Da Famiglia cristiana del 14/04/2007
Rieplode la guerra civile in Somalia
La battaglia di Mogadiscio
Si preparano settimane cruciali per il Paese. Dalla capitale, dove si è combattuto casa per casa, migliaia di civili sono fuggiti. Mentre si contano i morti e i feriti la diplomazia internazionale è al lavoro..
di Luciano Scalettari
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Ancora combattimenti, violentissimi. Una battaglia casa per casa e strada per strada, provocando da 400 a 600 vittime e oltre un migliaio di feriti. Carri armati, elicotteri, artiglieria pesante hanno messo a ferro e fuoco Mogadiscio.
per quattro giorni. Al tacere dei cannoni, lo scenario spettrale era di una città semideserta con i cadaveri ancora sulle strade e colonne di fumo che si innalzavano qua e là, nell’arso biancore della capitale somala.
Il più duro scontro da 15 anni a questa parte, dai tristi giorni della caduta del dittatore Siad Barre. Mogadiscio, da allora, non aveva più vissuto il dramma della guerra urbana. Chi ha potuto è fuggito – circa 50.000 persone – affittando una macchina o caricando lo stretto necessario su carretti e muli per raggiungere la cittadina di Afgoye (30 chilometri da Mogadiscio), attraverso l’unica via di fuga lasciata aperta.
«Abbiamo feriti ovunque, sistemati anche per terra. Non riusciamo nemmeno più a contarli», raccontava angosciato nei giorni scorsi Ali Mohalim Mohamed, il vicedirettore dell’ospedale Medina, una delle principali strutture sanitarie di Mogadiscio. «Molti feriti sono intrappolati nei quartieri e la gente non riesce a portarli nei centri sanitari, perché i combattimenti sono proseguiti anche di notte».
Ora, mentre scriviamo, è tornata la calma. Da alcuni giorni le armi tacciono per un fragile "cessate il fuoco". C’è chi spera in una soluzione negoziata, chi teme che sia solo una pausa per rinsaldare le file e approntare i rinforzi, da entrambe le parti.
Perché? Per quale ragione si è abbattuto questo nuovo cataclisma sulla popolazione di Mogadiscio? Perché il Governo di transizione, col forte appoggio dell’esercito etiopico, ha deciso di "ripulire" Mogadiscio dai gruppi di insorti asserragliati in alcuni quartieri della città che, nelle ultime settimane, avevano messo in atto uno stillicidio quotidiano di attentati e omicidi mirati.
Accanto a terroristi e ribelli
Tuttavia, questa offensiva governativa, scatenata per colpire terroristi e ribelli, si è trovata invece a fronteggiare una forte resistenza, perché accanto ai nuclei delle Corti islamiche sopravvissuti alla sconfitta del dicembre scorso si è schierata una parte consistente del clan maggioritario di Mogadiscio, gli Hawiye, ostili alla presenza straniera etiopica e al suo appoggio determinante al Governo guidato dal presidente Abdullahi Yusuf Ahmed (dell’etnia Darod) e dal primo ministro Ali Mohamed Ghedi (che pure appartiene agli Abgal, sottoclan degli Hawiye). In Somalia, la struttura clanica della società è così forte che la politica non può prescindere dagli equilibri etnici.
Questi giorni sono decisivi. A breve potrebbe essere di nuovo guerra. Sono in corso colloqui e incontri per scongiurare la ripresa dei combattimenti. Da un lato i leader degli Hawiye cercano di negoziare con l’esercito etiopico; dall’altro la comunità internazionale sta facendo ogni pressione per una trattativa che eviti un ulteriore bagno di sangue, distruggendo quello che resta in piedi di Mogadiscio. Forti appelli sono stati lanciati dal segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, dall’Unione europea e anche dal Gruppo di contatto, un organismo nato per accompagnare il processo di pace somalo e formato, oltre che dalla stessa Ue, da Italia, Norvegia, Svezia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione africana, Lega araba.
