Da Famiglia cristiana del 14/02/2007

La tragedia del "Moby Prince". Troppo "traffico"

L’avvocato Palermo: la sera del 10 aprile 1991 nel porto di Livorno otto navi militari straniere trasportavano armi. Per dove? Un segreto tanto grave che ha depistato la verità.

di Luciano Scalettari

Poteva davvero quel piccolo ponte levatoio in Comune di Pisa aprire uno spiraglio di verità in uno dei più fitti e dimenticati misteri della storia italiana? Più ci pensava, l’avvocato, e più ne era convinto. Andò a vedere. Percorse la strada provinciale che costeggia la base di Camp Derby, raggiunse il ponte di Calambrone, vi si fermò, osservò con cura. Probabilmente sì.

Il canale dei Navicelli incrociava la provinciale poco prima di penetrare nella base americana e il ponte era basso, troppo basso perché qualunque imbarcazione per trasporto merci vi potesse passare sotto senza aprirne le levate ed essere quindi registrata dall’addetto.

Il brogliaccio segnava ogni passaggio: giorno, ora, tipologia del natante. L’avvocato Carlo Palermo, già giudice istruttore a Trento e deputato della Rete, capì che quel brogliaccio poteva dare risultati insperati. Girata la macchina, andò a presentarsi agli uffici del Comune di Pisa: «Sono il legale di Angelo e Luchino Chessa e di Maurizio Giardini, familiari di alcune delle vittime della tragedia del Moby Prince...».

Un rogo galleggiante

Chiese copia delle pagine del registro relative ai mesi di marzo, aprile, maggio 1991. Voleva vedere cos’era entrato e uscito dalla base di Camp Derby, prima, durante e dopo il disastro del traghetto.

Il Moby Prince, infatti, era andato a squarciare la fiancata della petroliera Agip Abruzzo in una bella serata primaverile del ’91. Alle 22.27 del 10 aprile, il traghetto, diretto a Olbia con 141 passeggeri a bordo, in circostanze e per ragioni mai chiarite si era infilato con la prua in una delle cisterne ed era stato investito da un’ondata di greggio iranian light altamente infiammabile. In pochi secondi l’imbarcazione si era trasformata in un rogo galleggiante, andando per ore alla deriva, senza soccorsi: un solo superstite, 140 vittime, la più grave tragedia della marineria civile italiana.

La vicenda giudiziaria che ne seguì si era chiusa, anni dopo, senza una convincente ricostruzione dei fatti e senza veri responsabili: fu comminata qualche lieve condanna (per di più prescritta) per reati minori. Dopo di che, sul caso Moby Prince era sceso il silenzio.

La "verità ufficiale" raccontava che la tragedia si era verificata per via di una fitta nebbia calata sulla rada di Livorno, a cui erano seguite negligenze e distrazioni varie di alcuni dei protagonisti. Solo questo. Nulla era stato chiarito riguardo alla misteriosa presenza di diverse navi militari degli Stati Uniti, niente sulle operazioni che stavano conducendo, sul "cono d’ombra" che aveva disturbato le comunicazioni e i radar, sull’inefficacia dei soccorsi. Né, infine, sulle tante omissioni e manomissioni avvenute nel corso delle indagini.

Nella primavera del 2005, però, era uscito un libro con una puntigliosa ricerca di Enrico Fedrighini (Moby Prince. Un caso ancora aperto, Ed. Paoline), e di lì a pochi mesi i figli del comandante del Moby Prince Ugo Chessa (una delle vittime) si erano affidati al noto avvocato trentino per la tutela legale di parte civile. Carlo Palermo si è messo all’opera. Le sue prime indagini l’hanno portato, nell’ottobre 2006, a presentare un articolato esposto per la riapertura dell’inchiesta alla Procura di Livorno. Che lo ha fatto: l’indagine è in corso.

I nuovi elementi stanno disegnando uno scenario quantomeno inquietante, che cancella molte delle poche certezze sulla vicenda. Indicano che la tragedia sarebbe frutto di un intrigo internazionale con complicità istituzionali gravissime, allo scopo di mettere in atto opera-zioni illecite. Come vedremo.

