Da La Lente del 21/02/2005
5 gennaio 1985, viene ucciso in Sicilia Piersanti Mattarella
Quando la mafia alzò il tiro sulla politica
di Mauro Mammana
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La storia della mafia siciliana, ma anche delle altre mafie italiane, è stata ormai puntualmente ricostruita per intero da validi studiosi e giornalisti; non vi è più alcun dubbio, dunque, sulle dinamiche interne di queste associazioni criminali, pronte a scatenare vere e proprie guerre al loro interno finalizzate al ricambio del gruppo di comando. Sappiamo, così, che alla fine degli anni '70 il gruppo dei cd. viddani, formato dalle cosche mafiose della provincia di Palermo (S. Giuseppe Jato, Corleone...), decide di scalzare il gotha di Cosa Nostra allora "in carica": inizia così una delle più orribili carneficine che la storia d'Italia ricordi, che si protrae almeno per una decina di anni con la schiacciante vittoria dei "nuovi", più forti militarmente e molto più spregiudicati nel trovare e gestire gli affari criminali.
La storia ufficiale si ferma qui: tra l'altro si ricordano, come punto di svolta di quella guerra, gli omicidi di Stefano Bontade e di Salvatore "Totuccio" Inzerillo, due dei tre componenti del "triumvirato" al vertice di Cosa Nostra insieme a Gaetano Badalamenti (che fuggirà in America, dove verrà arrestato e condannato), avvenuti rispettivamente ad aprile e maggio del 1981; quando, pochi anni dopo, deciderà di pentirsi un grande boss della mafia "perdente", Tommaso Buscetta, la giustizia, nelle persone di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, troverà una miniera di informazioni prima sconosciute, che porteranno alle pesanti condanne comminate dalla Corte d'Assise di Palermo nel corso del cd. maxiprocesso.
Piersanti Mattarella, quel 6 gennaio 1980, si trova nella sua casa palermitana di via della Libertà, e sta per andare a messa. E' un cattolico praticante, il Presidente della Regione siciliana. Non ha scorta nei giorni festivi, per sua espressa volontà. Sale sulla sua macchina, una Fiat 132, insieme a sua moglie, Irma Chiazzese, e ai suoi figli. Il tempo di accomodarsi sul sedile, e un killer gli spara attraverso il finestrino con una P38. Tre colpi, che spengono la voce di un personaggio che si scopre scomodo. Per tanti motivi.
Innanzitutto quel cognome, Mattarella. Suo padre era nientemeno che il grande Bernardo, pluriministro della repubblica, indagato in relazione alla strage di Portella delle Ginestre e fortemente in odore di relazioni pericolose con alcuni capimafia siciliani. Ma Piersanti, come ha scritto Saverio Lodato, "fin dagli esordi preferì frequentare la Biblioteca Comunale e i circoli dell'associazione cattolica piuttosto che i comitati elettorali dove non era difficile imbattersi nei capimafia della provincia trapanese". Suo maestro politico era senz'altro Aldo Moro, con cui condivideva i riferimenti culturali ai Dossetti, ai La Pira. Purtroppo, dovette condividere con il suo mentore anche il tragico finale.
A chi aveva "pestato i calli" Piersanti Mattarella? La spiegazione appare semplice: stanco del predominio, in Sicilia, di quella inquinatissima corrente andreottiana rappresentata in loco dai Lima e dai Ciancimino, decide di ispirare la sua attività politica alla trasparenza, alla pulizia, eliminando così qualunque connivenza e convivenza con il potere mafioso. A conferma di questa ipotesi, peraltro, starebbe un misterioso viaggio a Roma compiuto dal politico siciliano per incontrare l'allora ministro degli interni Virginio Rognoni, cui era seguita un'altrettanto misteriosa frase affidata al suo capo di gabinetto, la dottoressa Trizzino: " Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello. Questa mattina sono stato con il ministro Rognoni ed ho avuto con lui un colloquio riservato su problemi siciliani. Se dovesse succedere qualche cosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro con il ministro Rognoni, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere". Cosa poteva aver mai detto di così grave Piersanti Mattarella al ministro dell'Interno? E' certamente nel vero chi ha sostenuto che "indicato all'interno della DC come possibile, futuro segretario politico nazionale del partito, Mattarella aveva più volte manifestato la propria insofferenza per le infiltrazioni mafiose all'interno della DC siciliana. Con la sua morte si concludeva quella 'primavera' politica e amministrativa che con lui aveva vissuto una breve e tormentata stagione, ricacciando un'intera classe dirigente siciliana nel baratro del passato, ammutolita e incredula dinanzi ad una sfida mafiosa che mai aveva raggiunto quel livello".