Il "cessate il fuoco" è legato a un filo. Gli etiopi non intendono rinunciare alle posizioni conquistate. Il Governo non recede dalla decisione di ottenere la stabilità di Mogadiscio e chiede che gli insorti consegnino le armi. Quanto ai gruppi ribelli, la loro posizione è che l’esercito straniero lasci la città e che venga subito formata un’amministrazione cittadina composta dai principali leader locali.
Proprio il Gruppo di contatto ha presentato alle parti una proposta che da un lato accoglie le istanze dei leader locali e dall’altro chiede che si avvii un processo di riconciliazione che coinvolga tutte le parti, a esclusione delle componenti terroristiche. Quanto alla presenza etiopica, insiste per un graduale ritiro che permetta il dispiegamento dei caschi blu ugandesi, che sono rimasti sempre neutrali. Il nodo da sciogliere è naturalmente il disarmo: Governo di transizione e lo stesso esercito etiopico sono disposti a non riprendere l’offensiva solo a condizione che gli insorti consegnino le armi.
Si preparano settimane cruciali per l’intero Paese. Dopo i 14 anni di guerra civile e di anarchia totale, in questo momento è solo Mogadiscio a essere in fiamme. Le regioni a nord della Somalia, il Puntland e il Somaliland, sono da tempo pacificate e si sono dotate di organismi di governo e istituzioni locali. Il Centrosud del Paese sembra in attesa dei destini della capitale. L’annunciata Conferenza di riconciliazione nazionale (fissata fino a pochi giorni fa al 16 aprile e rinviata ora al 26 maggio) potrebbe essere la svolta verso la pacificazione. Ma tutto dipende, adesso, dalle sorti della trattativa di Mogadiscio.
«Nessun congresso di pacificazione potrà avviarsi senza una stabilizzazione di Mogadiscio», dice l’inviato del Governo italiano, onorevole Mario Raffaelli. «D’altro canto, il tentativo di mettere in sicurezza la capitale per mano militare si è dimostrato inutile e dannoso, perché ha fatto crescere il consenso della popolazione intorno agli insorti. Avviare un dialogo con i leader Hawiye di Mogadiscio e concordare insieme la guida della città sono la premessa a un accordo di condivisione del potere su scala nazionale. Solo così si possono isolare i terroristi e gli irriducibili, dando spazio alle componenti moderate».
È GIÀ EMERGENZA UMANITARIA
A Mogadiscio è di nuovo emergenza umanitaria. I due milioni di abitanti della capitale intrappolati nei combattimenti, i 100.000 profughi che hanno lasciato la città da febbraio, le decine di migliaia di sfollati che premono al confine col Kenya (le frontiere sono chiuse per timore di infiltrazioni terroristiche), infine gli ospedali stracolmi di feriti e carenti di farmaci. Questo il quadro drammatico che organismi non governativi e agenzie internazionali cercano di fronteggiare.
La prima risposta è venuta da Benedetto XVI, che ha destinato il ricavato della celebrazione del Giovedì santo in San Giovanni in Laterano al dispensario medico della Caritas di Baidoa, la cittadina a 250 chilometri da Mogadiscio capitale provvisoria fino a poco tempo fa. «In questi tristi giorni è per noi motivo di consolazione la sollecitudine del Santo Padre per questo martoriato Paese», ha detto monsignor Giorgio Bertin, amministratore apostolico della Somalia e presidente di Caritas Somalia. «Il dispensario», dice il responsabile Davide Bernocchi, «che in meno di un anno ha già assistito 25.000 pazienti, è l’unica presenza sanitaria nella regione di Baidoa, e opera in collaborazione con l’ospedale di Mogadiscio retto dalle suore della Consolata».
