Da Aprile del 10/05/2006
Aldo Moro, 28 anni di mezze verità
La nostra storia. Il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse rapiscono il presidente Dc. Il 9 maggio lo statista viene assassinato. Si aprono i 55 giorni più drammatici dell’Italia repubblicana
di Carla Ronga
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Alle 9,15 del 16 marzo 1978 le Brigate Rosse rapiscono il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro e massacrano i cinque uomini della sua scorta. L’agguato avviene a Roma, in via Fani ed è compiuto con rapidità e precisione impressionante. Pochi minuti e i brigatisti uccidono i due carabinieri che sono a bordo dell’auto di Moro e i tre poliziotti dell'auto di scorta. Moro viene caricato su una Fiat 132 blu. Pochi minuti dopo con una telefonata all’Ansa le stesse Br annunciano l’accaduto. Nell’agguato la maggioranza dei colpi (49 su di un totale di 93 proiettili ritrovati dalle forze dell'ordine) è sparata da una sola arma. I testimoni parleranno di un killer freddo e spietato. A distanza di 28 anni, non si conosce ancora il suo nome.
Artefice negli anni Sessanta dell’apertura ai socialisti, Aldo Moro è il principale interlocutore del Pci nella realizzazione del compromesso storico tra comunisti e democristiani che dovrebbe far uscire il Paese da uno stallo politico senza precedenti. La mattina del 16 marzo si sta recando alla Camera per il dibattito sulla fiducia al quarto governo Andreotti, il primo con l’aperto sostegno del Pci. Comincia così un sequestro che getta il Paese nell’angoscia per 55 lunghissimi giorni. L'epilogo è tragico e noto. Il corpo senza vita di Moro è ritrovato il 9 maggio in una Renault rossa in Via Caetani, in pieno centro di Roma.
Nel giugno 1976, la Dc è al 38 per cento, incalzata dal Pci di Berlinguer al 34,4. Moro è il candidato in pectore alla presidenza della Repubblica. A giugno le Camere saranno chiamate a scegliere il successore di Giovanni Leone e sembra chiaro che spetterà a Moro dirigere dal Quirinale l’alleanza tra Pci e Dc. Con il suo assassinio,il 9 maggo del 1978, muore il compromesso storico, si chiude una stagione politica dell’Italia repubblicana e se ne apre un’altra di segno opposto.
Alle 12,46 del 16 marzo riprendono i lavori alla Camera. Il governo Andreotti ottiene la fiducia alle 20,35. Senza il sequestro Moro, il Pci di Enrico Berlinguer non avrebbe probabilmente mai votato un esecutivo che non presentava elementi di novità rispetto al precedente, un monocolore Dc che si reggeva grazie all’astensione dei comunisti (il governo della “non sfiducia”). Questo governo durerà poco più di un anno. La sua caduta porterà alle elezioni anticipate del giugno 1979 che vedranno una tenuta della Dc e un sensibile calo del Pci.
In una prima ricostruzione i killer erano soltanto quattro. Oggi si è portati a pensare che in tutta l’operazione fossero coinvolte almeno una ventina di persone. Sei processi non hanno dissipato una serie incredibile di incongruenze e contraddizioni. Ne ricordiamo qualcuna, sapendo perfettamente che sarebbe troppo lungo elencarle tutte.
Per iniziare, il mistero delle valigette scomparse. Secondo la vedova Moro, il marito usciva abitualmente di casa portando con sé cinque borse: una contenente documenti riservati, una di medicinali ed oggetti personali; nelle altre tre vi erano ritagli di giornale e tesi di laurea dei suoi studenti. Subito dopo l'agguato sull'auto di Moro vennero però rinvenute solamente tre borse. Delle altre due non si è mai saputo nulla.
E ancora, attorno al luogo dell’agguato, si aggirano strani personaggi. Uno di questi, il colonnello del Sismi Guglielmi, legato all’ambiguo generale Musumeci (poi condannato per diversi depistaggi), ammetterà di trovarsi lì perché “invitato a pranzo da un amico”. Un pranzo alle nove di mattina.
