Da Famiglia cristiana del 26/04/2006
Originale su http://www.stpauls.it/fc/0617fc/0617fc42.htm
CERNOBYL - IL 26 APRILE DEL 1986 ESPLODEVA IL REATTORE NUMERO 4
Vent'anni di solitudine
Molti anni sono passati dal più tragico incidente della storia del nucleare. Ma le domande di chi soffre restano senza risposta.
di Fulvio Scaglione
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Vladimir Busunov ha l’ufficio al quarto piano di un edificio nei sobborghi di Kiev. Zona di nomenklatura, foreste, laghetti e aria buona. Questo complesso, prima che il numero 4 della centrale atomica di Cernobyl esplodesse nella notte del 26 aprile 1986, era una colonia dei sindacati sovietici, poi fu assegnata all’Istituto di igiene delle radiazioni ed epidemiologia che Busunov da allora dirige. La palazzina ora è cadente, quasi deserta, sarà presto svuotata, affittata ai muratori che da ogni parte dell’Ucraina accorrono a Kiev, dove si costruisce molto, per finire come le altre intorno: muri sbrecciati, immondizia e cani randagi nei cortili, erbacce nei vialetti, qualche sguardo sospettoso alle finestre.
Lo sfacelo dell’Urss
Me ne ricorderò qualche giorno dopo, a Kiev, nell’ospedale dove i medici coordinati da Busunov curano e indagano. Computer, pulizia, infermiere efficienti e ordinate. E un accanimento feroce che pure il fisico mi aveva spiegato in anticipo: «Tra il 1986 e il 1987 parteciparono ai lavori di contenimento del disastro 200.000 ucraini di ogni età. Se pensiamo in termini di Urss, furono 600.000 le persone coinvolte. A loro vanno aggiunte le 135.000 che furono evacuate in poche ore dalla zona dell’esplosione. Allora, con lo sfascio dello Stato sovietico ormai imminente e la mania della segretezza, non fu possibile condurre una vera ricerca epidemiologica: controllare tutti, capire chi era stato, dove, quale esposizione alle radiazioni, quali effetti. Si dispersero ognuno dove poteva. E così c’è un buco enorme nei dati».
Vent’anni dopo l’esplosione che rilasciò radiazioni in quantità 400 volte superiore alla bomba atomica di Hiroshima, medici, fisici, esperti di ogni genere ancora lavorano su un puzzle intricatissimo e che manca di tessere decisive, o forse ha mischiato le proprie con quelle di altri rompicapo.
In aumento i casi di leucemia
Sospettare e non sapere, temere e non avere conferme, neppure al peggio. Ecco, oggi, la condizione di quasi 3 milioni di ucraini (tanti vivevano nelle zone contaminate), 10 milioni di bielorussi (la Bielorussia fu tutta colpita, più o meno a seconda dei venti e delle piogge), alcuni milioni di russi. Studi globali, come diceva il professor Busunov, sono in realtà quasi impossibili. Quelli affidabili sono tutti parziali: «Noi seguiamo con attenzione i likvidatory, cioè coloro che presero parte diretta ai lavori sul reattore esploso. Sappiamo con certezza che tra loro, rispetto al resto della popolazione, le leucemie hanno un’incidenza del 10-12 per cento superiore alla media. Abbiamo anche studiato le 8.000 donne che, nel periodo 1986-1987, lavorarono nella zona di Cernobyl, nei cantieri, nelle mense, ai vari servizi di supporto all’opera dei likvidatory. Tra loro abbiamo registrato una maggiore incidenza del tumore al seno».
La disputa è internazionale e assai aspra, e non possiamo certo risolverla noi. Per dare un’idea: nel settembre del 2005, otto agenzie dell’Onu, guidate dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, hanno pubblicato un lungo rapporto che ha coinvolto 100 scienziati e che, in sintesi, riduce a 4.000 le possibili morti causate da Cernobyl. A parte le incongruenze (una ricerca su un disastro del nucleare civile coordinato da un’agenzia che ha per scopo istituzionale quello di incentivare il nucleare per usi civili?) e un tono un po’ sgradevole tipo: «poche storie, andate a lavorare», il rapporto è stato contestato da altri scienziati con titoli non meno validi. Poco tempo dopo, per esempio, 14 studiosi di diversi Paesi, tra i quali anche il professor Alfredo Zapponi dell’Istituto superiore di sanità di Roma, pubblicarono sull’autorevole rivista Nature un’analisi di ben diversa impronta.
