Da La Repubblica del 17/05/2007
La donna: li troveranno solo se qualche politico avrà una crisi di coscienza, o se confessano Riina e Provenzano
Falcone, la sorella accusa "Mandanti, chi sa deve parlare"
di Attilio Bolzoni
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PALERMO - Sono ancora appoggiate con cura sugli scaffali, conservate come reliquie. Alcune sono di terracotta, altre di vetro o di legno. "Ci teneva tanto alla sua collezione di papere", ricorda la sorella prima di cominciare a parlare dei quindici anni che sono passati. "È cambiato molto da allora, Palermo è più libera", dice Maria Falcone. Poi si incupisce: "Io però non avrò giustizia fino a quando non si scoprirà l'intreccio con il mondo della politica e degli affari, fino a quando non si scopriranno i nomi di quei mandanti esterni che oggi non esistono".
Resta in silenzio per qualche secondo, abbassa la voce: "A meno che qualche uomo politico importante non abbia una profonda crisi di coscienza e parli, a meno che Totò Riina o Bernardo Provenzano non decidano di confessare chi sono stati i loro complici". Quindici anni dopo per la strage di Capaci colpevole c'è solo la Cupola.
Come ogni vigilia d'estate Palermo si prepara a celebrare i suoi morti più eccellenti, anniversario dopo anniversario e lapide dopo lapide. Sembra molto lontano quel 23 maggio del 1992. I mafiosi in cima alla collina, le auto blindate che corrono dall'aeroporto di Punta Raisi verso la città, l'autostrada che si apre come per il terremoto, il fuoco, il fumo, i boss che brindano all'Ucciardone per l'uccisione del loro grande nemico: Giovanni Falcone.
Da poco più di un anno era stato nominato direttore generale degli Affari penali al ministero della Giustizia, una postazione decisiva per lui che aveva in mente la Superprocura e una rivoluzione copernicana del sistema giudiziario italiano. Se n'era andato da una Palermo avvelenata. Su quell'attentato dove morirono anche la moglie giudice Francesca Morvillo e tre poliziotti della scorta, quindici anni dopo è affiorata una traccia che porta all'uomo che procurò il telecomando per far saltare in aria l'autostrada.
È un costruttore palermitano, molto noto. Fu sfiorato da qualche sospetto appena un paio di mesi dopo il massacro, poi uscì dall'inchiesta. C'è rifinito dentro per i suoi contatti con una società catanese specialista in "pulizia" ambientale, due fratelli che maneggiano microspie per conto dei Pm e dei "servizi". I due catanesi sono coinvolti nell'investigazione sull'uccisione del procuratore Paolo Borsellino, però si sono lasciati dietro indizi che riconducono anche a Capaci. E' un appunto su un congegno elettronico.
L'imprenditore di Palermo è diventato ormai l'unico "filo" fra la Cupola e quelli che i procuratori di Caltanissetta chiamano i mandanti "altri".
Quelli che "non esistono", quelli che non sono mai stati trovati.
I migliori detective dei reparti investigativi hanno raccolto milioni di informazioni che sono servite a imbastire una mezza dozzina di processi, tutti conclusi con la condanna definitiva dei capi di Cosa Nostra. Un'enciclopedia del crimine, montagne di carte che si fermano però tutte lì: alla mafia di Corleone. "Ma sono proprio quelle carte che non consentono una lettura minimalista, quella sulla strage è un'inchiesta ancora monca", spiega Francesco Crescimanno, l'avvocato di Falcone che rappresenta ancora la sua famiglia come parte civile. Per la prima volta dice anche qualcos'altro Crescimanno: "Le indagini si sono impantanate e non certo per colpa della polizia giudiziaria o della magistratura, lo Stato italiano a questo punto dovrebbe compiere un percorso di conoscenza all'interno di se stesso, nel suo ventre. A cominciare dai servizi segreti".
Con quattrocento chili di plastico e di tritolo, alle 17,58 del 23 maggio, partì un attacco allo Stato che cinquantasei giorni dopo sarebbe continuato con la morte di Paolo Borsellino e nei mesi successivi con le bombe di Firenze e Roma e Milano. Una strategia per "condizionare i futuri assetti di potere in Italia" dopo la Tangentopoli che travolse i partiti. In sostanza i boss volevano cancellati gli ergastoli che si erano presi - fino in Cassazione - al maxi processo istruito da Falcone. E volevano promesse, garanzie per la loro sopravvivenza nella difficile transizione fra la Prima e la Seconda Repubblica. Stavano trattando con le stragi. Fecero tutto da soli?
