Da Internazionale del 10/05/2007
Non farsi intimidire
di David Randall
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Il 23 aprile su una strada della California c'è stato uno scontro frontale tra due auto e un uomo di 73 anni è rimasto ucciso. Si chiamava David Halberstam e, secondo molti, era il miglior reporter che l'America abbia avuto negli ultimi cinquant'anni.
Questo giudiizio, forse più di quanto si renda conto chi l'ha espresso, non è tanto un verdetto quanto un rimprovero all'attuale generazione di giornalisti, che si sono bevuti tutto quello che gli è stato raccontato sui motivi della guerra in Iraq. Halberstam era diventato famoso per aver tenuto testa alle autorità statunitensi e per non essersi lasciato intimidire quando lo avevano accusato di essere un traditore. Era uno tosto. Magari ce ne fossero stati di più come lui qualche anno fa.
La sua storia giornalistica era cominiciata nel 1995, quando si era laureato ad Harvard. Aveva cercato lavoro come stagista in un grande giornale? No. Per usare le sue parole: "Non volevo portare il caffé a nessuno, volevo fare il giornalista". Così aveva preso la macchina ed era andato 1.700 chilometri più a sud per diventare l'unico reporter del Daily Times Leader di West Point, in Mississippi: un giornale nel cuore bianco del profondo sud segregazionista americano, con una tiratura di quattromila copie. Si era subito trovato a raccontare storie come quella di Emmet Till, un adolescente di colore che era stato ucciso per aver fischiato dietro a una donna bianca. Nel giro di un anno era stato licenziato (troppo progressista, aveva detto il suo direttore) e si era trasferito a Nashville Tennessean. "Lì ho imparato che più ricerche fai meglio scrivi", spiegava, "perché hai piiù dettagli, più storie da raccontare e ne acquisti in autorevolezza. E ho anche imparato che per un giornalista il divertimento più grande è parlare con la gente".
Dopo quattro anni ricevette una telefonata da James Reston del New York Times che gli offriva un lavoro. All'inizio Halberstam pensò che fosse il suo direttore che gli faceva uno scherzo e gli disse di andare a quel paese, o qualcosa del genere. Per fortuna Reston richiamò. Halberstam entrò al Times nel 1960 e scoprì fin dal primo giorno che aveva ancora molto da imparare. Il caporedattore Wally Carrol gli fece riscrivere il suo primo articolo cinque volte. Sei mesi dopo era in Congo per occuparsi della rivolta scoppiata in quel paese, fu ferito, e poi nel 1962 partì per il Vietnam.
Aveva lasciato gli Stati Uniti convinto che fermare il comunismo fosse una missione giusta. Ma quello che vide gli fece cambiare idea. Scoprì che le autorità militari statunitensi raccontavano cose diverse da quelle che lui vedeva in prima persona, si rese conto che l'America si stava impantanando (fu il primo ad usare questo termine per il Vietnam) e inorridì per la corruzione dei sui alleati sudvietnamiti. Fu particolarmente sferzante nei confronti di Madame Nhu, cognata del presidente e vera first lady del regime, che commentò: "Halberstam dovrebbe essere arrostito e sarei felice di fornire personalmente la benzina ed i fiammiferi".
I suoi reportage infastidivano così tanto la Casa Bianca che il Presidente Kennedy chiese all'editore del New York Times di far rientrare Halberstam. L'editore non solo respinse la richiesta del presidente ma annullò anche le ferie del reporter per evitare che Kennedy pensasse che l'assenza della sua firma sul giornale significasse che era stato richiamato. Halberstam vinse un premio Pulitzer per i suoi reportage, ma la sua maggiore soddisfazione la ottenne in un caldo pomeriggio dell'autunno del 1963. Lui e il suo collega Nei Sheehan sospettavano che i soldati statunitensi (che in teoria in Vietnam dovevano fare solo i "consiglieri militari") partecipassero attivamente agli scontri, anche se le alte cariche dell'esercito si rifiutavano di rispondere alle loro domande sull'argomento.
Durante una conferenza stampa che come al solito non doveva dare nessuna informazione, il portavoce dell'esercito cominciò dicendo che i giornalisti stavano "intralciando" l'esercito e che dovevano piantarla.
La stanza era piena di ufficiali e Halberstam era solo un giornalista di 29 anni. Ma con il cuore che gli batteva all'impazzata, si alzò e disse al generale: "non siamo i vostri caporali né i vostri soldati. Lavoriamo per il New York Times, non per il ministero della difesa". Disse poi che il popolo americano aveva il diritto di sapere quello che stava succedendo, e che lui avrebbe continuato a fare domande. Più tardi avrebbe scritto: "Non lasciatevi mai intimidire. Mai".
Prima di morire, Halberstam ha dichiarato che era stato l'Iraq, non il Vietnam, il "più grosso errore di politica estera che aveva visto nella sua vita". E' un peccato che alle conferenze stampa della autorità statunitensi prima dell'invasione del 2003 non ci sia stato un giornalista con il coraggio di Halberstam che si sia alzato in piedi e abbia fatto qualche domanda scomoda.