Il ponte di Calambrone, dunque. E il registro. Cosa vi trova Palermo? La prima importante novità. Nella giornata del 10 aprile il ponte levatoio si alza solo quattro volte, e tutte di mattina. Da Camp Derby escono alle 9.30 un convoglio di chiatte (cariche) e uno yacht. Le chiatte rientrano vuote nel primo pomeriggio. Quindi la sera del 10 aprile le operazioni in corso non sono dovute – come si era sempre pensato – allo scarico di materiale bellico di rientro dalla prima guerra del Golfo, che doveva tornare in deposito alla base americana. L’armamento è in uscita, imbarcato sulle chiatte a fondo piatto che possono transitare nel canale.

Un documento mai prodotto

Grossi quantitativi di armi, e non solo il 10 aprile, ma anche i giorni precedenti a partire dall’inizio di aprile. Dove andavano le armi? Lo vedremo fra poco.

All’avvocato non basta il registro del ponte di Calambrone. Va a verificare il brogliaccio delle comunicazioni radio della Capitaneria. E trova i riscontri: negli stessi orari le chiatte avvisano la Capitaneria dell’ingresso in rada.

Ma nelle rapide annotazioni c’è un elemento in più: la destinazione. Sono dirette alle navi americane.

Il registro delle comunicazioni via radio era stato prodotto al processo, ma solo riguardo la sera del disastro. Nessuno aveva mai guardato le pagine indietro. «Non era abbastanza», dice Carlo Palermo. «Servivano elementi ulteriori».

L’avvocato li trova. Sono clamorosi. Palermo scova un documento che nessuno ha mai prodotto né è stato chiesto, anche se era il più ovvio da cercare: il registro chiamato "Avvisatore marittimo del Porto di Livorno", ossia la fotografia quotidiana della situazione.

C’è tutto scritto. C’è la risposta a diversi interrogativi che da 15 anni avvolgono la vicenda. La pagina del 10 aprile indica le sette navi militari americane presenti in porto: Cape Flattery, Gallant II, Cape Breton, Efdim Junior, Cape Syros, Cape Farewell e Margareth Likes. Non solo. Indica la loro presenza nei giorni precedenti, e dice che stanno imbarcando anche esplosivo. Indica pure la presenza di una nave militare francese, la Port de Lion, operativa la sera della tragedia, ma pure nei giorni successivi, quando si decide che a causa dell’incidente l’armamento non può più essere imbarcato a Livorno e si sposta il teatro delle opera-zioni più a Sud, a Talamone: la Port de Lion è in grado di entrare nel canale che porta alla base e così sostituisce le chiatte per i trasbordi.

Per di più, il registro dell’Avvisatore marittimo segnala la presenza, in quei giorni, di tre dragamine militari italiani: Astice, Polipo e Aragosta.

Ma le rivelazioni più stupefacenti sono altre. Eccole, in due brevi annotazioni: «Condimeteo alle 22.27: cielo sereno, mare calmo, vento da Sud (160°) 2/3 nodi, visibilità 5/6 miglia». E la seconda: «Nota: tra le 23 e le 3.00 la visibilità è stata ridottissima a causa del denso fumo». La nebbia non c’era. La visibilità al momento del disastro era di 10 chilometri, e si è ridotta solo dopo l’incidente a causa dell’incendio seguito alla collisione.

C’erano anche navi italiane

Cosa stava accadendo quella sera? Quale segreto andava custodito a tutti i costi, al punto da ostacolare l’inchiesta? «In quel momento», dice Palermo, «era in corso una grande operazione militare americana. Quale? Ce n’è una sola che prende avvio in quei giorni, chiamata Provide comfort. Ufficialmente un intervento umanitario nel Kurdistan iracheno che seguiva la guerra del Golfo. Il Congresso Usa sta indagando perché c’è il dubbio che sotto la copertura umanitaria il Governo abbia fatto dell’altro, tenendone all’oscuro le stesse istituzioni degli Stati Uniti. E per di più», aggiunge l’avvocato, «il 10 aprile ’91 era l’ultimo giorno dell’"Emergenza Golfo" dovuta alla guerra ormai conclusa. Dall’11 aprile alcune manovre militari non erano più consentite. Questo potrebbe spiegare i movimenti in rada di diverse imbarcazioni che navigavano sotto nomi di copertura e che fuggono appena si verifica la collisione. Lo sappiamo da alcune frettolose comunicazioni radio, nelle quali Teresa e Ship One si parlano. E potrebbe spiegare il fatto che una nave somala, la 21 Oktobar II, ufficialmente ormeggiata a Livorno per riparazioni, quella sera fa carburante ed esce in rada».