Al numero 109 di Via Fani, Gherardo Nucci scatta dal balcone di casa una dozzina di foto della scena della strage a pochi secondi dalla fuga del commando. Sua moglie, giornalista dell’Asca, consegna i rullini alla magistratura. Le foto spariscono. Pochi giorni dopo il sequestro, in una seduta spiritica a cui partecipano diversi professori universitari di Bologna (tra cui anche Romano Prodi), il fantasma di Giorgio La Pira avrebbe indicato che Moro era prigioniero a “Gradoli”. E' probabile che la seduta spiritica fosse la copertura di una soffiata proveniente dall’area della sinistra extraparlamentare di Bologna. Ma si fa finta di non capire, le forze dell’ordine mettono sottosopra Gradoli, piccolo centro in provincia di Viterbo, senza trovare nulla. Il 18 aprile una perdita d’acqua un po’ strana (la cornetta della doccia è bloccata verso il muro in modo da provocare un’infiltrazione), fa scoprire un covo delle Br in via Gradoli a Roma. E’ la casa in cui dorme abitualmente Moretti e una delle basi più importanti delle Br. La scoperta avviene sotto gli occhi delle televisioni. I brigatisti sanno dell'accaduto dai telegiornali e si guardano bene dal rimettere piede in via Gradoli.
Chi ha fatto scoprire il covo? Secondi alcuni si tratta di una partita tra servizi segreti e Br. Moro sta rivelando ai sequestratori verità scottanti. A questo punto, entrano in gioco le diverse congetture e interpretazioni. Sono in molti a volerlo morto e ad operarsi perché ciò che dice rimanga conosciuto a pochissimi. I servizi, individuate le Br, avrebbero imposto loro l'uccisione dell'ostaggio. “Bruciare” il covo di via Gradoli potrebbe essere stato un avvertimento. Per molti si tratta di pure congetture.
Poche ore dopo un altro colpo di scena: viene trovato il comunicato n. 7 che annuncia che il cadavere di Moro si trova sul fondo del Lago della Duchessa, sul Gran Sasso. Per ore le forze dell'ordine cercano inutilmente nel lago ghiacciato. Il comunicato è scritto dal falsario Toni Chicchiarelli, legato alla Banda della Magliana, ucciso qualche anno dopo in circostanze misteriose. La messa in scena sarebbe stata un diversivo per distrarre l'opinione pubblica da quanto accaduto in via Gradoli.
In uno dei primi comunicati, le Br affermano che il “prigioniero sta collaborando”, rivelando cose interessanti. I sequestratori si preoccupano anche di dire che “nulla verrà nascosto alle masse”. Moro svela ai brigatisti diversi segreti di Stato, dall’esistenza di Gladio, la struttura segreta della Nato, ai finanziamenti illeciti ricevuti dalla Dc. Ma, a sequestro concluso, le Br dichiarano che Moro non ha detto nulla di interessante e che i documenti saranno pubblicati attraverso la rete “clandestina proletaria”. Le carte del "memoriale Moro" sono trovate in due fasi successive: una prima parte viene rinvenuta nell’ottobre del 1978 nel covo di via Montenevoso a Milano, quelle più scottanti saranno trovate nello stesso appartamento solo 12 anni dopo, nell’ottobre del 1990, celate dietro a un pannello. La Guerra Fredda è ormai finita e la scoperta dell’esistenza di Gladio provoca un terremoto politico.
I misteri d'Italia si sa, spesso si intrecciano tra loro. Accade con la vicenda di Mino Pecorelli, direttore della rivista scandalistica Op, che aveva cominciato a titolare pezzi a dir poco allusivi: “Il Morobondo”, “Il ministro morirà a maggio”. “E’ Jalta che ha deciso Via Fani”. E’ la sibillina affermazione del giornalista che vuole dire che l’eliminazione di Moro e del suo progetto politico di apertura ai comunisti è una conseguenza inevitabile dell’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza americana. D'altra parte, la vedova Moro ha più volte affermato che il presidente della Dc era rimasto sconvolto da come il segretario di Stato Usa Henry Kissinger lo aveva messo in guardia dal formare un governo col Pci. Ancora Pecorelli, legato ai servizi segreti, sulla sua rivista lancia accuse precise sotto forma di messaggi in codice. Il tempo dimostrerà che molte sue “intuizioni” erano esatte. In un clamoroso articolo intitolato “Vergogna, buffoni!”, sostiene che il generale Dalla Chiesa (lui lo chiama “Amen”) era andato da Andreotti dicendogli che aveva individuato la prigione di Moro e chiedeva l’autorizzazione per il blitz. Ma il presidente temporeggiò – secondo Pecorelli – perché doveva chiedere il permesso alla “loggia di Cristo in paradiso” ( P2), i cui affiliati – si è scoperto poi - controllavano i punti chiave dello Stato. Pecorelli viene ucciso il 20 marzo 1979 a colpi d’arma da fuoco. Nel 1992 il pentito di mafia Tommaso Buscetta sosterrà che il delitto venne eseguito dalla mafia per “fare un favore ad Andreotti”, preoccupato per certe carte su Moro in possesso di Pecorelli. Il processo a carico di Andreotti si è concluso nell’ottobre 2003 con il giudizio della Cassazione che sancisce l’estraneità di Andreotti al delitto.