Greenpeace, poi, ha riunito decine di altri scienziati che proprio in questi giorni hanno prodotto un rapporto che va nel senso opposto a quello del Cernobyl Forum dell’Onu. Un’enorme massa di dati, informazioni, tabelle. I casi di tumore in Bielorussia, per esempio, sarebbero intorno ai 33.000 l’anno, se la tendenza dopo il 1986 fosse stata pari a quella tra il 1975 e il 1986: sono invece circa 38.000. Nelle regioni russe di Kaluga e Brjansk, investite dalle radiazioni emesse da Cernobyl, l’incidenza dei casi di tumore (leucemie escluse) cresce dopo il 1986. Altrettanto succede in Ucraina con i tumori della tiroide.
rischi dell’energia nucleare
Ivan Blokov, che coordina il "Progetto Cernobyl" di Greenpeace, spiega l’iniziativa: «Abbiamo sentito la necessità di intervenire in modo scientifico perché proprio in occasione del ventennale l’industria atomica ha ripreso a fare propaganda in grande stile. In molti Paesi si costruiscono nuovi reattori e in altri il nucleare vive una fase di nuova popolarità, in coincidenza con le difficoltà del mercato petrolifero. Vogliamo che la gente sappia quali rischi comporta l’energia nucleare. Anche perché il nucleare civile e quello militare vanno sempre a braccetto: dove c’è uno, spunta sempre anche l’altro».
Molto potrebbe ancora essere detto, pro o contro. Noi possiamo cercare di trasmettere povere e personali sensazioni. Intanto, Pripjat. È la città che sorse a due chilometri dalla centrale per ospitare gli operai e i tecnici dell’impianto con le loro famiglie. Era, per i tempi sovietici, un insediamento modello, un progetto urbanistico d’avanguardia degno di un settore, quello dell’energia, favorito dal regime. Da vent’anni è una città-fantasma, spettrale deposito dei ricordi di coloro che furono evacuati in una notte su decine di autobus che ora arrugginiscono nei campi, troppo radioattivi per essere smantellati. Il vento, quella notte, soffiava verso nord-ovest, cioè verso la Bielorussia. Se avesse soffiato in senso opposto la nube radioattiva avrebbe investito Pripjat e causato una strage mai vista.
Vivere nella zona proibita
Considerare "pochi" 4.000 morti, inoltre, fa un po’ senso. Forse non c’entra, ma per altrettanti poveri morti, quelli delle Torri Gemelle, sono state fatte due guerre, in Afghanistan e in Irak, che hanno fatto moltissimi altri morti. Le autorità sovietiche per tre mesi, dall’aprile all’agosto 1986, invitarono la gente di Cernobyl a bere tranquillamente il latte di mucche irradiate che mangiavano erba contaminata. Vi pare molto meno criminale di un attentato? E poi io, che a Cernobyl sono stato due volte, nel 1993 e adesso, e che nel 1986 avevo la moglie incinta al sesto mese e con lei scappai dal Trentino a Milano per allontanarmi dalla nube, da quelle parti non ci vivrei mai. Voi sì?
Ci vive invece Vera Gregorevna, 64 anni, che tempo fa è tornata nella zona, come si chiama l’area chiusa (si entra solo con uno speciale permesso, e si viene controllati all’uscita) di 30 chilometri di diametro intorno alla centrale. Vera Gregorevna è una di quelli (circa 350, in un’area dove prima del 1986 vivevano 130 mila persone) che ci sono ma non dovrebbero esserci, o forse il contrario, anche questo nessuno lo sa. Quasi tutti anziani, rientrati alle case d’un tempo, indifferenti al rischio o lieti di passare comunque gli ultimi anni laddove hanno vissuto quelli migliori.
C’è chi sa e non vuol vedere
Michail, il marito di Vera, lavorava al bacino idrico di Cernobyl, la città che dava il nome alla centrale (anche se la denominazione ufficiale era Centrale atomica "V.I. Lenin") pur distandone una decina di chilometri. È morto l’anno scorso dopo sei anni di malattie diverse e sempre più incalzanti. Con lui Vera era stata evacuata nel 1986, con lui era poi tornata per assistere la suocera, anche lei a lungo malata. Vera, però, non accusa la centrale. «Qui è pulito, fanno un sacco di controlli», dice con grandi sorrisi per l’ospite, «ci trattano bene». E quanti siete? «In tutto 19, solo 3 sono uomini, il resto vedove. Ma non pensi male, eh… Sono morti di morte naturale, dopo una lunga vita. Qualche tempo fa è venuto anche il presidente Jushenko, hanno distribuito provviste e regali. Ma so che dopo l’anniversario di noi non avrà più bisogno nessuno».