Quindi, tutti sapevano, i registri parlano chiaro. Erano presenti persino navi militari italiane. Le autorità portuali erano a conoscenza di quello che stava avvenendo. Tutti sapevano, ma hanno taciuto. E le prove dell’operazione militare sono state occultate, sottratte o ignorate. Perché? Una prima spiegazione c’è: alla formale richiesta dell’avvocato Palermo, il 23 agosto 2006 la Prefettura di Livorno ha risposto che «negli archivi non risulta alcuna autorizzazione rilasciata».

La legge prevede che il transito di armi in territorio italiano sia sempre e comunque autorizzato. «Ma non ce n’è traccia», commenta Palermo. «Quindi, non può che trattarsi di operazioni illegali di traffico d’armi, condotte da apparati militari stranieri e da navi civili non identificate nel nostro territorio nazionale, allo scopo di mandare illecitamente armamento di Camp Derby verso destinazioni ignote. Il disastro del Moby Prince avrebbe acceso i riflettori su ciò che doveva rimanere oscuro. Se è così, la collisione avrebbe creato un problema di tale portata che l’occultamento del traffico d’armi divenne prioritario anche sui soccorsi e, poi, sulla ricerca della verità». Ora tocca ai magistrati.

OCCULTAMENTI, OMISSIONI E MANOMISSIONI

Per 15 anni la ricostruzione dei fatti pare «sia stata in qualche modo pilotata o comunque oscurata», come dice l’avvocato Palermo, «da una nebbia non solo materiale ma processuale, che ha contribuito a nascondere la verità, qualunque essa sia».

Una nebbia fatta di occultamenti, omissioni e manomissioni. Ne ha fatto una prima articolata ricostruzione nel suo libro Enrico Fedrighini, consigliere dei Verdi al Comune di Milano. Ecco le più clamorose "anomalie" evidenziate nel volume, che hanno costellato la tragedia fin dai primi minuti.
Appena il relitto del traghetto rientra in porto, il ponte esterno viene totalmente ripulito dai Vigili del fuoco che rimuovono anche i corpi delle vittime senza attendere l’esame della polizia scientifica.

Ignoti prelevano dal vano eliche l’impianto di registrazione "KaMeWa" (mai più ritrovato), che avrebbe indicato velocità e rotta del traghetto al momento della collisione.

Consulenti del magistrato tentano una manomissione dell’impianto di timoneria del traghetto durante una perizia; vengono indagati e prosciolti dalla Pretura di Livorno.

Viene manomesso il nastro di una videocamera rinvenuta accanto al corpo di un passeggero, che aveva filmato gli ultimi momenti a bordo. Il nastro viene decurtato.

Al momento della collisione un inspiegabile black-out mette fuori uso le telecomunicazioni radar-satellitari e la ricezione dei radar delle imbarcazioni di soccorso; tutta l’area è oscurata da un "cono d’ombra" che disturba i sistemi elettronici.

Al momento dell’incidente un elicottero militare non identificato staziona sulla verticale della collisione e si allontana poco dopo.

Il giornale di bordo dell’Agip Abruzzo e le registrazioni elettroniche del punto alla fonda della petroliera vengono dimenticate a bordo della nave. Vengono distrutte tre giorni dopo da un incendio in plancia comandi.

Scompare dal fascicolo processuale la relazione trasmessa alla Procura di Livorno dal tenente Gentile della Finanza. L’ufficiale riferiva che al momento dell’incidente del Moby era in corso un trasbordo di materiale bellico da una nave militare Usa. Gentile verrà sentito solo 5 anni dopo.

Sparisce un documento riguardante l’indicazione del punto di fonda della petroliera al momento dell’incidente, essenziale per chiarirne la posizione rispetto alle dichiarazioni contraddittorie del suo comandante.

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Scritto da Paolo Cordova per disinformazione.it
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