Da Corriere della Sera del 28/05/2006
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2006/05_Maggio/28/somalia.shtml
Nel Paese africano si scontrano milizie filo-occidentali e islamiche
«Armi italiane ai signori della guerra somali»
L'Onu denuncia la violazione dell'embargo. La replica di Roma: «Nessuna fornitura». Non compaiono invece gli Stati Uniti
di Massimo A. Alberizzi
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NAIROBI – Le accuse dell’Onu sono durissime: «L’Italia lo scorso autunno ha fornito materiale militare al Governo Federale di Transizione somalo (Tfg), violando l’embargo imposto dal Consiglio di Sicurezza». Assieme all’Italia il rapporto del gruppo di investigatori incaricato dall’Onu di monitorare le violazioni alle forniture d’armi (di cui il Corriere ha ottenuto una copia) cita Gibuti, Eritrea, Etiopia, Arabia Saudita e Yemen.
Non compaiono invece gli Stati Uniti (ma viene indicato solo un «Paese Terzo»), nonostante una fonte bene introdotta all’interno del gruppo di monitoraggio avesse assicurato al Corriere che le prove contro Washington (massicci finanziamenti ai signori della guerra) fossero schiaccianti. «L’amministrazione Bush ha minacciato di bloccare il rapporto al vaglio del Consiglio di Sicurezza, se non fosse stato cancellato il nome degli Stati Uniti. Sono così rimasti i riferimenti ai finanziamenti ai signori della guerra, ma è stato tolto ogni riferimento preciso», ha sottolineato al Corriere la stessa fonte. Riguardo le forniture da parte dell’Italia, il rapporto è assai dettagliato: cita le date in cui sono state spedite, (tra il 12 e il 16 ottobre 2005 e il 14 dicembre dello stesso anno), il porto e l’aeroporto dove è stata scaricata la merce (El Ma’an e lo scalo di Johar) e il materiale consegnato al Governo Federale di Transizione: 18 camion, «un certo numero di casse lunghe, larghe e sigillate tenute sotto stretta sicurezza», tende e altre casse «con scritte in italiano che attribuivano il contenuto all’esercito italiano».
Secondo il gruppo di monitoraggio dell’Onu, appena arrivati alcuni camion sono stati utilizzati per il trasporto dei miliziani e in particolare tre di essi equipaggiati con un cannoncino antiaereo. Ai chiarimenti richiesti degli investigatori il nostro governo ha risposta con una lettera nella quale si nega qualunque spedizione di camion al porto di El Ma’an. La comparsa dei veicoli in Somalia «si può spiegare con il possibile acquisto del materiale italiano sul mercato, dove esiste equipaggiamento dismesso dalle nostre forze armate». Effettivamente è risultato che un uomo d’affari di Dubai ha comprato quei camion a Bari e li ha spediti in Somalia, violando, lui sì, l’embargo. Per quel che riguarda invece le casse scaricate a Johar, si tratta di voli organizzati dalla Cooperazione Italiana, in partenza dalla Base delle Nazioni Unite a Brindisi «con carichi umanitari (generatori, tende multi uso, utensili da cucina, contenitori per l’acqua e prefabbricati) procurati in accordo con l’Onu». La circostanza è stata confermata dalle fonti del Corriere all’interno della base di Brindisi.
Riguardo il Paese terzo, il documento dell’Onu è più cauto e sfumato: si parla di finanziamenti « per aiutare l’organizzazione di milizie create per combattere le minacce poste dai movimenti fondamentalisti che stanno crescendo nella Somalia centrale e meridionale». Infatti le milizie dei signori della guerra - che in queste ora stanno combattendo a Mogadiscio, riuniti nell’Alleanza per la Restaurazione della Pace e contro il Terrorismo, contro l’Unione della Corti Islamiche - sembrano dotate di armi nuove e più sofisticate. I comandanti hanno a disposizione moderne radio walkie-talkie per comunicare tra loro. Per altro anche gli islamici sono ben armati. Secondo il rapporto ricevono aiuto principalmente dall’Eritrea che in politica estera sta facendo un pesante doppio gioco. Da una parte dice di sostenere la guerra americana al terrorismo, dall’altra fornisce ingenti quantità di armi agli islamici somali e a quelli etiopici dell’Oromo Liberation Front e dell’Ogaden People’s Liberation Front, che operano anche in Somalia.