Per quanto riguarda l’aiuto italiano, è partita una seconda iniziativa: il Cesvi di Bergamo e l’Associazione Ilaria Alpi hanno lanciato la campagna "Crescere in pace a Mogadiscio". Stanno organizzando un primo volo per portare farmaci e beni di prima necessità all’ospedale dei bambini di Mogadiscio guidato dalle suore della Consolata e ai profughi accampati nell’area della capitale.
per quattro giorni. Al tacere dei cannoni, lo scenario spettrale era di una città semideserta con i cadaveri ancora sulle strade e colonne di fumo che si innalzavano qua e là, nell’arso biancore della capitale somala.
Il più duro scontro da 15 anni a questa parte, dai tristi giorni della caduta del dittatore Siad Barre. Mogadiscio, da allora, non aveva più vissuto il dramma della guerra urbana. Chi ha potuto è fuggito – circa 50.000 persone – affittando una macchina o caricando lo stretto necessario su carretti e muli per raggiungere la cittadina di Afgoye (30 chilometri da Mogadiscio), attraverso l’unica via di fuga lasciata aperta.
«Abbiamo feriti ovunque, sistemati anche per terra. Non riusciamo nemmeno più a contarli», raccontava angosciato nei giorni scorsi Ali Mohalim Mohamed, il vicedirettore dell’ospedale Medina, una delle principali strutture sanitarie di Mogadiscio. «Molti feriti sono intrappolati nei quartieri e la gente non riesce a portarli nei centri sanitari, perché i combattimenti sono proseguiti anche di notte».
Ora, mentre scriviamo, è tornata la calma. Da alcuni giorni le armi tacciono per un fragile "cessate il fuoco". C’è chi spera in una soluzione negoziata, chi teme che sia solo una pausa per rinsaldare le file e approntare i rinforzi, da entrambe le parti.
Perché? Per quale ragione si è abbattuto questo nuovo cataclisma sulla popolazione di Mogadiscio? Perché il Governo di transizione, col forte appoggio dell’esercito etiopico, ha deciso di "ripulire" Mogadiscio dai gruppi di insorti asserragliati in alcuni quartieri della città che, nelle ultime settimane, avevano messo in atto uno stillicidio quotidiano di attentati e omicidi mirati.
Accanto a terroristi e ribelli
Tuttavia, questa offensiva governativa, scatenata per colpire terroristi e ribelli, si è trovata invece a fronteggiare una forte resistenza, perché accanto ai nuclei delle Corti islamiche sopravvissuti alla sconfitta del dicembre scorso si è schierata una parte consistente del clan maggioritario di Mogadiscio, gli Hawiye, ostili alla presenza straniera etiopica e al suo appoggio determinante al Governo guidato dal presidente Abdullahi Yusuf Ahmed (dell’etnia Darod) e dal primo ministro Ali Mohamed Ghedi (che pure appartiene agli Abgal, sottoclan degli Hawiye). In Somalia, la struttura clanica della società è così forte che la politica non può prescindere dagli equilibri etnici.
Questi giorni sono decisivi. A breve potrebbe essere di nuovo guerra. Sono in corso colloqui e incontri per scongiurare la ripresa dei combattimenti. Da un lato i leader degli Hawiye cercano di negoziare con l’esercito etiopico; dall’altro la comunità internazionale sta facendo ogni pressione per una trattativa che eviti un ulteriore bagno di sangue, distruggendo quello che resta in piedi di Mogadiscio. Forti appelli sono stati lanciati dal segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, dall’Unione europea e anche dal Gruppo di contatto, un organismo nato per accompagnare il processo di pace somalo e formato, oltre che dalla stessa Ue, da Italia, Norvegia, Svezia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione africana, Lega araba.
Il "cessate il fuoco" è legato a un filo. Gli etiopi non intendono rinunciare alle posizioni conquistate. Il Governo non recede dalla decisione di ottenere la stabilità di Mogadiscio e chiede che gli insorti consegnino le armi. Quanto ai gruppi ribelli, la loro posizione è che l’esercito straniero lasci la città e che venga subito formata un’amministrazione cittadina composta dai principali leader locali.
