Da La Stampa del 16/11/2002
IL RICORDO DELL’AMICO GALANTE GARRONE: DIFENSORE DELLO STATO, SENZA CHIUSURE
Quattro volte mite
di Alberto Papuzzi
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TORINO. «UN MITE». Ecco Carlo Casalegno per Alessandro Galante Garrone, collaboratore della Stampa dal 1955. La loro era una lunga amicizia, rispecchiata in un rapporto di lavoro di reciproca stima e fiducia.
Nel 1987 è stato Galante Garrone a ricordare la figura di Casalegno per i dieci anni dalla morte, mettendo l’accento sulle sue battaglie civili, contro «l’enfasi, il fanatismo, l’odio, l’estremismo».
Professore, quando vi siete incontrati, per la prima volta, lei e Casalegno?
«Doveva essere il 1942, perché ricordo bene che venne a casa nostra, ci chiese da quanto fossimo sposati e noi rispondemmo: "Da sette mesi". Io ero magistrato, lui doveva avere 26 anni, lungo e magro come un giunco. Era legato al nostro gruppo di Giustizia e Libertà, fu tra i fondatori, con Bobbio, del Partito d’Azione clandestino».
Dopo la guerra, vi siete incontrati di nuovo alla Stampa.
«Sì, lui era veramente un amico. Molte volte discutevo con lui i miei articoli. C’era, naturalmente, la consonanza politica».
Cosa pensò, alla notizia dell’agguato?
«Mi domandai: "Perché?". Infatti lui era un mite. Perché Carlo, nel quale c’era uno sforzo generoso per cercare di capire i giovani che avevano fatto la terribile scelta del terrorismo? Come è stato detto e scritto più volte, era un vero difensore dello Stato, ma con un senso profondo di umanità, di sensibilità».
Si è sempre parlato del suo rigore: in che senso era un mite?
«Non era rigido, non era chiuso. I suoi articoli non contenevano asprezze, bensì chiarezza. A volte la sua disponibilità umana, il suo sforzo di capire e dialogare persino mi indisponevano. Mi hanno definito il "mite giacobino", ma se io ero mite, lui lo era 4 volte. Era di una mitezza al quadrato, assolutamente nemico della violenza. In giorni bui, era uno che rifiutava gli stereotipi e cercava di capire e far capire sia le origini del terrore sia le scelte dei fanatici».
Come ricorda la Torino di allora?
«Una città cupa. Dove ti sentivi indifeso e ti muovevi guardingo. Una città difficile, in giorni bui. Che però si ritrovò il giorno dei funerali, vivendo una giornata di commozione profonda».
Nel 1987 è stato Galante Garrone a ricordare la figura di Casalegno per i dieci anni dalla morte, mettendo l’accento sulle sue battaglie civili, contro «l’enfasi, il fanatismo, l’odio, l’estremismo».
Professore, quando vi siete incontrati, per la prima volta, lei e Casalegno?
«Doveva essere il 1942, perché ricordo bene che venne a casa nostra, ci chiese da quanto fossimo sposati e noi rispondemmo: "Da sette mesi". Io ero magistrato, lui doveva avere 26 anni, lungo e magro come un giunco. Era legato al nostro gruppo di Giustizia e Libertà, fu tra i fondatori, con Bobbio, del Partito d’Azione clandestino».
Dopo la guerra, vi siete incontrati di nuovo alla Stampa.
«Sì, lui era veramente un amico. Molte volte discutevo con lui i miei articoli. C’era, naturalmente, la consonanza politica».
Cosa pensò, alla notizia dell’agguato?
«Mi domandai: "Perché?". Infatti lui era un mite. Perché Carlo, nel quale c’era uno sforzo generoso per cercare di capire i giovani che avevano fatto la terribile scelta del terrorismo? Come è stato detto e scritto più volte, era un vero difensore dello Stato, ma con un senso profondo di umanità, di sensibilità».
Si è sempre parlato del suo rigore: in che senso era un mite?
«Non era rigido, non era chiuso. I suoi articoli non contenevano asprezze, bensì chiarezza. A volte la sua disponibilità umana, il suo sforzo di capire e dialogare persino mi indisponevano. Mi hanno definito il "mite giacobino", ma se io ero mite, lui lo era 4 volte. Era di una mitezza al quadrato, assolutamente nemico della violenza. In giorni bui, era uno che rifiutava gli stereotipi e cercava di capire e far capire sia le origini del terrore sia le scelte dei fanatici».
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