L’Eritrea è un’alta spina nel fianco degli americani che stanno pensando come fare e sbarazzarsi di una sanguinaria dittatura diventata per loro inaffidabile. Secondo fonti di intelligence la Cia sta pensando a un cambio della guardia anche ad Asmara, a meno che il presidente Isayas Afeworki non inverta in fretta la rotta e non solo rinunci a fornire armi agli islamici ma si impegni concretamente nella lotta al terrorismo «american style». Che gli Stati Uniti abbiamo aperto nel Corno d’Africa un nuovo fronte della guerra al terrorismo appare evidente da alcuni indizi.
Il generale William F. Garrison, l’uomo che guidava la Delta Force ai tempi della fallita operazione Unosom del ‘93-’94, nei mesi scorsi si è recato a Mogadiscio per incontrare i signori della guerra. Ma nella capitale somala recentemente è andato anche Porter Goss, ultima missione prima di essere cacciato da capo della Cia pochi giorni fa. Inoltre un aereo americano a giorni alterni atterra all’aeroporto di Gesira, a una trentina di chilometri a sud di Mogadiscio, controllato da Omar Finish, uno dei comandanti dell’Alleanza. Scarica apparecchiature elettroniche e ne carica altre. Secondo fonti somale non verificate, si tratta di registrazioni di tutte le conversazioni telefoniche che si svolgono nella capitale. Infine la base americana a Gibuti sarebbe stata trasformata in campo di prigionia segreto simile a Guantanamo. Fuori da occhi indiscreti verrebbero lì trasferiti presunti terroristi da trattare senza nessuna delle garanzie previste dalle convenzioni internazionali. Appare certo, comunque, che gli uomini di Al Qaeda negli ultimi anni abbiano utilizzato la Somalia come base per organizzare le loro operazioni terroristiche in Africa Orientale, dagli attentati nel 1998 alle ambasciate americane di Nairobi e Dar Es Salaam, agli attacchi nel 2002 a Mombasa,all’hotel e all’aero utilizzati da turisti israeliani, al tentativo, nel 2003, di bombardare l’ambasciata americana con una piccolo aereo.
In Somalia avrebbero trovato rifugio alcuni terroristi di Al Qaeda il cui elenco, secondo la rivista specializzata Africa Confidential, sarebbe stata consegnata dagli uomini della Cia ai capifazione dell’Alleanza perché si occupino della loro cattura. In questo quadro si inserisce il tentativo del Pentagono di servirsi dei signori della guerra per combattere e distruggere le corti islamiche di Mogadiscio che, secondo Washington, proteggono i terroristi. Le corti, inoltre, riceverebbero finanziamenti dal network di Osama Bin Laden e dai sauditi. Ma pare che le cose per gli alleati di Washington stiano andando assai male. Giovedì è scoppiata una violentissima battaglia che durava ancora ieri.
I fondamentalisti hanno conquistato il nodo centrale del Quarto Chilometro, una piazza da cui si diramano le strade che portano al porto e all’aeroporto internazionale (chiuso dal 1995), e lo storico hotel Sahafi. «I morti sono almeno 200 – ha raccontato al telefono il dottor Jia, che opera in continuazione all’ospedale Medina -. I feriti quasi 400. Non abbiamo sangue per le trasfusioni, non abbiamo bende, garze, medicina. Imponete almeno una tregua e mandate un aiuto sanitario urgente». La gente terrorizzata è in fuga. I contendenti tirano cannonate e colpi di mortai ormai a casaccio. E ovviamente vengono colpiti i civili, che più di tutti sono vittime della violenza. Ieri Abdi Nur Said (detto «Waal», il pazzo), uno dei comandanti delle milizie antifondamentaliste, contattato al telefono dal Corriere, mentre «nella cornetta» esplodevano colpi di cannone, ha lanciato un appello al telefono: «Se il mondo non interviene la Somalia diventerà un nuovo Afghanistan dei talebani. Vogliono islamizzare tutto; trasformare il Paese in un campo di terroristi».