Vera Gregorevna cambia il platok, il fazzoletto colorato che porta sul capo, e mostra le foto dei figli. «Vivono a Kiev ma vengono a trovarmi e sempre si portano a casa pomodori, cetrioli, patate…». Le regole dicono che nella zona è proibito coltivare e allevare, forse Vera non lo sa. È stupita e un po’ offesa perché rifiutiamo, testardi, uno spuntino con samogon, la fortissima vodka distillata in casa.
C’è chi sa e non vuol vedere, ma c’è chi non sa e vorrebbe disperatamente sapere. Nel reparto di oncologia pediatrica dell’Ospedale centrale di Kiev, il migliore dell’Ucraina, ci sono ragazzi che vengono da zone più o meno contaminate e anche quelle che non lo sono. Tutti sono comunque convinti che la malattia dei loro cari sia connessa con la centrale esplosa. È vero? Non è vero? Nessuno potrà mai dirglielo.
La disperazione dei genitori
Intanto vivono qui, le mamme dormono nei letti con i figli malati per dar loro non solo l’amore, ma anche il cibo, le cure, le medicine che la sfiancata sanità ucraina non riesce a provvedere. Dieci in una stanza, c’è anche una Onlus italiana, Soleterre, a dar loro una mano importante.
Katia, 12 anni, soffre di un tumore della pelle. Sua madre, Irina, infermiera in un ospedale di Krivoj Rog, a 300 chilometri da Kiev, ha preso un permesso per assisterla. Ma si parla di ricoveri per lunghi mesi, anche anni. Il padre, Anatolyj, tecnico radiologo nello stesso ospedale della moglie, viene a trovarle nei fine settimana e dorme sulle barelle in corridoio. Irina, stravolta da fatica e preoccupazione, racconta vicende che l’accomuna alle altre famiglie: 50 euro di stipendio mensile, costo di un ciclo di tre chemioterapie 400 euro. Si chiede aiuto ad amici e parenti, spesso si vende l’auto, la casa, tutto per vederli guarire.
Anatolyj è arrivato con un apparecchio che serve per le cure della figlia: gliel’ha prestato il direttore dell’ospedale dove lavora, la gente si aiuta anche così. È italiano, vecchio di 15 anni, c’è bisogno di qualche ricambio. Prendo nota, proverò. Michail si volta per nascondere una lacrima. Il bisogno si deve mostrare, per amore di Katia. Ma la disperazione, quella almeno, deve restare solo sua.
Lo sfacelo dell’Urss
Me ne ricorderò qualche giorno dopo, a Kiev, nell’ospedale dove i medici coordinati da Busunov curano e indagano. Computer, pulizia, infermiere efficienti e ordinate. E un accanimento feroce che pure il fisico mi aveva spiegato in anticipo: «Tra il 1986 e il 1987 parteciparono ai lavori di contenimento del disastro 200.000 ucraini di ogni età. Se pensiamo in termini di Urss, furono 600.000 le persone coinvolte. A loro vanno aggiunte le 135.000 che furono evacuate in poche ore dalla zona dell’esplosione. Allora, con lo sfascio dello Stato sovietico ormai imminente e la mania della segretezza, non fu possibile condurre una vera ricerca epidemiologica: controllare tutti, capire chi era stato, dove, quale esposizione alle radiazioni, quali effetti. Si dispersero ognuno dove poteva. E così c’è un buco enorme nei dati».
Vent’anni dopo l’esplosione che rilasciò radiazioni in quantità 400 volte superiore alla bomba atomica di Hiroshima, medici, fisici, esperti di ogni genere ancora lavorano su un puzzle intricatissimo e che manca di tessere decisive, o forse ha mischiato le proprie con quelle di altri rompicapo.