Questo giudiizio, forse più di quanto si renda conto chi l'ha espresso, non è tanto un verdetto quanto un rimprovero all'attuale generazione di giornalisti, che si sono bevuti tutto quello che gli è stato raccontato sui motivi della guerra in Iraq. Halberstam era diventato famoso per aver tenuto testa alle autorità statunitensi e per non essersi lasciato intimidire quando lo avevano accusato di essere un traditore. Era uno tosto. Magari ce ne fossero stati di più come lui qualche anno fa.
La sua storia giornalistica era cominiciata nel 1995, quando si era laureato ad Harvard. Aveva cercato lavoro come stagista in un grande giornale? No. Per usare le sue parole: "Non volevo portare il caffé a nessuno, volevo fare il giornalista". Così aveva preso la macchina ed era andato 1.700 chilometri più a sud per diventare l'unico reporter del Daily Times Leader di West Point, in Mississippi: un giornale nel cuore bianco del profondo sud segregazionista americano, con una tiratura di quattromila copie. Si era subito trovato a raccontare storie come quella di Emmet Till, un adolescente di colore che era stato ucciso per aver fischiato dietro a una donna bianca. Nel giro di un anno era stato licenziato (troppo progressista, aveva detto il suo direttore) e si era trasferito a Nashville Tennessean. "Lì ho imparato che più ricerche fai meglio scrivi", spiegava, "perché hai piiù dettagli, più storie da raccontare e ne acquisti in autorevolezza. E ho anche imparato che per un giornalista il divertimento più grande è parlare con la gente".
Dopo quattro anni ricevette una telefonata da James Reston del New York Times che gli offriva un lavoro. All'inizio Halberstam pensò che fosse il suo direttore che gli faceva uno scherzo e gli disse di andare a quel paese, o qualcosa del genere. Per fortuna Reston richiamò. Halberstam entrò al Times nel 1960 e scoprì fin dal primo giorno che aveva ancora molto da imparare. Il caporedattore Wally Carrol gli fece riscrivere il suo primo articolo cinque volte. Sei mesi dopo era in Congo per occuparsi della rivolta scoppiata in quel paese, fu ferito, e poi nel 1962 partì per il Vietnam.
Aveva lasciato gli Stati Uniti convinto che fermare il comunismo fosse una missione giusta. Ma quello che vide gli fece cambiare idea. Scoprì che le autorità militari statunitensi raccontavano cose diverse da quelle che lui vedeva in prima persona, si rese conto che l'America si stava impantanando (fu il primo ad usare questo termine per il Vietnam) e inorridì per la corruzione dei sui alleati sudvietnamiti. Fu particolarmente sferzante nei confronti di Madame Nhu, cognata del presidente e vera first lady del regime, che commentò: "Halberstam dovrebbe essere arrostito e sarei felice di fornire personalmente la benzina ed i fiammiferi".
I suoi reportage infastidivano così tanto la Casa Bianca che il Presidente Kennedy chiese all'editore del New York Times di far rientrare Halberstam. L'editore non solo respinse la richiesta del presidente ma annullò anche le ferie del reporter per evitare che Kennedy pensasse che l'assenza della sua firma sul giornale significasse che era stato richiamato. Halberstam vinse un premio Pulitzer per i suoi reportage, ma la sua maggiore soddisfazione la ottenne in un caldo pomeriggio dell'autunno del 1963. Lui e il suo collega Nei Sheehan sospettavano che i soldati statunitensi (che in teoria in Vietnam dovevano fare solo i "consiglieri militari") partecipassero attivamente agli scontri, anche se le alte cariche dell'esercito si rifiutavano di rispondere alle loro domande sull'argomento.
Durante una conferenza stampa che come al solito non doveva dare nessuna informazione, il portavoce dell'esercito cominciò dicendo che i giornalisti stavano "intralciando" l'esercito e che dovevano piantarla.
La stanza era piena di ufficiali e Halberstam era solo un giornalista di 29 anni. Ma con il cuore che gli batteva all'impazzata, si alzò e disse al generale: "non siamo i vostri caporali né i vostri soldati. Lavoriamo per il New York Times, non per il ministero della difesa". Disse poi che il popolo americano aveva il diritto di sapere quello che stava succedendo, e che lui avrebbe continuato a fare domande. Più tardi avrebbe scritto: "Non lasciatevi mai intimidire. Mai".
Prima di morire, Halberstam ha dichiarato che era stato l'Iraq, non il Vietnam, il "più grosso errore di politica estera che aveva visto nella sua vita". E' un peccato che alle conferenze stampa della autorità statunitensi prima dell'invasione del 2003 non ci sia stato un giornalista con il coraggio di Halberstam che si sia alzato in piedi e abbia fatto qualche domanda scomoda.
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