Da Il Resto del Carlino del 28/07/2006
Strage del 2 agosto 1980
'Le mie foto per far sapere com'è l'inferno'
Il racconto del nostro fotografo: 'Con un filo di voce la gemellina superstite disse alla zia che non mi voleva lì. Restai senza parole ed uscii in punta di piedi'
di Paolo Ferrari
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Me ne andai in punta di piedi, come non mi è mai capitato di fare in questo lavoro. Dopo alcune ore passate in piazza della stazione, ero scappato al Maggiore, nel reparto rianimazione, dove l’allora direttore, professor Nanni Costa, mi concesse di entrare «perchè il mondo potesse vedere».
Fu in questo reparto che fotografai una delle gemelline sopravvissute, con i segni dell’esplosione su tutto il corpo. Fu una delle foto che poi hanno fatto il giro del mondo. La bimba mi guardò e con un filo di voce disse alla zia che l’assisteva: «manda via quell’uomo». Restai senza parole. Me ne andai in punta di piedi.
La mattinata era iniziata come tante altre. Una volta appresa la notizia, ero rientrato a folle velocità dai lidi ferraresi dove avevo accompagnato la mia famiglia, approfittando della giornata che si era presentata molto tranquilla. Mi avevano chiamato dal giornale, e così ero stato catapultato lì, in piazza della stazione. Mi aggiravo come inebetito fra cadaveri resi bianchi come statue di gesso dalla polvere, fra i calcinacci e i taxi sventrati. L’edificio della stazione sembrava colpito da un attacco aereo. Ma non c’era la guerra.
Ricordo che mentre scattavo foto pensavo alla mia adolescenza quando, dopo un bombardamento, uscivi dal rifugio e camminavi fra le macerie delle abitazioni colpite. Tutto era cambiato. Mi trovai, all’improvviso, immerso in un mondo irreale, assurdo, fatto di morte e distruzione : un uomo di mezza età con un vestito color nocciola, giaceva davanti all’uscita del piazzale est, pietosamente coperto con un sacchetto di plastica; una giovane donna con un vestitino nero e i sandali, scagliata sotto una carrozza ferroviaria ferma sul primo binario; un uomo d’età indefinibile affiorava dalle macerie.
Una folla infinita scavava freneticamente nel tentativo di trovare ancora qualcuno in vita. Un mare di gente, la più disparata, si affacendava: i portabagagli della stazione si distinguevano per la loro divisa confezionata con il rigatino bolognese, vigili del fuoco, carabinieri, portantini, soldati delle varie armi, anche un sacerdote salesiano con il clergyman diventato bianco per la polvere.
Scattavo foto su tutto quello che ritenevo importante, conscio del dovere di lasciare una documentazione dello scempio compiuto nella mia Bologna. Mentre mi aggiravo in mezzo a questo scenario mi domandavo quale belva avesse potuto depositare quell’ordigno, guardando in faccia le sue vittime, e decidere freddamente di farle morire.
Alla sera, verso le dieci, fu scoperto il punto dell’esplosione. Assieme al collega Luciano Masi fui precettato dal magistrato per eseguire i rilievi. C’era la prova della bomba.
Fu in questo reparto che fotografai una delle gemelline sopravvissute, con i segni dell’esplosione su tutto il corpo. Fu una delle foto che poi hanno fatto il giro del mondo. La bimba mi guardò e con un filo di voce disse alla zia che l’assisteva: «manda via quell’uomo». Restai senza parole. Me ne andai in punta di piedi.
La mattinata era iniziata come tante altre. Una volta appresa la notizia, ero rientrato a folle velocità dai lidi ferraresi dove avevo accompagnato la mia famiglia, approfittando della giornata che si era presentata molto tranquilla. Mi avevano chiamato dal giornale, e così ero stato catapultato lì, in piazza della stazione. Mi aggiravo come inebetito fra cadaveri resi bianchi come statue di gesso dalla polvere, fra i calcinacci e i taxi sventrati. L’edificio della stazione sembrava colpito da un attacco aereo. Ma non c’era la guerra.
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