Torniamo a Moro e ai misteri che circondano il suo assassinio. Nel novembre 1977 Sergej Sokolov, borsista presso la facoltà di Legge dell’Università La Sapienza di Roma, avvicina lo statista per chiedergli se può frequentare le sue lezioni. Solo nel 1999, in seguito alla pubblicazione del dossier Mitrokhin, si scopre che quello “studente” è il capo delle operazioni speciali del KGB in Italia. Sokolov incontra l’ultima volta Moro la mattina del 15 marzo. Da allora nessuno lo vede più. Sempre grazie al dossier Mitrokhin si apprende che nel maggio 1979 i brigatisti Morucci e Faranda, due delle menti del sequestro Moro, vengono arrestati a Roma, nell’appartamento di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, nome in codice “Dario”, capo rete dei servizi strategici del Patto di Varsavia e uomo del KGB durante il sequestro Moro.
Sei inchieste (di cui una ancora aperta) 23 sentenze, le indagini ancora in corso. Il primo processo si chiude a Roma il 24 gennaio 1983 con la condanna all’ergastolo di 32 brigatisti rossi.
L’immagine del cadavere di Moro nel bagagliaio della Renault rossa in via Caetani rimane una delle immagini più tragiche della storia italiana recente. Le Br sostengono che Moro venne ucciso a Via Montalcini alle sei del mattino e poi trasportato cadavere in via Caetani. Ma l’autopsia rivela che Moro è stato ucciso a non più di 50 metri da dove viene ritrovato e che sopravvisse quasi 15 minuti alle raffiche di mitra. Due giornalisti, Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, sostengono nel loro libro “Il misterioso intermediario”, che Moro era a un passo dalla liberazione, salvato da un’abile mediazione tra Viminale, Br e Vaticano. Condotto in un palazzo del ghetto ebraico, stava per essere portato in Vaticano su un’auto con targa diplomatica. Ma all’ultimo momento all’interno delle Br qualcuno si rimangiò la parola data. Cossiga (che su Gladio avrebbe ancora tanto da svelare) ha definito il libro “bellissimo”.
Artefice negli anni Sessanta dell’apertura ai socialisti, Aldo Moro è il principale interlocutore del Pci nella realizzazione del compromesso storico tra comunisti e democristiani che dovrebbe far uscire il Paese da uno stallo politico senza precedenti. La mattina del 16 marzo si sta recando alla Camera per il dibattito sulla fiducia al quarto governo Andreotti, il primo con l’aperto sostegno del Pci. Comincia così un sequestro che getta il Paese nell’angoscia per 55 lunghissimi giorni. L'epilogo è tragico e noto. Il corpo senza vita di Moro è ritrovato il 9 maggio in una Renault rossa in Via Caetani, in pieno centro di Roma.
Nel giugno 1976, la Dc è al 38 per cento, incalzata dal Pci di Berlinguer al 34,4. Moro è il candidato in pectore alla presidenza della Repubblica. A giugno le Camere saranno chiamate a scegliere il successore di Giovanni Leone e sembra chiaro che spetterà a Moro dirigere dal Quirinale l’alleanza tra Pci e Dc. Con il suo assassinio,il 9 maggo del 1978, muore il compromesso storico, si chiude una stagione politica dell’Italia repubblicana e se ne apre un’altra di segno opposto.
Alle 12,46 del 16 marzo riprendono i lavori alla Camera. Il governo Andreotti ottiene la fiducia alle 20,35. Senza il sequestro Moro, il Pci di Enrico Berlinguer non avrebbe probabilmente mai votato un esecutivo che non presentava elementi di novità rispetto al precedente, un monocolore Dc che si reggeva grazie all’astensione dei comunisti (il governo della “non sfiducia”). Questo governo durerà poco più di un anno. La sua caduta porterà alle elezioni anticipate del giugno 1979 che vedranno una tenuta della Dc e un sensibile calo del Pci.