Nell'ufficio giudiziario che è stato il "motore" delle inchieste sulle stragi siciliane, la Procura di Caltanissetta, oggi c'è solo l'aggiunto Renato Di Natale che segue ancora l'ultima filone d'indagine su Capaci. Dal 1992 hanno aperto e chiuso tre fascicoli sui mandanti "altri". In quindici anni sono finiti in 7 nel registro degli indagati "per concorso in strage".
I primi due sono stati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Rivelazioni di pentiti, indagini intrecciate con un presunto riciclaggio e pericolose amicizie palermitane. Furono individuati loro due come quei "nuovi referenti" che - fra il '92 e il '93 - stavano cercando i boss. L'inchiesta su Berlusconi e Dell'Utri è stata definitivamente chiusa il 3 maggio 2002.
La seconda inchiesta sui mandanti occulti è quella che viene definita "la pista di mafia e appalti". Grandi lavori e grandi tangenti, gli affari delle cosche che si mischiano quelli della politica, società quotate in Borsa e l'ombra dei Corleonesi. Cinque gli indagati: Giovanni Bini, Antonio Buscemi, Agostino Catalano, Benedetto D'Agostino, Pino Lipari. Anche per loro indagine chiusa il 9 giugno 2003.
L'ultima inchiesta si è arenata in questa primavera del 2007. Era nata dalle dichiarazioni di Antonino Giuffrè. Il pentito aveva raccontato che, prima della strage, i boss avevano avviato "una sorta di consultazione in settori imprenditoriali e politici". Un sondaggio preventivo di Cosa Nostra.
È tutta in archivio l'indagine sui mandanti "altri".
È sospesa nel vuoto anche a Firenze, dove si è investigato sulle "stragi italiane" per mano di mafia e su quelle trattative che si erano sviluppate fra un attentato e l'altro.
Certezze e incertezze sui mandanti occulti sono racchiuse in questo passo dei giudici fiorentini: "Le indagini svolte hanno consentito l'acquisizione di risultati significativi solo in ordine all'avere Cosa Nostra agito a seguito di input esterni". E anche a Palermo è finita in uno scaffale l'inchiesta parallela sui "poteri" che avrebbero dialogato con Cosa Nostra. Il fascicolo fu aperto dalla Boccassini ed ereditato dai sostituti procuratori Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato che gli diedero un nome: "Sistemi Criminali". L'indagine partiva dall'ipotesi che la mafia aveva stretto un'alleanza con movimenti eversivi di destra e logge segrete. Negli anni '90 i boss fondarono Leghe meridionali in tutto il Sud, cercarono sponde con alcuni personaggi della Lega Nord: come obiettivo avevano quello di spezzare l'unità nazionale. Anche "Sistemi Criminali", nel 2000, ha preso per sempre la via dell'archivio.
"La verità sulle stragi non siamo riusciti a trovarla nei 4 anni a seguire e ormai nel nostro Paese non vedo un'ansia di affrontare verità scomode, in un'Italia dove hanno istituito commissioni d'inchiesta su tutto chissà perché nessuno ne ha mai proposto una sulle stragi di siciliane", commenta Ingroia.
È ancora l'avvocato Francesco Crescimanno a tornare a quei giorni del 1992: "Dalla domenica 17 maggio al giovedì 21 con Falcone ci siamo visti almeno quattro volte a Roma per discutere di processi dove lui era parte lesa per calunnia. Spesso licenziava la scorta, si muoveva in libertà, non percepiva pericoli". Spiega Crescimanno: "Cosa Nostra sapeva bene quale sarebbe stata la reazione violenta dello Stato uccidendolo, ecco perché penso che ci sia stato anche l'interesse di qualcun altro a farlo. E a farlo subito anche. Forse al ministero aveva visto qualcosa che non doveva vedere: qualche carta, qualche conto svizzero... ".