Proprio il Gruppo di contatto ha presentato alle parti una proposta che da un lato accoglie le istanze dei leader locali e dall’altro chiede che si avvii un processo di riconciliazione che coinvolga tutte le parti, a esclusione delle componenti terroristiche. Quanto alla presenza etiopica, insiste per un graduale ritiro che permetta il dispiegamento dei caschi blu ugandesi, che sono rimasti sempre neutrali. Il nodo da sciogliere è naturalmente il disarmo: Governo di transizione e lo stesso esercito etiopico sono disposti a non riprendere l’offensiva solo a condizione che gli insorti consegnino le armi.
Si preparano settimane cruciali per l’intero Paese. Dopo i 14 anni di guerra civile e di anarchia totale, in questo momento è solo Mogadiscio a essere in fiamme. Le regioni a nord della Somalia, il Puntland e il Somaliland, sono da tempo pacificate e si sono dotate di organismi di governo e istituzioni locali. Il Centrosud del Paese sembra in attesa dei destini della capitale. L’annunciata Conferenza di riconciliazione nazionale (fissata fino a pochi giorni fa al 16 aprile e rinviata ora al 26 maggio) potrebbe essere la svolta verso la pacificazione. Ma tutto dipende, adesso, dalle sorti della trattativa di Mogadiscio.
«Nessun congresso di pacificazione potrà avviarsi senza una stabilizzazione di Mogadiscio», dice l’inviato del Governo italiano, onorevole Mario Raffaelli. «D’altro canto, il tentativo di mettere in sicurezza la capitale per mano militare si è dimostrato inutile e dannoso, perché ha fatto crescere il consenso della popolazione intorno agli insorti. Avviare un dialogo con i leader Hawiye di Mogadiscio e concordare insieme la guida della città sono la premessa a un accordo di condivisione del potere su scala nazionale. Solo così si possono isolare i terroristi e gli irriducibili, dando spazio alle componenti moderate».
È GIÀ EMERGENZA UMANITARIA
A Mogadiscio è di nuovo emergenza umanitaria. I due milioni di abitanti della capitale intrappolati nei combattimenti, i 100.000 profughi che hanno lasciato la città da febbraio, le decine di migliaia di sfollati che premono al confine col Kenya (le frontiere sono chiuse per timore di infiltrazioni terroristiche), infine gli ospedali stracolmi di feriti e carenti di farmaci. Questo il quadro drammatico che organismi non governativi e agenzie internazionali cercano di fronteggiare.
La prima risposta è venuta da Benedetto XVI, che ha destinato il ricavato della celebrazione del Giovedì santo in San Giovanni in Laterano al dispensario medico della Caritas di Baidoa, la cittadina a 250 chilometri da Mogadiscio capitale provvisoria fino a poco tempo fa. «In questi tristi giorni è per noi motivo di consolazione la sollecitudine del Santo Padre per questo martoriato Paese», ha detto monsignor Giorgio Bertin, amministratore apostolico della Somalia e presidente di Caritas Somalia. «Il dispensario», dice il responsabile Davide Bernocchi, «che in meno di un anno ha già assistito 25.000 pazienti, è l’unica presenza sanitaria nella regione di Baidoa, e opera in collaborazione con l’ospedale di Mogadiscio retto dalle suore della Consolata».
Per quanto riguarda l’aiuto italiano, è partita una seconda iniziativa: il Cesvi di Bergamo e l’Associazione Ilaria Alpi hanno lanciato la campagna "Crescere in pace a Mogadiscio". Stanno organizzando un primo volo per portare farmaci e beni di prima necessità all’ospedale dei bambini di Mogadiscio guidato dalle suore della Consolata e ai profughi accampati nell’area della capitale.
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