La situazione politica è assai confusa. Alcuni dei signori della guerra che combattono i fondamentalisti, sono anche ministri del Governo Federale di Transizione, che ha condannato i combattimenti in corso. Ieri il premier Ali Ghedi ha intimato ai ministri al fronte di deporre le armi e tornare a sedersi sui banchi della politica. In realtà anche la componente islamica è assai variegata e i moderati sarebbero pronti a dialogare con il governo, anche se per ora la leadership è in mano ai più radicali. La confusione dunque regna sovrana. Per ora una sola cosa è chiara: i fondamentalisti sono a un passo dal conquistare tutta la capitale. Perché mai dovrebbero fermarsi?
Non compaiono invece gli Stati Uniti (ma viene indicato solo un «Paese Terzo»), nonostante una fonte bene introdotta all’interno del gruppo di monitoraggio avesse assicurato al Corriere che le prove contro Washington (massicci finanziamenti ai signori della guerra) fossero schiaccianti. «L’amministrazione Bush ha minacciato di bloccare il rapporto al vaglio del Consiglio di Sicurezza, se non fosse stato cancellato il nome degli Stati Uniti. Sono così rimasti i riferimenti ai finanziamenti ai signori della guerra, ma è stato tolto ogni riferimento preciso», ha sottolineato al Corriere la stessa fonte. Riguardo le forniture da parte dell’Italia, il rapporto è assai dettagliato: cita le date in cui sono state spedite, (tra il 12 e il 16 ottobre 2005 e il 14 dicembre dello stesso anno), il porto e l’aeroporto dove è stata scaricata la merce (El Ma’an e lo scalo di Johar) e il materiale consegnato al Governo Federale di Transizione: 18 camion, «un certo numero di casse lunghe, larghe e sigillate tenute sotto stretta sicurezza», tende e altre casse «con scritte in italiano che attribuivano il contenuto all’esercito italiano».
Secondo il gruppo di monitoraggio dell’Onu, appena arrivati alcuni camion sono stati utilizzati per il trasporto dei miliziani e in particolare tre di essi equipaggiati con un cannoncino antiaereo. Ai chiarimenti richiesti degli investigatori il nostro governo ha risposta con una lettera nella quale si nega qualunque spedizione di camion al porto di El Ma’an. La comparsa dei veicoli in Somalia «si può spiegare con il possibile acquisto del materiale italiano sul mercato, dove esiste equipaggiamento dismesso dalle nostre forze armate». Effettivamente è risultato che un uomo d’affari di Dubai ha comprato quei camion a Bari e li ha spediti in Somalia, violando, lui sì, l’embargo. Per quel che riguarda invece le casse scaricate a Johar, si tratta di voli organizzati dalla Cooperazione Italiana, in partenza dalla Base delle Nazioni Unite a Brindisi «con carichi umanitari (generatori, tende multi uso, utensili da cucina, contenitori per l’acqua e prefabbricati) procurati in accordo con l’Onu». La circostanza è stata confermata dalle fonti del Corriere all’interno della base di Brindisi.
Riguardo il Paese terzo, il documento dell’Onu è più cauto e sfumato: si parla di finanziamenti « per aiutare l’organizzazione di milizie create per combattere le minacce poste dai movimenti fondamentalisti che stanno crescendo nella Somalia centrale e meridionale». Infatti le milizie dei signori della guerra - che in queste ora stanno combattendo a Mogadiscio, riuniti nell’Alleanza per la Restaurazione della Pace e contro il Terrorismo, contro l’Unione della Corti Islamiche - sembrano dotate di armi nuove e più sofisticate. I comandanti hanno a disposizione moderne radio walkie-talkie per comunicare tra loro. Per altro anche gli islamici sono ben armati. Secondo il rapporto ricevono aiuto principalmente dall’Eritrea che in politica estera sta facendo un pesante doppio gioco. Da una parte dice di sostenere la guerra americana al terrorismo, dall’altra fornisce ingenti quantità di armi agli islamici somali e a quelli etiopici dell’Oromo Liberation Front e dell’Ogaden People’s Liberation Front, che operano anche in Somalia.
L’Eritrea è un’alta spina nel fianco degli americani che stanno pensando come fare e sbarazzarsi di una sanguinaria dittatura diventata per loro inaffidabile. Secondo fonti di intelligence la Cia sta pensando a un cambio della guardia anche ad Asmara, a meno che il presidente Isayas Afeworki non inverta in fretta la rotta e non solo rinunci a fornire armi agli islamici ma si impegni concretamente nella lotta al terrorismo «american style». Che gli Stati Uniti abbiamo aperto nel Corno d’Africa un nuovo fronte della guerra al terrorismo appare evidente da alcuni indizi.