Quindici anni fa Falcone e poi Borsellino. E poi ancora, i capi della Cupola uno dopo l'altro catturati. Fino all'arresto di Bernardo Provenzano, l'ultimo dei Corleonesi. I protagonisti di quella vicenda siciliana sono ormai quasi tutti morti o sepolti in carcere. I superstiti, scampati o testimoni di rango, si sono chiusi in un profondo silenzio. E Palermo è entrata in un altro tempo.
(1. continua)
Resta in silenzio per qualche secondo, abbassa la voce: "A meno che qualche uomo politico importante non abbia una profonda crisi di coscienza e parli, a meno che Totò Riina o Bernardo Provenzano non decidano di confessare chi sono stati i loro complici". Quindici anni dopo per la strage di Capaci colpevole c'è solo la Cupola.
Come ogni vigilia d'estate Palermo si prepara a celebrare i suoi morti più eccellenti, anniversario dopo anniversario e lapide dopo lapide. Sembra molto lontano quel 23 maggio del 1992. I mafiosi in cima alla collina, le auto blindate che corrono dall'aeroporto di Punta Raisi verso la città, l'autostrada che si apre come per il terremoto, il fuoco, il fumo, i boss che brindano all'Ucciardone per l'uccisione del loro grande nemico: Giovanni Falcone.
Da poco più di un anno era stato nominato direttore generale degli Affari penali al ministero della Giustizia, una postazione decisiva per lui che aveva in mente la Superprocura e una rivoluzione copernicana del sistema giudiziario italiano. Se n'era andato da una Palermo avvelenata. Su quell'attentato dove morirono anche la moglie giudice Francesca Morvillo e tre poliziotti della scorta, quindici anni dopo è affiorata una traccia che porta all'uomo che procurò il telecomando per far saltare in aria l'autostrada.
È un costruttore palermitano, molto noto. Fu sfiorato da qualche sospetto appena un paio di mesi dopo il massacro, poi uscì dall'inchiesta. C'è rifinito dentro per i suoi contatti con una società catanese specialista in "pulizia" ambientale, due fratelli che maneggiano microspie per conto dei Pm e dei "servizi". I due catanesi sono coinvolti nell'investigazione sull'uccisione del procuratore Paolo Borsellino, però si sono lasciati dietro indizi che riconducono anche a Capaci. E' un appunto su un congegno elettronico.
L'imprenditore di Palermo è diventato ormai l'unico "filo" fra la Cupola e quelli che i procuratori di Caltanissetta chiamano i mandanti "altri".
Quelli che "non esistono", quelli che non sono mai stati trovati.
I migliori detective dei reparti investigativi hanno raccolto milioni di informazioni che sono servite a imbastire una mezza dozzina di processi, tutti conclusi con la condanna definitiva dei capi di Cosa Nostra. Un'enciclopedia del crimine, montagne di carte che si fermano però tutte lì: alla mafia di Corleone. "Ma sono proprio quelle carte che non consentono una lettura minimalista, quella sulla strage è un'inchiesta ancora monca", spiega Francesco Crescimanno, l'avvocato di Falcone che rappresenta ancora la sua famiglia come parte civile. Per la prima volta dice anche qualcos'altro Crescimanno: "Le indagini si sono impantanate e non certo per colpa della polizia giudiziaria o della magistratura, lo Stato italiano a questo punto dovrebbe compiere un percorso di conoscenza all'interno di se stesso, nel suo ventre. A cominciare dai servizi segreti".
Con quattrocento chili di plastico e di tritolo, alle 17,58 del 23 maggio, partì un attacco allo Stato che cinquantasei giorni dopo sarebbe continuato con la morte di Paolo Borsellino e nei mesi successivi con le bombe di Firenze e Roma e Milano. Una strategia per "condizionare i futuri assetti di potere in Italia" dopo la Tangentopoli che travolse i partiti. In sostanza i boss volevano cancellati gli ergastoli che si erano presi - fino in Cassazione - al maxi processo istruito da Falcone. E volevano promesse, garanzie per la loro sopravvivenza nella difficile transizione fra la Prima e la Seconda Repubblica. Stavano trattando con le stragi. Fecero tutto da soli?
