Da Narcomafie del 01/06/2002
La tragedia del Vajont - 2
Era tutto previsto
di Lucia Vastano
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Della pericolosità della diga si era discusso fin dalla fase progettuale. Ma la Società Adriatica di Elettricità (SADE) quella diga, la più alta d'Europa, la voleva a tutti i costi.
Nel 1949 il comune di Erto Casso vende alla SADE i terreni della zona interessata e "per errore catastale" anche alcuni di proprietà privata che avrebbero impedito la realizzazione del progetto. Nel 1957 la Sade (senza autorizzazione) comincia i lavori di scavo, modificando il progetto presentato ai Lavori Pubblici (l'altezza della diga viene portata da 206 a 266 metri). Pochi mesi dopo l'inizio dei lavori, la giornalista dell'«Unità» Tina Merlin comincia la sua inchiesta, denuncia i rischi di smottamenti e frane e diffonde il risultato del rapporto del geologo austriaco Leopold Mueller (assunto dalla Sade come consulente, ma mai ascoltato): la roccia del monte Toc è tutta una crepa, friabile e sensibile a qualsiasi intervento. Un altro rapporto di altri due geologi, Francesco Giudici ed Edoardo Semenza (figlio di Carlo, l'ingegnere progettista della diga), parla di una frana di duecento milioni di metri cubi di roccia pronta a staccarsi dal Toc sotto la pressione dell'acqua di un bacino artificiale. Ma la costruzione della diga va avanti lo stesso e anche il lago artificiale continua a crescere.
Il 4 novembre 1960 la prima imponente frana. Dal monte Toc si staccano 700 mila metri quadrati di roccia e il versante del monte si squarcia formando una M (proprio lungo quella linea che era stata prevista da Mueller si staccherà poi la frana più devastante del 1963).
Nel corso degli anni aumentano smottamenti, terremoti e frane. Ci sono anche dei morti. La gente di Erto e Casso la notte sente boati provenire dal sottosuolo. Alcuni scappano. Ma da parte della SADE si continua a tacere e a negare tutto. La Merlin continua le sue inchieste (è inquietante la precisione con cui descrive quello che poi puntualmente accadrà) e viene denunciata, ma nel processo che si tiene a Milano nel 1960 viene assolta perchè nell'articolo incriminato «nulla vi è di falso, di esagerato o di tendenzioso». La legge riconosce dunque la pericolosità della diga, ma neanche in questo caso i lavori vengono bloccati.
La Sade pensa di costruire una strada per consentire la fuga nel caso di quella frana di cui però continua a negare la possibilità. Ma il Toc slitta verso il lago a una media di oltre due centimetri al giorno. Chi vive sulle sponde del lago ha ormai l'acqua in casa, sulle strade si allargano le crepe. Il 14 marzo 1963 la neonata Ente nazionale elettricità (Enel), per decreto del Presidente della Repubblica acquisisce, pagandola profumatamente, la Sade. La diga, costruita con soldi pubblici e poi ricomprata con soldi pubblici, è nazionalizzata (come poi con soldi pubblici si pagheranno i risarcimenti alle vittime). Nel pomeriggio del 9 ottobre un operaio che lavora sulle pendici del monte Toc vede gli alberi piegarsi e le radici sradicarsi. Lancia un allarme ma neanche questa volta c'è qualcuno disposto ad ascoltare. Persino la strada per il Toc diviene inagibile e la Sade-Enel è costretta a chiuderla. Alle ore 22 vi è una comunicazione tra i dirigenti dell'azienda statale: la montagna ha cominciato a cedere. Ma la paura di ammettere quello che sta per accadere impedisce ancora una volta di dare l'allarme e salvare buona parte delle 1917 vittime. La strage si compie.
Il processo per stabilire le responsabilità viene tenuto per "legittima suspicione" all'Aquila, dove è molto difficile per i testimoni partecipare. Si conclude nel 1971 in cassazione con due sentenze di colpevolezza «per inondazione, aggravata dalla previsione dell'evento, compresa la frana e gli omicidi» per Alberico Biadene (5 anni di cui tre condonati), vice direttore generale del ramo tecnico della Sade, e per Francesco Sensidoni (3 anni e otto mesi, di cui tre condonati), ingegnere capo del servizio dighe della commissione di collaudo nominata dal Ministero dei Lavori Pubblici.
