Da Corriere della Sera del 18/06/2007
ARCHIVI Nuovi documenti ribaltano l'immagine del «guerrafondaio» diffusa dai comunisti
De Gasperi pacifista: no a una Corea in Europa
E nel 1950 sospese la domanda di ammissione dell'Italia all'Onu
di Antonio Carioti
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Alcide De Gasperi aderì al Patto atlantico e avviò il riarmo del-l'Italia, negli anni in cui più alta era la tensione tra Est e Ovest. Ma accusarlo di essere un bellicista e di guidare un «governo della guerra», come faceva all'epoca la sinistra filosovietica, era peggio di un eccesso propagandistico: era un'assurdità totale, come dimostrano i documenti inediti rinvenuti da Pier Luigi Ballini nelle carte di De Gasperi conservate dalla figlia Maria Romana.
Lo storico fiorentino sta preparando un saggio sul periodo 1948-54 nell'ambito di una biografia a più voci del grande statista promossa dalla Fondazione De Gasperi. E ha esaminato lettere e appunti scritti dal politico trentino subito dopo lo scoppio della guerra di Corea. Nell'estate del 1950, mentre le truppe comuniste di Kim Il Sung dilagavano al Sud e gli americani, ottenuto il via libera dell'Onu grazie all'assenza del rappresentante sovietico dal Consiglio di sicurezza, si preparavano a rintuzzare l'aggressione con lo sbarco di Inchon, il presidente del Consiglio italiano si mostrava angosciato per il pericolo, all'apparenza nient'affatto remoto, che un conflitto analogo esplodesse in Europa. D'altronde, l'Urss aveva realizzato nel 1949 il suo primo esperimento atomico e disponeva di un'evidente superiorità nelle forze convenzionali.
De Gasperi temeva l'atteggiamento dei comunisti italiani, che certo non erano disposti a combattere contro l'Armata rossa ed anzi potevano costituirne la «quinta colonna». Lo preoccupava inoltre l'effetto inflazionistico di un forte aumento delle spese militari, proprio nel momento in cui stava mettendo in cantiere la riforma agraria e la Cassa del Mezzogiorno.
Di fronte alla determinazione del presidente americano Harry Truman, che vedeva la crisi coreana come una seconda Pearl Harbor, il capo del governo pensava che il nostro Paese dovesse tenere un profilo basso. Disse al ministro degli Esteri Carlo Sforza, in un colloquio del 10 luglio 1950, di sospendere la domanda di ammissione dell'Italia alle Nazioni Unite. Infatti in Corea le forze occidentali operavano sotto la bandiera dell'Onu e, a suo parere, un ingresso al Palazzo di Vetro avrebbe potuto «recarci imbarazzi e forse partecipazione nel Pacifico». Quando poi gli americani ci chiesero di contribuire allo sforzo bellico in Asia, almeno con una nave scorta, De Gasperi fece orecchio da mercante, nonostante le sollecitazioni dell'ambasciatore a Washington, Alberto Tarchiani. L'unico risultato delle pressioni statunitensi fu che all'inizio del 1951 la Croce Rossa italiana inviò in Corea un piccolo ospedale da campo.
A preoccupare De Gasperi non era solo il rischio di un coinvolgimento in Asia, ma anche la prospettiva della corsa agli armamenti in Europa. Il 14 agosto 1950 scrive a Sforza dalla sua residenza estiva a Sella di Valsugana, sottolineando il rischio che i nuovi impegni militari risultino incompatibili con il trattato di pace e comunque troppo onerosi per l'Italia. E chiede che siano ripartiti tra i vari Paesi occidentali in proporzione al reddito e al potenziale industriale.
Come osserva Ballini, lo statista trentino deprecava l'atteggiamento di chi pareva ormai considerare inevitabile un nuovo conflitto. In un appunto di fine 1950 la sua posizione emerge con chiarezza. De Gasperi definisce la guerra contro i Paesi dell'Est «un rischio gravissimo» e prevede che sarebbe «certamente perduta» prima del riarmo tedesco. Ma anche se lo scontro riuscirà vittorioso per l'Occidente, aggiunge, «sarà perduta la pace, cioè soccomberà il regime democratico », perché l'eventuale urto con il blocco sovietico «disarmerà e prostrerà la borghesia democratica, armerà le insurrezioni interne». La situazione italiana ed europea gli appare dunque troppo fragile per rischiare «qualsiasi forma di guerra preventiva o di resa dei conti». Conviene piuttosto guadagnare tempo e «preparare le possibilità di difesa». Nel testo degasperiano la parola «difesa » è sottolineata, a marcare la convinzione che, come aveva scritto a Sforza il 16 agosto, un conflitto armato con Mosca fosse ipotizzabile solo se «proprio imposto da un attacco diretto» dell'Armata rossa. «In America lo devono capire», aggiungeva.