Anche i pentiti Buscetta e Marino Mannoia, pur con sfumature diverse, hanno rafforzato la tesi della "non vivibilità" politica di Mattarella. Che avesse avuto o no, in precedenza, rapporti amichevoli con la mafia, quel che è certo è che voleva fare pulizia nel suo partito e nell'amministrazione regionale, con un controllo più serrato delle procedure di assegnazione degli appalti; e non è un caso, infatti, che Buscetta farà mettere a verbale (per smentire l'implicazione nell'omicidio del capo dei Nar Giusva Fioravanti, coinvolto proprio da Falcone in questa inchiesta) che "i terroristi non c'entrano niente, (l'omicidio) di Mattarella è stato fatto da Cosa Nostra [...] andate a vedere a chi furono affidati gli appalti dopo la sua morte, cose che fanno paura!".
Ma forse qualche risposta in più può fornircela una recente sentenza palermitana, confermata in toto dalla Cassazione, riguardante un politico pressoché onnipresente in questa rubrica de La Lente, certamente non per malanimo del suo curatore.
Su questa sentenza, come è ben noto, si è fatto un gran parlare. Andreotti assolto, ma Andreotti prescritto per il periodo precedente il 1980. Che vuol dire? Proviamo a leggere la sentenza, che, peraltro, tiene in grande considerazione l'omicidio Mattarella, ritenendolo lo "spartiacque" dell'attività politica del Divo Giulio:
"i fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono, comunque, (...) che il senatore Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l'assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all'omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza".
Il comportamento di Mattarella, insomma, inizia a preoccupare i vertici di Cosa Nostra (ancora quelli "vecchi", vale a dire la "triade" Bontade, Inzerillo, Badalamenti), che chiedono spiegazioni al loro referente romano, Andreotti, che scende così a Palermo, nel 1979. L'incontro non porta a niente, Mattarella non cambia linea, la mafia lo uccide. E Andreotti? Dopo quell'episodio, dicono i giudici, avviene la sua personale "svolta antimafia"; ma l'omicidio del politico siciliano si poteva evitare, se solo Andreotti si fosse
"mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità e i loro disegni: il predetto, invece, ha, sì, agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell'onorevole Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali".
Quando Giorgio Bocca chiese all'ormai ex generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, in quel momento prefetto a Palermo "dei cento giorni" (quelli intercorsi fra il suo insediamento e l'assassinio), quale potesse essere stato il movente dell'omicidio Mattarella, si sentì rispondere che la "pulizia" politica di Piersanti, dovuta ad una "reazione" rispetto all'ombra e alle ombre lasciate dal padre, lo aveva posto di fatto al di fuori del sistema politico-mafioso di gestione degli affari allora vigente in Sicilia. Ventiquattro giorni dopo fu trucidato anche lui, sempre a Palermo.
La domanda più inquietante che si affaccia di fronte alla tragica scansione di omicidi "eccellenti" (dal 1979 al 1986 cadono Boris Giuliano, Emanuele Basile, Calogero Zucchetto, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Dalla Chiesa - nonché tanti altri agenti di scorta ad alcuni dei nominati personaggi - per quanto riguarda le forze dell'ordine; i magistrati Cesare Terranova, Giacomo Ciaccio Montalto, Gaetano Costa, Rocco Chinnici; i politici Michele Reina, democristiano, Pio La Torre, comunista, e Mattarella; i giornalisti Mario Francese e Giuseppe Fava), e che si è riproposta con forza dopo la stagione dello stragismo mafioso, è quella a cui ancora nessuno storico, nessun giornalista sa rispondere con certezza: è solo mafia? O esiste davvero un "sistema criminale" dove criminali, politici, massoni e finanzieri mettono a punto ed eseguono le proprie strategie?