Dopo altre due settimane, i crimini sarebbero caduti in prescrizione.
Nel 1949 il comune di Erto Casso vende alla SADE i terreni della zona interessata e "per errore catastale" anche alcuni di proprietà privata che avrebbero impedito la realizzazione del progetto. Nel 1957 la Sade (senza autorizzazione) comincia i lavori di scavo, modificando il progetto presentato ai Lavori Pubblici (l'altezza della diga viene portata da 206 a 266 metri). Pochi mesi dopo l'inizio dei lavori, la giornalista dell'«Unità» Tina Merlin comincia la sua inchiesta, denuncia i rischi di smottamenti e frane e diffonde il risultato del rapporto del geologo austriaco Leopold Mueller (assunto dalla Sade come consulente, ma mai ascoltato): la roccia del monte Toc è tutta una crepa, friabile e sensibile a qualsiasi intervento. Un altro rapporto di altri due geologi, Francesco Giudici ed Edoardo Semenza (figlio di Carlo, l'ingegnere progettista della diga), parla di una frana di duecento milioni di metri cubi di roccia pronta a staccarsi dal Toc sotto la pressione dell'acqua di un bacino artificiale. Ma la costruzione della diga va avanti lo stesso e anche il lago artificiale continua a crescere.
Il 4 novembre 1960 la prima imponente frana. Dal monte Toc si staccano 700 mila metri quadrati di roccia e il versante del monte si squarcia formando una M (proprio lungo quella linea che era stata prevista da Mueller si staccherà poi la frana più devastante del 1963).
Nel corso degli anni aumentano smottamenti, terremoti e frane. Ci sono anche dei morti. La gente di Erto e Casso la notte sente boati provenire dal sottosuolo. Alcuni scappano. Ma da parte della SADE si continua a tacere e a negare tutto. La Merlin continua le sue inchieste (è inquietante la precisione con cui descrive quello che poi puntualmente accadrà) e viene denunciata, ma nel processo che si tiene a Milano nel 1960 viene assolta perchè nell'articolo incriminato «nulla vi è di falso, di esagerato o di tendenzioso». La legge riconosce dunque la pericolosità della diga, ma neanche in questo caso i lavori vengono bloccati.
La Sade pensa di costruire una strada per consentire la fuga nel caso di quella frana di cui però continua a negare la possibilità. Ma il Toc slitta verso il lago a una media di oltre due centimetri al giorno. Chi vive sulle sponde del lago ha ormai l'acqua in casa, sulle strade si allargano le crepe. Il 14 marzo 1963 la neonata Ente nazionale elettricità (Enel), per decreto del Presidente della Repubblica acquisisce, pagandola profumatamente, la Sade. La diga, costruita con soldi pubblici e poi ricomprata con soldi pubblici, è nazionalizzata (come poi con soldi pubblici si pagheranno i risarcimenti alle vittime). Nel pomeriggio del 9 ottobre un operaio che lavora sulle pendici del monte Toc vede gli alberi piegarsi e le radici sradicarsi. Lancia un allarme ma neanche questa volta c'è qualcuno disposto ad ascoltare. Persino la strada per il Toc diviene inagibile e la Sade-Enel è costretta a chiuderla. Alle ore 22 vi è una comunicazione tra i dirigenti dell'azienda statale: la montagna ha cominciato a cedere. Ma la paura di ammettere quello che sta per accadere impedisce ancora una volta di dare l'allarme e salvare buona parte delle 1917 vittime. La strage si compie.
Il processo per stabilire le responsabilità viene tenuto per "legittima suspicione" all'Aquila, dove è molto difficile per i testimoni partecipare. Si conclude nel 1971 in cassazione con due sentenze di colpevolezza «per inondazione, aggravata dalla previsione dell'evento, compresa la frana e gli omicidi» per Alberico Biadene (5 anni di cui tre condonati), vice direttore generale del ramo tecnico della Sade, e per Francesco Sensidoni (3 anni e otto mesi, di cui tre condonati), ingegnere capo del servizio dighe della commissione di collaudo nominata dal Ministero dei Lavori Pubblici.
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