Sarebbe una forzatura dire, sulla base di queste carte, che De Gasperi non avrebbe approvato la dottrina Bush sulla guerra preventiva e l'intervento in Iraq. Tuttavia nelle sue parole si riflette il divario di sensibilità tra le due sponde dell'Atlantico sulle questioni belliche, riemerso con forza dopo l'11 settembre. Sempre nell'appunto di fine 1950 lo statista trentino si stupisce «che gli americani non comprendano come il ricordo della recente guerra in Europa sia accompagnato da un senso di orrore». In fondo è lo stesso concetto che il neoconservatore Robert Kagan, molti anni dopo, avrebbe espresso dicendo che «gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere».
Lo storico fiorentino sta preparando un saggio sul periodo 1948-54 nell'ambito di una biografia a più voci del grande statista promossa dalla Fondazione De Gasperi. E ha esaminato lettere e appunti scritti dal politico trentino subito dopo lo scoppio della guerra di Corea. Nell'estate del 1950, mentre le truppe comuniste di Kim Il Sung dilagavano al Sud e gli americani, ottenuto il via libera dell'Onu grazie all'assenza del rappresentante sovietico dal Consiglio di sicurezza, si preparavano a rintuzzare l'aggressione con lo sbarco di Inchon, il presidente del Consiglio italiano si mostrava angosciato per il pericolo, all'apparenza nient'affatto remoto, che un conflitto analogo esplodesse in Europa. D'altronde, l'Urss aveva realizzato nel 1949 il suo primo esperimento atomico e disponeva di un'evidente superiorità nelle forze convenzionali.
De Gasperi temeva l'atteggiamento dei comunisti italiani, che certo non erano disposti a combattere contro l'Armata rossa ed anzi potevano costituirne la «quinta colonna». Lo preoccupava inoltre l'effetto inflazionistico di un forte aumento delle spese militari, proprio nel momento in cui stava mettendo in cantiere la riforma agraria e la Cassa del Mezzogiorno.
Di fronte alla determinazione del presidente americano Harry Truman, che vedeva la crisi coreana come una seconda Pearl Harbor, il capo del governo pensava che il nostro Paese dovesse tenere un profilo basso. Disse al ministro degli Esteri Carlo Sforza, in un colloquio del 10 luglio 1950, di sospendere la domanda di ammissione dell'Italia alle Nazioni Unite. Infatti in Corea le forze occidentali operavano sotto la bandiera dell'Onu e, a suo parere, un ingresso al Palazzo di Vetro avrebbe potuto «recarci imbarazzi e forse partecipazione nel Pacifico». Quando poi gli americani ci chiesero di contribuire allo sforzo bellico in Asia, almeno con una nave scorta, De Gasperi fece orecchio da mercante, nonostante le sollecitazioni dell'ambasciatore a Washington, Alberto Tarchiani. L'unico risultato delle pressioni statunitensi fu che all'inizio del 1951 la Croce Rossa italiana inviò in Corea un piccolo ospedale da campo.
A preoccupare De Gasperi non era solo il rischio di un coinvolgimento in Asia, ma anche la prospettiva della corsa agli armamenti in Europa. Il 14 agosto 1950 scrive a Sforza dalla sua residenza estiva a Sella di Valsugana, sottolineando il rischio che i nuovi impegni militari risultino incompatibili con il trattato di pace e comunque troppo onerosi per l'Italia. E chiede che siano ripartiti tra i vari Paesi occidentali in proporzione al reddito e al potenziale industriale.
Come osserva Ballini, lo statista trentino deprecava l'atteggiamento di chi pareva ormai considerare inevitabile un nuovo conflitto. In un appunto di fine 1950 la sua posizione emerge con chiarezza. De Gasperi definisce la guerra contro i Paesi dell'Est «un rischio gravissimo» e prevede che sarebbe «certamente perduta» prima del riarmo tedesco. Ma anche se lo scontro riuscirà vittorioso per l'Occidente, aggiunge, «sarà perduta la pace, cioè soccomberà il regime democratico », perché l'eventuale urto con il blocco sovietico «disarmerà e prostrerà la borghesia democratica, armerà le insurrezioni interne». La situazione italiana ed europea gli appare dunque troppo fragile per rischiare «qualsiasi forma di guerra preventiva o di resa dei conti». Conviene piuttosto guadagnare tempo e «preparare le possibilità di difesa». Nel testo degasperiano la parola «difesa » è sottolineata, a marcare la convinzione che, come aveva scritto a Sforza il 16 agosto, un conflitto armato con Mosca fosse ipotizzabile solo se «proprio imposto da un attacco diretto» dell'Armata rossa. «In America lo devono capire», aggiungeva.
Sarebbe una forzatura dire, sulla base di queste carte, che De Gasperi non avrebbe approvato la dottrina Bush sulla guerra preventiva e l'intervento in Iraq. Tuttavia nelle sue parole si riflette il divario di sensibilità tra le due sponde dell'Atlantico sulle questioni belliche, riemerso con forza dopo l'11 settembre. Sempre nell'appunto di fine 1950 lo statista trentino si stupisce «che gli americani non comprendano come il ricordo della recente guerra in Europa sia accompagnato da un senso di orrore». In fondo è lo stesso concetto che il neoconservatore Robert Kagan, molti anni dopo, avrebbe espresso dicendo che «gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere».
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