Piero Grasso, procuratore di Palermo, in occasione della commemorazione dell'omicidio Mattarella avvenuta lo scorso anno, ha provato a dare una risposta, parlando di "un omicidio determinato da moventi complessi con coincidenza di interessi esterni a Cosa Nostra, maturato in un contesto economico, politico, mafioso, in cui c'erano degli interessi coincidenti per tenere in piedi questo sistema". Ha aggiunto poi che "nonostante tanti collaboratori di giustizia, anche di alto livello, nessuno ha mai saputo fornire certezze in ordine agli esecutori materiali o ai mandanti esterni". Poco male, verrebbe da pensare: la lettura della sentenza a carico di Andreotti non lascia ampi spazi all'immaginazione: come ha infatti chiosato la stessa Corte, del resto, "di questi fatti, comunque si opini sulla configurabilità del reato, il senatore Andreotti risponde, in ogni caso, dinanzi alla Storia".
La storia ufficiale si ferma qui: tra l'altro si ricordano, come punto di svolta di quella guerra, gli omicidi di Stefano Bontade e di Salvatore "Totuccio" Inzerillo, due dei tre componenti del "triumvirato" al vertice di Cosa Nostra insieme a Gaetano Badalamenti (che fuggirà in America, dove verrà arrestato e condannato), avvenuti rispettivamente ad aprile e maggio del 1981; quando, pochi anni dopo, deciderà di pentirsi un grande boss della mafia "perdente", Tommaso Buscetta, la giustizia, nelle persone di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, troverà una miniera di informazioni prima sconosciute, che porteranno alle pesanti condanne comminate dalla Corte d'Assise di Palermo nel corso del cd. maxiprocesso.
Piersanti Mattarella, quel 6 gennaio 1980, si trova nella sua casa palermitana di via della Libertà, e sta per andare a messa. E' un cattolico praticante, il Presidente della Regione siciliana. Non ha scorta nei giorni festivi, per sua espressa volontà. Sale sulla sua macchina, una Fiat 132, insieme a sua moglie, Irma Chiazzese, e ai suoi figli. Il tempo di accomodarsi sul sedile, e un killer gli spara attraverso il finestrino con una P38. Tre colpi, che spengono la voce di un personaggio che si scopre scomodo. Per tanti motivi.
Innanzitutto quel cognome, Mattarella. Suo padre era nientemeno che il grande Bernardo, pluriministro della repubblica, indagato in relazione alla strage di Portella delle Ginestre e fortemente in odore di relazioni pericolose con alcuni capimafia siciliani. Ma Piersanti, come ha scritto Saverio Lodato, "fin dagli esordi preferì frequentare la Biblioteca Comunale e i circoli dell'associazione cattolica piuttosto che i comitati elettorali dove non era difficile imbattersi nei capimafia della provincia trapanese". Suo maestro politico era senz'altro Aldo Moro, con cui condivideva i riferimenti culturali ai Dossetti, ai La Pira. Purtroppo, dovette condividere con il suo mentore anche il tragico finale.
A chi aveva "pestato i calli" Piersanti Mattarella? La spiegazione appare semplice: stanco del predominio, in Sicilia, di quella inquinatissima corrente andreottiana rappresentata in loco dai Lima e dai Ciancimino, decide di ispirare la sua attività politica alla trasparenza, alla pulizia, eliminando così qualunque connivenza e convivenza con il potere mafioso. A conferma di questa ipotesi, peraltro, starebbe un misterioso viaggio a Roma compiuto dal politico siciliano per incontrare l'allora ministro degli interni Virginio Rognoni, cui era seguita un'altrettanto misteriosa frase affidata al suo capo di gabinetto, la dottoressa Trizzino: " Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello. Questa mattina sono stato con il ministro Rognoni ed ho avuto con lui un colloquio riservato su problemi siciliani. Se dovesse succedere qualche cosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro con il ministro Rognoni, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere". Cosa poteva aver mai detto di così grave Piersanti Mattarella al ministro dell'Interno? E' certamente nel vero chi ha sostenuto che "indicato all'interno della DC come possibile, futuro segretario politico nazionale del partito, Mattarella aveva più volte manifestato la propria insofferenza per le infiltrazioni mafiose all'interno della DC siciliana. Con la sua morte si concludeva quella 'primavera' politica e amministrativa che con lui aveva vissuto una breve e tormentata stagione, ricacciando un'intera classe dirigente siciliana nel baratro del passato, ammutolita e incredula dinanzi ad una sfida mafiosa che mai aveva raggiunto quel livello".