In aumento i casi di leucemia
Sospettare e non sapere, temere e non avere conferme, neppure al peggio. Ecco, oggi, la condizione di quasi 3 milioni di ucraini (tanti vivevano nelle zone contaminate), 10 milioni di bielorussi (la Bielorussia fu tutta colpita, più o meno a seconda dei venti e delle piogge), alcuni milioni di russi. Studi globali, come diceva il professor Busunov, sono in realtà quasi impossibili. Quelli affidabili sono tutti parziali: «Noi seguiamo con attenzione i likvidatory, cioè coloro che presero parte diretta ai lavori sul reattore esploso. Sappiamo con certezza che tra loro, rispetto al resto della popolazione, le leucemie hanno un’incidenza del 10-12 per cento superiore alla media. Abbiamo anche studiato le 8.000 donne che, nel periodo 1986-1987, lavorarono nella zona di Cernobyl, nei cantieri, nelle mense, ai vari servizi di supporto all’opera dei likvidatory. Tra loro abbiamo registrato una maggiore incidenza del tumore al seno».
La disputa è internazionale e assai aspra, e non possiamo certo risolverla noi. Per dare un’idea: nel settembre del 2005, otto agenzie dell’Onu, guidate dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, hanno pubblicato un lungo rapporto che ha coinvolto 100 scienziati e che, in sintesi, riduce a 4.000 le possibili morti causate da Cernobyl. A parte le incongruenze (una ricerca su un disastro del nucleare civile coordinato da un’agenzia che ha per scopo istituzionale quello di incentivare il nucleare per usi civili?) e un tono un po’ sgradevole tipo: «poche storie, andate a lavorare», il rapporto è stato contestato da altri scienziati con titoli non meno validi. Poco tempo dopo, per esempio, 14 studiosi di diversi Paesi, tra i quali anche il professor Alfredo Zapponi dell’Istituto superiore di sanità di Roma, pubblicarono sull’autorevole rivista Nature un’analisi di ben diversa impronta.
Greenpeace, poi, ha riunito decine di altri scienziati che proprio in questi giorni hanno prodotto un rapporto che va nel senso opposto a quello del Cernobyl Forum dell’Onu. Un’enorme massa di dati, informazioni, tabelle. I casi di tumore in Bielorussia, per esempio, sarebbero intorno ai 33.000 l’anno, se la tendenza dopo il 1986 fosse stata pari a quella tra il 1975 e il 1986: sono invece circa 38.000. Nelle regioni russe di Kaluga e Brjansk, investite dalle radiazioni emesse da Cernobyl, l’incidenza dei casi di tumore (leucemie escluse) cresce dopo il 1986. Altrettanto succede in Ucraina con i tumori della tiroide.
rischi dell’energia nucleare
Ivan Blokov, che coordina il "Progetto Cernobyl" di Greenpeace, spiega l’iniziativa: «Abbiamo sentito la necessità di intervenire in modo scientifico perché proprio in occasione del ventennale l’industria atomica ha ripreso a fare propaganda in grande stile. In molti Paesi si costruiscono nuovi reattori e in altri il nucleare vive una fase di nuova popolarità, in coincidenza con le difficoltà del mercato petrolifero. Vogliamo che la gente sappia quali rischi comporta l’energia nucleare. Anche perché il nucleare civile e quello militare vanno sempre a braccetto: dove c’è uno, spunta sempre anche l’altro».
Molto potrebbe ancora essere detto, pro o contro. Noi possiamo cercare di trasmettere povere e personali sensazioni. Intanto, Pripjat. È la città che sorse a due chilometri dalla centrale per ospitare gli operai e i tecnici dell’impianto con le loro famiglie. Era, per i tempi sovietici, un insediamento modello, un progetto urbanistico d’avanguardia degno di un settore, quello dell’energia, favorito dal regime. Da vent’anni è una città-fantasma, spettrale deposito dei ricordi di coloro che furono evacuati in una notte su decine di autobus che ora arrugginiscono nei campi, troppo radioattivi per essere smantellati. Il vento, quella notte, soffiava verso nord-ovest, cioè verso la Bielorussia. Se avesse soffiato in senso opposto la nube radioattiva avrebbe investito Pripjat e causato una strage mai vista.
Vivere nella zona proibita
Considerare "pochi" 4.000 morti, inoltre, fa un po’ senso. Forse non c’entra, ma per altrettanti poveri morti, quelli delle Torri Gemelle, sono state fatte due guerre, in Afghanistan e in Irak, che hanno fatto moltissimi altri morti. Le autorità sovietiche per tre mesi, dall’aprile all’agosto 1986, invitarono la gente di Cernobyl a bere tranquillamente il latte di mucche irradiate che mangiavano erba contaminata. Vi pare molto meno criminale di un attentato? E poi io, che a Cernobyl sono stato due volte, nel 1993 e adesso, e che nel 1986 avevo la moglie incinta al sesto mese e con lei scappai dal Trentino a Milano per allontanarmi dalla nube, da quelle parti non ci vivrei mai. Voi sì?
