive, escluse dalla 185, vengono regolamentate dalla legge 110 molto, ma molto più datata. La prima versione è del 1930, poi modificata nel 1975.

«La legge degli anni settanta risale al momento in cui in Italia c'era il problema della Brigate Rosse e del terrorismo nero - dice Maurizio Simoncelli dell'Archivio Disarmo - per cui il legislatore si pose il problema del controllo interno di chi acquistava e deteneva le armi, le esportazioni in quel periodo non erano un punto molto significativo».

Perché il mercato delle armi si metta in moto può essere utilizzato il meccanismo delle triangolazioni, cioè facendo passare una partita di armi attraverso uno, due o tre paesi, finché non si raggiunge lo snodo che consente di farle pervenire nella zona di interesse.

Gli intermediari economici senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe possibile sono ovviamente le banche, che intervengono in un momento preciso della transazione. Giorgio Beretta della Campagna Contro le Banche Armate: «Il ruolo dalle banche non è accessorio, e per la loro intermediazione richiedono compensi che variano dal 3, 4 per cento fino al 10 per cento del valore della partita di armi venduta».

Gli ultimi quindici anni

Dal 1990 ad oggi, la fine della guerra fredda e le nuove leggi del mercato globale hanno rivoluzionato anche il commercio delle armi, le grandi aziende produttrici di armi vengono internazionalizzate. Un passaggio fondamentale per l'indebolimento della 185 è stato la costituzione di Occar, l'Organizzazione congiunta per la cooperazione in materia di armamenti, sottoscritta dai ministri della difesa di Francia, Germania, Regno unito, Spagna, Svezia e Italia, paesi che insieme assemblano il 90 per cento dell'intera produzione europea degli armamenti. Lo scambio internazionale di armi viene di fatto trasferito ad un organismo diverso dal parlamento di ogni singolo stato.

Questo lo scenario politico. Dal punto di vista economico invece, l'industria in questo momento ha una necessità forte di globalizzare i propri servizi di produzione e di scambio dei materiali.

Una holding italiana che ha saputo muoversi ed adeguarsi presto a questi nuovi scenari è certamente Finmeccanica, il più grande produttore italiano di armi, che possiede numerose imprese e in questi anni ha fatto fusioni e acquisizioni molto dinamiche, diventando la decima azienda al mondo nella produzione di armi, una azienda pubblica al 30 per cento.

Quali rischi si corrono quando una azienda viene, per così dire, internazionalizzata? «In questi casi c'è il rischio che si scavalchino le procedure nazionali - dice Emilio Emmolo - un esempio: per decidere chi deve firmare le autorizzazioni per le esportazioni verso paesi terzi, si può scegliere di applicare la legge del paese in cui è stato assemblato l'armamento, oppure la legge dello stato in cui è stato firmato il contratto».

Le armi sportive

L'Italia non produce solo armi da guerra, il nostro paese è infatti al secondo posto al mondo per la produzione di armi sportive e civili. D'altra parte l'industria delle armi è un settore sempre florido, motore di progresso tecnico e sociale, come ha ricordato Sergio Romano sulle pagine del Corriere della Sera dello scorso 17 marzo. Il commento dell'editorialista del Corriere segnala, come esempio più alto della contaminazione tra progresso militare e tecnologico, l'avvento del telefono cellulare. Qui siamo su un terreno scivoloso ben conosciuto da chi lavora nel settore delle armi, il cosiddetto dual use. Anche un computer può essere utilizzato per organizzare una guerra, oltre che per inviare e-mail.

Non bisogna invece fare lo sforzo di cambiare la destinazione d'uso di un oggetto quando si utilizzano le armi sportive in zone di guerra. Lo ricorda bene Padre Mario Guerra, 40 anni trascorsi in Sierra Leone e sequestrato dai ribelli nel 1998. «In Sierra Leone ho visto kalashnikov, M-16, bazooka e bombe a mano. Il capo dei ribelli mi ha mostrato una volta una pistola Beretta. Come le rimediavano? Una parte dei ribelli erano soldati secessionisti, quindi hanno portato con sè le armi in dotazione dell'esercito. E poi a rifornire i ribelli di armi ci pensava anche la Liberia, attraverso un elicottero che io ho visto con i miei occhi camuffato con le sigle della Croce Rossa internazionale».

Questa raccontata da Padre Mario è una vecchia storia sempre attuale. L'ultima salita alla ribalta su segnalazione della rivista L'Espresso, è stato il ritrovamento delle pistole Beretta nel territorio di guerra più caldo degli ultimi anni, l'Iraq.

A questo punto forse non ha più senso la distinzione tra armi civili e armi da guerra.

«Per armi ad uso civile si intende un settore molto vasto - dice Maurizio Simoncelli dell'Archivio Disarmo - ci sono armi automatiche, come la Beretta calibro 9 che a suo tempo era considerata un'arma militare e solo successivamente in Italia è stata classificata come arma sportiva, anche se l'arma è sempre la stessa. Ci sono fucili che hanno la capacità di buttare giù un elefante, figurati un essere umano».

Per alcuni studiosi l'industria delle armi vive di questi tempi una sorta di impasse tra la spinta del mercato alla globalizzazione e la difesa degli armamenti nazionali.

«Anche se non basta una legge per risolvere il problema delle armi, perché l'origine è alla radice dei conflitti - dice Achille Lodovisi - è necessario chiedere una normativa europea e internazionale vincolante dal punto di vista legale. Ci sono stati degli accordi, dei primi passi positivi, per esempio con l'adesione di molti paesi dell'Africa occidentale al protocollo di intesa per il controllo e la limitazione del traffico delle armi sotto il cartello dell'Organizzazione economica regionale, l'Ecowas. Tuttavia nessuno di questi accordi ha valore legale vincolante».

Se nessun accordo internazionale ha valore vincolante, il mercato delle armi è aperto al gioco del mercato. E l'Italia gioca, forte della sua ricca produzione di armi, il fiore all'occhiello del made in Italy nel mondo.

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