Anche i pentiti Buscetta e Marino Mannoia, pur con sfumature diverse, hanno rafforzato la tesi della "non vivibilità" politica di Mattarella. Che avesse avuto o no, in precedenza, rapporti amichevoli con la mafia, quel che è certo è che voleva fare pulizia nel suo partito e nell'amministrazione regionale, con un controllo più serrato delle procedure di assegnazione degli appalti; e non è un caso, infatti, che Buscetta farà mettere a verbale (per smentire l'implicazione nell'omicidio del capo dei Nar Giusva Fioravanti, coinvolto proprio da Falcone in questa inchiesta) che "i terroristi non c'entrano niente, (l'omicidio) di Mattarella è stato fatto da Cosa Nostra [...] andate a vedere a chi furono affidati gli appalti dopo la sua morte, cose che fanno paura!".
Ma forse qualche risposta in più può fornircela una recente sentenza palermitana, confermata in toto dalla Cassazione, riguardante un politico pressoché onnipresente in questa rubrica de La Lente, certamente non per malanimo del suo curatore.
Su questa sentenza, come è ben noto, si è fatto un gran parlare. Andreotti assolto, ma Andreotti prescritto per il periodo precedente il 1980. Che vuol dire? Proviamo a leggere la sentenza, che, peraltro, tiene in grande considerazione l'omicidio Mattarella, ritenendolo lo "spartiacque" dell'attività politica del Divo Giulio:
"i fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono, comunque, (...) che il senatore Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l'assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all'omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza".
Il comportamento di Mattarella, insomma, inizia a preoccupare i vertici di Cosa Nostra (ancora quelli "vecchi", vale a dire la "triade" Bontade, Inzerillo, Badalamenti), che chiedono spiegazioni al loro referente romano, Andreotti, che scende così a Palermo, nel 1979. L'incontro non porta a niente, Mattarella non cambia linea, la mafia lo uccide. E Andreotti? Dopo quell'episodio, dicono i giudici, avviene la sua personale "svolta antimafia"; ma l'omicidio del politico siciliano si poteva evitare, se solo Andreotti si fosse
"mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità e i loro disegni: il predetto, invece, ha, sì, agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell'onorevole Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali".
Quando Giorgio Bocca chiese all'ormai ex generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, in quel momento prefetto a Palermo "dei cento giorni" (quelli intercorsi fra il suo insediamento e l'assassinio), quale potesse essere stato il movente dell'omicidio Mattarella, si sentì rispondere che la "pulizia" politica di Piersanti, dovuta ad una "reazione" rispetto all'ombra e alle ombre lasciate dal padre, lo aveva posto di fatto al di fuori del sistema politico-mafioso di gestione degli affari allora vigente in Sicilia. Ventiquattro giorni dopo fu trucidato anche lui, sempre a Palermo.
La domanda più inquietante che si affaccia di fronte alla tragica scansione di omicidi "eccellenti" (dal 1979 al 1986 cadono Boris Giuliano, Emanuele Basile, Calogero Zucchetto, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Dalla Chiesa - nonché tanti altri agenti di scorta ad alcuni dei nominati personaggi - per quanto riguarda le forze dell'ordine; i magistrati Cesare Terranova, Giacomo Ciaccio Montalto, Gaetano Costa, Rocco Chinnici; i politici Michele Reina, democristiano, Pio La Torre, comunista, e Mattarella; i giornalisti Mario Francese e Giuseppe Fava), e che si è riproposta con forza dopo la stagione dello stragismo mafioso, è quella a cui ancora nessuno storico, nessun giornalista sa rispondere con certezza: è solo mafia? O esiste davvero un "sistema criminale" dove criminali, politici, massoni e finanzieri mettono a punto ed eseguono le proprie strategie?
Piero Grasso, procuratore di Palermo, in occasione della commemorazione dell'omicidio Mattarella avvenuta lo scorso anno, ha provato a dare una risposta, parlando di "un omicidio determinato da moventi complessi con coincidenza di interessi esterni a Cosa Nostra, maturato in un contesto economico, politico, mafioso, in cui c'erano degli interessi coincidenti per tenere in piedi questo sistema". Ha aggiunto poi che "nonostante tanti collaboratori di giustizia, anche di alto livello, nessuno ha mai saputo fornire certezze in ordine agli esecutori materiali o ai mandanti esterni". Poco male, verrebbe da pensare: la lettura della sentenza a carico di Andreotti non lascia ampi spazi all'immaginazione: come ha infatti chiosato la stessa Corte, del resto, "di questi fatti, comunque si opini sulla configurabilità del reato, il senatore Andreotti risponde, in ogni caso, dinanzi alla Storia".