Ci vive invece Vera Gregorevna, 64 anni, che tempo fa è tornata nella zona, come si chiama l’area chiusa (si entra solo con uno speciale permesso, e si viene controllati all’uscita) di 30 chilometri di diametro intorno alla centrale. Vera Gregorevna è una di quelli (circa 350, in un’area dove prima del 1986 vivevano 130 mila persone) che ci sono ma non dovrebbero esserci, o forse il contrario, anche questo nessuno lo sa. Quasi tutti anziani, rientrati alle case d’un tempo, indifferenti al rischio o lieti di passare comunque gli ultimi anni laddove hanno vissuto quelli migliori.
C’è chi sa e non vuol vedere
Michail, il marito di Vera, lavorava al bacino idrico di Cernobyl, la città che dava il nome alla centrale (anche se la denominazione ufficiale era Centrale atomica "V.I. Lenin") pur distandone una decina di chilometri. È morto l’anno scorso dopo sei anni di malattie diverse e sempre più incalzanti. Con lui Vera era stata evacuata nel 1986, con lui era poi tornata per assistere la suocera, anche lei a lungo malata. Vera, però, non accusa la centrale. «Qui è pulito, fanno un sacco di controlli», dice con grandi sorrisi per l’ospite, «ci trattano bene». E quanti siete? «In tutto 19, solo 3 sono uomini, il resto vedove. Ma non pensi male, eh… Sono morti di morte naturale, dopo una lunga vita. Qualche tempo fa è venuto anche il presidente Jushenko, hanno distribuito provviste e regali. Ma so che dopo l’anniversario di noi non avrà più bisogno nessuno».
Vera Gregorevna cambia il platok, il fazzoletto colorato che porta sul capo, e mostra le foto dei figli. «Vivono a Kiev ma vengono a trovarmi e sempre si portano a casa pomodori, cetrioli, patate…». Le regole dicono che nella zona è proibito coltivare e allevare, forse Vera non lo sa. È stupita e un po’ offesa perché rifiutiamo, testardi, uno spuntino con samogon, la fortissima vodka distillata in casa.
C’è chi sa e non vuol vedere, ma c’è chi non sa e vorrebbe disperatamente sapere. Nel reparto di oncologia pediatrica dell’Ospedale centrale di Kiev, il migliore dell’Ucraina, ci sono ragazzi che vengono da zone più o meno contaminate e anche quelle che non lo sono. Tutti sono comunque convinti che la malattia dei loro cari sia connessa con la centrale esplosa. È vero? Non è vero? Nessuno potrà mai dirglielo.
La disperazione dei genitori
Intanto vivono qui, le mamme dormono nei letti con i figli malati per dar loro non solo l’amore, ma anche il cibo, le cure, le medicine che la sfiancata sanità ucraina non riesce a provvedere. Dieci in una stanza, c’è anche una Onlus italiana, Soleterre, a dar loro una mano importante.
Katia, 12 anni, soffre di un tumore della pelle. Sua madre, Irina, infermiera in un ospedale di Krivoj Rog, a 300 chilometri da Kiev, ha preso un permesso per assisterla. Ma si parla di ricoveri per lunghi mesi, anche anni. Il padre, Anatolyj, tecnico radiologo nello stesso ospedale della moglie, viene a trovarle nei fine settimana e dorme sulle barelle in corridoio. Irina, stravolta da fatica e preoccupazione, racconta vicende che l’accomuna alle altre famiglie: 50 euro di stipendio mensile, costo di un ciclo di tre chemioterapie 400 euro. Si chiede aiuto ad amici e parenti, spesso si vende l’auto, la casa, tutto per vederli guarire.
Anatolyj è arrivato con un apparecchio che serve per le cure della figlia: gliel’ha prestato il direttore dell’ospedale dove lavora, la gente si aiuta anche così. È italiano, vecchio di 15 anni, c’è bisogno di qualche ricambio. Prendo nota, proverò. Michail si volta per nascondere una lacrima. Il bisogno si deve mostrare, per amore di Katia. Ma la disperazione, quella almeno, deve restare solo sua.
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