Il generale William F. Garrison, l’uomo che guidava la Delta Force ai tempi della fallita operazione Unosom del ‘93-’94, nei mesi scorsi si è recato a Mogadiscio per incontrare i signori della guerra. Ma nella capitale somala recentemente è andato anche Porter Goss, ultima missione prima di essere cacciato da capo della Cia pochi giorni fa. Inoltre un aereo americano a giorni alterni atterra all’aeroporto di Gesira, a una trentina di chilometri a sud di Mogadiscio, controllato da Omar Finish, uno dei comandanti dell’Alleanza. Scarica apparecchiature elettroniche e ne carica altre. Secondo fonti somale non verificate, si tratta di registrazioni di tutte le conversazioni telefoniche che si svolgono nella capitale. Infine la base americana a Gibuti sarebbe stata trasformata in campo di prigionia segreto simile a Guantanamo. Fuori da occhi indiscreti verrebbero lì trasferiti presunti terroristi da trattare senza nessuna delle garanzie previste dalle convenzioni internazionali. Appare certo, comunque, che gli uomini di Al Qaeda negli ultimi anni abbiano utilizzato la Somalia come base per organizzare le loro operazioni terroristiche in Africa Orientale, dagli attentati nel 1998 alle ambasciate americane di Nairobi e Dar Es Salaam, agli attacchi nel 2002 a Mombasa,all’hotel e all’aero utilizzati da turisti israeliani, al tentativo, nel 2003, di bombardare l’ambasciata americana con una piccolo aereo.
In Somalia avrebbero trovato rifugio alcuni terroristi di Al Qaeda il cui elenco, secondo la rivista specializzata Africa Confidential, sarebbe stata consegnata dagli uomini della Cia ai capifazione dell’Alleanza perché si occupino della loro cattura. In questo quadro si inserisce il tentativo del Pentagono di servirsi dei signori della guerra per combattere e distruggere le corti islamiche di Mogadiscio che, secondo Washington, proteggono i terroristi. Le corti, inoltre, riceverebbero finanziamenti dal network di Osama Bin Laden e dai sauditi. Ma pare che le cose per gli alleati di Washington stiano andando assai male. Giovedì è scoppiata una violentissima battaglia che durava ancora ieri.
I fondamentalisti hanno conquistato il nodo centrale del Quarto Chilometro, una piazza da cui si diramano le strade che portano al porto e all’aeroporto internazionale (chiuso dal 1995), e lo storico hotel Sahafi. «I morti sono almeno 200 – ha raccontato al telefono il dottor Jia, che opera in continuazione all’ospedale Medina -. I feriti quasi 400. Non abbiamo sangue per le trasfusioni, non abbiamo bende, garze, medicina. Imponete almeno una tregua e mandate un aiuto sanitario urgente». La gente terrorizzata è in fuga. I contendenti tirano cannonate e colpi di mortai ormai a casaccio. E ovviamente vengono colpiti i civili, che più di tutti sono vittime della violenza. Ieri Abdi Nur Said (detto «Waal», il pazzo), uno dei comandanti delle milizie antifondamentaliste, contattato al telefono dal Corriere, mentre «nella cornetta» esplodevano colpi di cannone, ha lanciato un appello al telefono: «Se il mondo non interviene la Somalia diventerà un nuovo Afghanistan dei talebani. Vogliono islamizzare tutto; trasformare il Paese in un campo di terroristi».
La situazione politica è assai confusa. Alcuni dei signori della guerra che combattono i fondamentalisti, sono anche ministri del Governo Federale di Transizione, che ha condannato i combattimenti in corso. Ieri il premier Ali Ghedi ha intimato ai ministri al fronte di deporre le armi e tornare a sedersi sui banchi della politica. In realtà anche la componente islamica è assai variegata e i moderati sarebbero pronti a dialogare con il governo, anche se per ora la leadership è in mano ai più radicali. La confusione dunque regna sovrana. Per ora una sola cosa è chiara: i fondamentalisti sono a un passo dal conquistare tutta la capitale. Perché mai dovrebbero fermarsi?
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