Nell'ufficio giudiziario che è stato il "motore" delle inchieste sulle stragi siciliane, la Procura di Caltanissetta, oggi c'è solo l'aggiunto Renato Di Natale che segue ancora l'ultima filone d'indagine su Capaci. Dal 1992 hanno aperto e chiuso tre fascicoli sui mandanti "altri". In quindici anni sono finiti in 7 nel registro degli indagati "per concorso in strage".
I primi due sono stati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Rivelazioni di pentiti, indagini intrecciate con un presunto riciclaggio e pericolose amicizie palermitane. Furono individuati loro due come quei "nuovi referenti" che - fra il '92 e il '93 - stavano cercando i boss. L'inchiesta su Berlusconi e Dell'Utri è stata definitivamente chiusa il 3 maggio 2002.
La seconda inchiesta sui mandanti occulti è quella che viene definita "la pista di mafia e appalti". Grandi lavori e grandi tangenti, gli affari delle cosche che si mischiano quelli della politica, società quotate in Borsa e l'ombra dei Corleonesi. Cinque gli indagati: Giovanni Bini, Antonio Buscemi, Agostino Catalano, Benedetto D'Agostino, Pino Lipari. Anche per loro indagine chiusa il 9 giugno 2003.
L'ultima inchiesta si è arenata in questa primavera del 2007. Era nata dalle dichiarazioni di Antonino Giuffrè. Il pentito aveva raccontato che, prima della strage, i boss avevano avviato "una sorta di consultazione in settori imprenditoriali e politici". Un sondaggio preventivo di Cosa Nostra.
È tutta in archivio l'indagine sui mandanti "altri".
È sospesa nel vuoto anche a Firenze, dove si è investigato sulle "stragi italiane" per mano di mafia e su quelle trattative che si erano sviluppate fra un attentato e l'altro.
Certezze e incertezze sui mandanti occulti sono racchiuse in questo passo dei giudici fiorentini: "Le indagini svolte hanno consentito l'acquisizione di risultati significativi solo in ordine all'avere Cosa Nostra agito a seguito di input esterni". E anche a Palermo è finita in uno scaffale l'inchiesta parallela sui "poteri" che avrebbero dialogato con Cosa Nostra. Il fascicolo fu aperto dalla Boccassini ed ereditato dai sostituti procuratori Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato che gli diedero un nome: "Sistemi Criminali". L'indagine partiva dall'ipotesi che la mafia aveva stretto un'alleanza con movimenti eversivi di destra e logge segrete. Negli anni '90 i boss fondarono Leghe meridionali in tutto il Sud, cercarono sponde con alcuni personaggi della Lega Nord: come obiettivo avevano quello di spezzare l'unità nazionale. Anche "Sistemi Criminali", nel 2000, ha preso per sempre la via dell'archivio.
"La verità sulle stragi non siamo riusciti a trovarla nei 4 anni a seguire e ormai nel nostro Paese non vedo un'ansia di affrontare verità scomode, in un'Italia dove hanno istituito commissioni d'inchiesta su tutto chissà perché nessuno ne ha mai proposto una sulle stragi di siciliane", commenta Ingroia.
È ancora l'avvocato Francesco Crescimanno a tornare a quei giorni del 1992: "Dalla domenica 17 maggio al giovedì 21 con Falcone ci siamo visti almeno quattro volte a Roma per discutere di processi dove lui era parte lesa per calunnia. Spesso licenziava la scorta, si muoveva in libertà, non percepiva pericoli". Spiega Crescimanno: "Cosa Nostra sapeva bene quale sarebbe stata la reazione violenta dello Stato uccidendolo, ecco perché penso che ci sia stato anche l'interesse di qualcun altro a farlo. E a farlo subito anche. Forse al ministero aveva visto qualcosa che non doveva vedere: qualche carta, qualche conto svizzero... ".
Quindici anni fa Falcone e poi Borsellino. E poi ancora, i capi della Cupola uno dopo l'altro catturati. Fino all'arresto di Bernardo Provenzano, l'ultimo dei Corleonesi. I protagonisti di quella vicenda siciliana sono ormai quasi tutti morti o sepolti in carcere. I superstiti, scampati o testimoni di rango, si sono chiusi in un profondo silenzio. E Palermo è entrata in un altro tempo.
(1. continua)
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su La Repubblica del 23/05/2007
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di Giuseppe Ayala
Mondadori, 2008
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