In una prima ricostruzione i killer erano soltanto quattro. Oggi si è portati a pensare che in tutta l’operazione fossero coinvolte almeno una ventina di persone. Sei processi non hanno dissipato una serie incredibile di incongruenze e contraddizioni. Ne ricordiamo qualcuna, sapendo perfettamente che sarebbe troppo lungo elencarle tutte.
Per iniziare, il mistero delle valigette scomparse. Secondo la vedova Moro, il marito usciva abitualmente di casa portando con sé cinque borse: una contenente documenti riservati, una di medicinali ed oggetti personali; nelle altre tre vi erano ritagli di giornale e tesi di laurea dei suoi studenti. Subito dopo l'agguato sull'auto di Moro vennero però rinvenute solamente tre borse. Delle altre due non si è mai saputo nulla.
E ancora, attorno al luogo dell’agguato, si aggirano strani personaggi. Uno di questi, il colonnello del Sismi Guglielmi, legato all’ambiguo generale Musumeci (poi condannato per diversi depistaggi), ammetterà di trovarsi lì perché “invitato a pranzo da un amico”. Un pranzo alle nove di mattina.
Al numero 109 di Via Fani, Gherardo Nucci scatta dal balcone di casa una dozzina di foto della scena della strage a pochi secondi dalla fuga del commando. Sua moglie, giornalista dell’Asca, consegna i rullini alla magistratura. Le foto spariscono. Pochi giorni dopo il sequestro, in una seduta spiritica a cui partecipano diversi professori universitari di Bologna (tra cui anche Romano Prodi), il fantasma di Giorgio La Pira avrebbe indicato che Moro era prigioniero a “Gradoli”. E' probabile che la seduta spiritica fosse la copertura di una soffiata proveniente dall’area della sinistra extraparlamentare di Bologna. Ma si fa finta di non capire, le forze dell’ordine mettono sottosopra Gradoli, piccolo centro in provincia di Viterbo, senza trovare nulla. Il 18 aprile una perdita d’acqua un po’ strana (la cornetta della doccia è bloccata verso il muro in modo da provocare un’infiltrazione), fa scoprire un covo delle Br in via Gradoli a Roma. E’ la casa in cui dorme abitualmente Moretti e una delle basi più importanti delle Br. La scoperta avviene sotto gli occhi delle televisioni. I brigatisti sanno dell'accaduto dai telegiornali e si guardano bene dal rimettere piede in via Gradoli.
Chi ha fatto scoprire il covo? Secondi alcuni si tratta di una partita tra servizi segreti e Br. Moro sta rivelando ai sequestratori verità scottanti. A questo punto, entrano in gioco le diverse congetture e interpretazioni. Sono in molti a volerlo morto e ad operarsi perché ciò che dice rimanga conosciuto a pochissimi. I servizi, individuate le Br, avrebbero imposto loro l'uccisione dell'ostaggio. “Bruciare” il covo di via Gradoli potrebbe essere stato un avvertimento. Per molti si tratta di pure congetture.
Poche ore dopo un altro colpo di scena: viene trovato il comunicato n. 7 che annuncia che il cadavere di Moro si trova sul fondo del Lago della Duchessa, sul Gran Sasso. Per ore le forze dell'ordine cercano inutilmente nel lago ghiacciato. Il comunicato è scritto dal falsario Toni Chicchiarelli, legato alla Banda della Magliana, ucciso qualche anno dopo in circostanze misteriose. La messa in scena sarebbe stata un diversivo per distrarre l'opinione pubblica da quanto accaduto in via Gradoli.
In uno dei primi comunicati, le Br affermano che il “prigioniero sta collaborando”, rivelando cose interessanti. I sequestratori si preoccupano anche di dire che “nulla verrà nascosto alle masse”. Moro svela ai brigatisti diversi segreti di Stato, dall’esistenza di Gladio, la struttura segreta della Nato, ai finanziamenti illeciti ricevuti dalla Dc. Ma, a sequestro concluso, le Br dichiarano che Moro non ha detto nulla di interessante e che i documenti saranno pubblicati attraverso la rete “clandestina proletaria”. Le carte del "memoriale Moro" sono trovate in due fasi successive: una prima parte viene rinvenuta nell’ottobre del 1978 nel covo di via Montenevoso a Milano, quelle più scottanti saranno trovate nello stesso appartamento solo 12 anni dopo, nell’ottobre del 1990, celate dietro a un pannello. La Guerra Fredda è ormai finita e la scoperta dell’esistenza di Gladio provoca un terremoto politico.
