Da La Stampa del 16/11/2002
Carlo Casalegno
Era uno di noi
di Marcello Sorgi
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VENTICINQUE anni fa, il 16 novembre 1977, Carlo Casalegno, vicedirettore della «Stampa» cadde in un agguato delle «Brigate rosse». L’avevano atteso, solo, disarmato e senza scorta, nell’androne di casa, all’ora di pranzo. Gli avevano sparato quattro colpi di pistola dritti al volto, per ucciderlo. «Abbiamo giustiziato il servo dello Stato Carlo Casalegno», telefonarono infatti all’agenzia Ansa dopo l’attentato. Invece sopravvisse.
Lottò contro la morte, tra sofferenze atroci ma cosciente, per tredici giorni, fino al 29 novembre. Era il primo giornalista assassinato da un commando brigatista. Il primo a pagare il prezzo più alto per il suo pensiero democratico e libero, per il suo coraggio professionale e personale. «La Stampa» era la sua vita.
Se quel 16 novembre aveva rifiutato l’invito del direttore Arrigo Levi, che come ogni giorno voleva accompagnarlo a casa, era per ragioni di servizio. Perché al giornale o per il giornale amava fare tutto, con scrupolo, con semplicità, con umiltà, sebbene fosse tra i commentatori politici più conosciuti e più autorevoli.
Alla «Stampa» era, fin dai tempi di Giulio De Benedetti, «il professore». Non soltanto perché professore di scuola era stato, ma anche perché nel giornalismo aveva portato - e continuava - i suoi studi severi, come prima di lui, sempre alla «Stampa», avevano fatto Filippo Burzio e Luigi Salvatorelli. Ascoltato consigliere di De Benedetti, che spesso gli chiedeva di scrivergli i famosi corsivi siglati g.d.b., dalle direzioni di Alberto Ronchey e di Arrigo Levi aveva avuto lo spazio adeguato alla sua capacità di analisi e all’eleganza, alla lucidità, alla forza della sua scrittura.
La rubrica settimanale «Il nostro Stato» rivelava, già nell’essenzialità del titolo, il suo impegno civile sostenuto da un’intensa formazione intellettuale e morale: l’antifascismo, la Resistenza, gli ideali del partito d’azione intrecciati con il pensiero gobettiano del «Risorgimento senza eroi» e dell’Italia postunitaria.
Avversario irriducibile d’ogni eccesso ideologico, d’ogni integralismo, d’ogni fanatismo, Casalegno era instancabile nel dibattere, spiegare e difendere lo spirito democratico. Pronto a pagare di persona, nella cultura come nella politica, osò avventurarsi pericolosamente a scandagliare fino in fondo il verminaio dell’estremismo, delle formazioni eversive, del terrorismo: per sapere, per capire e far capire.
Sebbene assediato da avvertimenti e da minacce, era voluto andare di persona, a fine settembre 1977, nella Bologna tappezzata di manifesti inquietanti - «Tiriamo fuori i compagni dalle galere!» - inviato speciale alla «tre giorni del dissenso», dove si radunavano gli Autonomi e i «pi-trentottisti» del «partito armato».
Ma a condannare Carlo Casalegno fu un articolo pubblicato sulla prima pagina della Stampa l’11 novembre - «Terrorismo e chiusura dei "covi"» - in cui denunciava: «Al terrorismo, rosso e nero, si aggiunge un duplice squadrismo, d’estrema destra e d’estrema sinistra, che nel nostro Paese ha assunto proporzioni sconosciute nel resto dell’Occidente». E tuttavia si opponeva alle proposte di leggi speciali: «Le leggi già in vigore offrono tutti i mezzi necessari per combattere l’eversione, purché siano applicate con risolutezza imparziale contro tutti i violenti e i loro complici, e per tutti i reati».
Fino all’ultimo le riforme civili, il diritto, la democrazia furono nei pensieri di quest’uomo pacato, senza eccessi e senza odio, che per odio fu ucciso. Era stato per trent’anni un’anima forte di questo giornale, che oggi lo ricorda con nostalgia, con riconoscenza, con orgoglio.
Lottò contro la morte, tra sofferenze atroci ma cosciente, per tredici giorni, fino al 29 novembre. Era il primo giornalista assassinato da un commando brigatista. Il primo a pagare il prezzo più alto per il suo pensiero democratico e libero, per il suo coraggio professionale e personale. «La Stampa» era la sua vita.
Se quel 16 novembre aveva rifiutato l’invito del direttore Arrigo Levi, che come ogni giorno voleva accompagnarlo a casa, era per ragioni di servizio. Perché al giornale o per il giornale amava fare tutto, con scrupolo, con semplicità, con umiltà, sebbene fosse tra i commentatori politici più conosciuti e più autorevoli.
Alla «Stampa» era, fin dai tempi di Giulio De Benedetti, «il professore». Non soltanto perché professore di scuola era stato, ma anche perché nel giornalismo aveva portato - e continuava - i suoi studi severi, come prima di lui, sempre alla «Stampa», avevano fatto Filippo Burzio e Luigi Salvatorelli. Ascoltato consigliere di De Benedetti, che spesso gli chiedeva di scrivergli i famosi corsivi siglati g.d.b., dalle direzioni di Alberto Ronchey e di Arrigo Levi aveva avuto lo spazio adeguato alla sua capacità di analisi e all’eleganza, alla lucidità, alla forza della sua scrittura.
La rubrica settimanale «Il nostro Stato» rivelava, già nell’essenzialità del titolo, il suo impegno civile sostenuto da un’intensa formazione intellettuale e morale: l’antifascismo, la Resistenza, gli ideali del partito d’azione intrecciati con il pensiero gobettiano del «Risorgimento senza eroi» e dell’Italia postunitaria.
Avversario irriducibile d’ogni eccesso ideologico, d’ogni integralismo, d’ogni fanatismo, Casalegno era instancabile nel dibattere, spiegare e difendere lo spirito democratico. Pronto a pagare di persona, nella cultura come nella politica, osò avventurarsi pericolosamente a scandagliare fino in fondo il verminaio dell’estremismo, delle formazioni eversive, del terrorismo: per sapere, per capire e far capire.
Sebbene assediato da avvertimenti e da minacce, era voluto andare di persona, a fine settembre 1977, nella Bologna tappezzata di manifesti inquietanti - «Tiriamo fuori i compagni dalle galere!» - inviato speciale alla «tre giorni del dissenso», dove si radunavano gli Autonomi e i «pi-trentottisti» del «partito armato».
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