Da Corriere della Sera del 16/03/2007

A 29 anni dal rapimento parla uno dei più stretti collaboratori dello statista ucciso dalle Br: venne sacrificato per la ragione di Stato e del partito

«E Piccoli disse: se Moro torna sono dolori»

I ricordi di Corrado Guerzoni: la Dc seguì il Pci, e non fece nulla per salvarlo

di Giovanni Bianconi

ROMA — Ventinove anni dopo i ricordi continuano a bruciare, e le impressioni di allora sono rimaste le stesse. La mattina del 16 marzo 1978 Corrado Guerzoni, giornalista tra i più stretti collaboratori di Aldo Moro, telefonò a casa del presidente della Democrazia cristiana. «Volevo dirgli che sul
Giornale di Montanelli non c'erano più attacchi contro di lui sullo scandalo Lockeed — racconta —, era una cosa che lo preoccupava e intendevo tranquillizzarlo. Mi dissero che era appena uscito.
Pensai che gli avrei parlato più tardi». Invece non gli parlò più. Né lo vide più. Pochi minuti dopo quel mancato colloquio Moro fu rapito dal commando brigatista che, in via Mario Fani, sterminò i cinque agenti di scorta. «La notizia me la diede un mio ex redattore del Radiocorriere.
Ebbi una sensazione di gelo, come se fossi entrato in una stanza ghiacciata».
Ventinove anni dopo Corrado Guerzoni ancora s'interroga sul perché non si riuscì a salvare la vita dello statista riconsegnato cadavere dalle Brigate rosse dopo 55 di giorni di prigionia. O meglio, dice lui, «non si volle salvare». E accusa: «Non lo cercarono, e la Democrazia cristiana non fece nulla per trovare una via d'uscita. S'incatenò alla linea della fermezza imposta dall'accordo col Partito comunista. Il partito della mediazione per antonomasia, delle opportunità, divenne all'improvviso e inopinatamente tutt'uno col "partito della fermezza", che per la Dc è quasi un ossimoro».
Naturalmente gli esponenti democristiani di allora la pensano in tutt'altro modo. A cominciare da Corrado Belci e Guido Bodrato, rispettivamente direttore del Popolo e capo dell'ufficio stampa e propaganda dell'epoca, che su questa vicenda hanno scritto un libro ( 1978, Moro la Dc e il terrorismo, editore Morcelliana) per difendere le scelte di quella primavera. Ma Guerzoni che visse quei 55 giorni in costante contatto con la famiglia di Aldo Moro insieme agli altri due collaboratori del presidente Sereno Freato e Nicola Rana, insiste nel suo giudizio: «C'è una frase che Piccoli disse a Freato che spiega tutto. "Se questo torna sono dolori", gli confidò, col carattere spietato ma franco che si ritrovava. Avvenne verso la metà di quel periodo, e Freato ce lo riferì subito. Del resto era la conferma dell'impressione di immobilismo impersonificata dal segretario Zaccagnini. La famiglia era sdegnata dal comportamento del segretario che era in piedi solo perché Moro l'aveva fatto stare in piedi».
La posizione del «partito-Stato», che per Guerzoni fu praticamente unanime e monolitica «salvo qualche rarissima e poco significativa eccezione» trova la principale ragione nel rapporto col Pci che, ricorda ancora, «fu esplicitata da Enrico Berlinguer nella visita a casa Moro, quando disse chiaramente alla signora "sappia che non faremo nulla"». Ma che cosa c'era da contrapporre alla fermezza? Davvero si poteva trattare coi brigatisti che avevano sterminato la scorta? «Noi parlammo di flessibilità — risponde Guerzoni —, che significa avere la capacità di mettere in contraddizione l'avversario con delle mosse in risposta alle sue. Invece l'unica risposta fu un "no" senza condizioni, che significava sacrificare Moro sull'altare della patria e della ragione di Stato e di partito: meglio lui morto e salvare tutti gli altri, come esemplificava quella frase di Piccoli. In più questa scelta si accompagnò all'immobilismo o all'incapacità degli investigatori di trovare e liberare il presidente».
Quando Guerzoni dice «senza condizioni» è inevitabile tornare al messaggio di papa Paolo VI agli «uomini delle Brigate rosse», nel quale il pontefice supplicava i terroristi di liberare l'ostaggio, appunto, «semplicemente, senza condizioni». Per i brigatisti, e forse per Moro stesso, fu il segnale che anche il papa aveva fatto «pochino», come lo stesso prigioniero scrisse alla moglie. E Guerzoni ricorda con maggiore dovizia di particolari rispetto a quanto accennò in passato l'episodio che gli fa dire che fu il governo a chiedere al papa di attenersi a quell'espressione: «Dopo la morte del presidente, tra il funerale privato e la cerimonia pubblica a San Giovanni celebrata da Paolo VI (quella con i politici ma senza la salma,
ndr) il vicario di Roma, il cardinal Poletti, chiamò la signora per chiederle di partecipare. Una telefonata a cui ero presente, e nella quale il cardinale insisteva perché la signora andasse, su insistenza del papa. Ma lei fu fermissima, suo marito era stato chiaro nel lamentare l'atteggiamento tenuto dal Vaticano. Si parlò del "senza condizioni", e Poletti replicò che era stata un'imposizione del governo. Io lo capii in diretta, poi commentammo con la signora». Per Guerzoni fu il sigillo finale alla «fermezza cieca» che portò alla morte di Moro: «L'unità tra Dc e Pci che lui aveva immaginato per salvare il Paese attraverso la mediazione, s'è realizzata sulla rigidità, ribaltandosi contro di lui e decretandone la fine».

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