I misteri d'Italia si sa, spesso si intrecciano tra loro. Accade con la vicenda di Mino Pecorelli, direttore della rivista scandalistica Op, che aveva cominciato a titolare pezzi a dir poco allusivi: “Il Morobondo”, “Il ministro morirà a maggio”. “E’ Jalta che ha deciso Via Fani”. E’ la sibillina affermazione del giornalista che vuole dire che l’eliminazione di Moro e del suo progetto politico di apertura ai comunisti è una conseguenza inevitabile dell’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza americana. D'altra parte, la vedova Moro ha più volte affermato che il presidente della Dc era rimasto sconvolto da come il segretario di Stato Usa Henry Kissinger lo aveva messo in guardia dal formare un governo col Pci. Ancora Pecorelli, legato ai servizi segreti, sulla sua rivista lancia accuse precise sotto forma di messaggi in codice. Il tempo dimostrerà che molte sue “intuizioni” erano esatte. In un clamoroso articolo intitolato “Vergogna, buffoni!”, sostiene che il generale Dalla Chiesa (lui lo chiama “Amen”) era andato da Andreotti dicendogli che aveva individuato la prigione di Moro e chiedeva l’autorizzazione per il blitz. Ma il presidente temporeggiò – secondo Pecorelli – perché doveva chiedere il permesso alla “loggia di Cristo in paradiso” ( P2), i cui affiliati – si è scoperto poi - controllavano i punti chiave dello Stato. Pecorelli viene ucciso il 20 marzo 1979 a colpi d’arma da fuoco. Nel 1992 il pentito di mafia Tommaso Buscetta sosterrà che il delitto venne eseguito dalla mafia per “fare un favore ad Andreotti”, preoccupato per certe carte su Moro in possesso di Pecorelli. Il processo a carico di Andreotti si è concluso nell’ottobre 2003 con il giudizio della Cassazione che sancisce l’estraneità di Andreotti al delitto.
Torniamo a Moro e ai misteri che circondano il suo assassinio. Nel novembre 1977 Sergej Sokolov, borsista presso la facoltà di Legge dell’Università La Sapienza di Roma, avvicina lo statista per chiedergli se può frequentare le sue lezioni. Solo nel 1999, in seguito alla pubblicazione del dossier Mitrokhin, si scopre che quello “studente” è il capo delle operazioni speciali del KGB in Italia. Sokolov incontra l’ultima volta Moro la mattina del 15 marzo. Da allora nessuno lo vede più. Sempre grazie al dossier Mitrokhin si apprende che nel maggio 1979 i brigatisti Morucci e Faranda, due delle menti del sequestro Moro, vengono arrestati a Roma, nell’appartamento di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, nome in codice “Dario”, capo rete dei servizi strategici del Patto di Varsavia e uomo del KGB durante il sequestro Moro.
Sei inchieste (di cui una ancora aperta) 23 sentenze, le indagini ancora in corso. Il primo processo si chiude a Roma il 24 gennaio 1983 con la condanna all’ergastolo di 32 brigatisti rossi.
L’immagine del cadavere di Moro nel bagagliaio della Renault rossa in via Caetani rimane una delle immagini più tragiche della storia italiana recente. Le Br sostengono che Moro venne ucciso a Via Montalcini alle sei del mattino e poi trasportato cadavere in via Caetani. Ma l’autopsia rivela che Moro è stato ucciso a non più di 50 metri da dove viene ritrovato e che sopravvisse quasi 15 minuti alle raffiche di mitra. Due giornalisti, Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, sostengono nel loro libro “Il misterioso intermediario”, che Moro era a un passo dalla liberazione, salvato da un’abile mediazione tra Viminale, Br e Vaticano. Condotto in un palazzo del ghetto ebraico, stava per essere portato in Vaticano su un’auto con targa diplomatica. Ma all’ultimo momento all’interno delle Br qualcuno si rimangiò la parola data. Cossiga (che su Gladio avrebbe ancora tanto da svelare) ha definito il libro “bellissimo”.
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