Da Corriere della Sera del 30/06/2007
Tre delitti nell'ultimo anno consentono di ridisegnare gli equilibri mafiosi. Salvatore, con il figlio Sandro, al vertice di Cosa Nostra
Lo Piccolo, l'erede di Provenzano. Così sta conquistando Palermo
L'alleanza tra il nuovo boss e gli «scappati» rientrati dagli Usa
di Giovanni Bianconi
PALERMO — C'è qualcuno che ha sentito il morto chiamare un nome, mentre tentava la fuga e prima di cadere ammazzato da sei colpi di calibro 9. «Sandro!», avrebbe esclamato Nicola Ingarao quando ha capito di essere finito in trappola, boss mafioso ucciso da mano mafiosa la mattina di mercoledì 13 giugno, in una strada palermitana del quartiere Noce. Aveva 46 anni, Ingarao, scarcerato per scadenza termini a novembre, obbligo di firma al posto di polizia da dove era appena uscito quando l'hanno assassinato.
Vera, verosimile o inventata che sia, quella confidenza sul nome pronunciato dalla vittima arrivata dalla rete di informatori sul territorio, è di certo suggestiva. Perché fa pensare a Sandro Lo Piccolo, latitante trentaduenne con un ergastolo da scontare e figlio del più noto Salvatore, boss ricercato dal '98 e considerato il nuovo capo di Cosa Nostra a Palermo dopo l'arresto di Bernardo Provenzano. Dall'originario controllo sul quartiere periferico di Tommaso Natale i Lo Piccolo hanno guadagnato terreno verso la città, contando su un folto e apparentemente inesauribile esercito di «soldati» reclutati nella borgata dello Zen.
Chissà se in futuro si accerterà, ma oggi è impossibile dire se nel commando che ha ucciso Ingarao c'era anche Sandro Lo Piccolo. Di certo l'omicidio ha rafforzato la leadership di quella famiglia all'interno della mafia, probabilmente non solo a Palermo. Perché Ingarao era uomo di fiducia di Nino Rotolo e degli altri boss di stretta osservanza corleonese arrestati un anno fa nell'operazione di polizia chiamata «Gotha», opposti ai Lo Piccolo non solo per questioni di predominanza, ma pure nella questione che divide Cosa Nostra da almeno due anni, della quale era stato investito pure Provenzano che come sempre prendeva tempo: che fare con gli «scappati» in America, cioè gli eredi della famiglia Inzerillo, tornati in Sicilia dopo oltre un ventennio d'esilio?
Per Rotolo e i suoi compari non c'era discussione: la cupola di Riina e soci ne aveva deciso lo sterminio o l'allontanamento perenne, e quella sentenza va rispettata. Per Lo Piccolo, invece, si tratta di storia vecchia, e gli Inzerillo tornati a Palermo — a cominciare da Rosario detto Sarino e Francesco chiamato Franco 'u truttaturi
— hanno pieno diritto di restare; la mattanza dei loro fratelli Totuccio (ucciso a Palermo nel maggio '81), Santo, morto di «lupara bianca» pochi giorni dopo e Pietro, assassinato a Philadelphia nel gennaio '82, poteva bastare. Gli «scappati» insomma, con il loro bagaglio di soldi da investire e di canali «commerciali» con gli Stati Uniti, sarebbero dietro, se non al fianco, dei Lo Piccolo nell'opera di espansione su Palermo e provincia. Che passa pure per l'omicidio Ingarao. «Sandro!» o non «Sandro!». Perché il centralissimo mandamento di Porta Nuova — di cui Totò Riina fece omaggio a Pippo Calò negli anni 80 — che Rotolo aveva affidato a Ingarao e che adesso andrà in mani certamente non ostili a Lo Piccolo, copre un settore strategico della città e molto redditizio: per via della quantità di commercianti che pagano il pizzo e per i lavori che ospita, con annessi appalti e subappalti.
Stando ai commenti tra mafiosi intercettati dalle microspie e riferiti dagli informatori, quella di Ingarao assomiglia molto a una morte annunciata; dai discorsi degli uomini d'onore traspare tranquillità e nessuna sorpresa. Nonostante l'esemplarità dell'esecuzione. C'è chi racconta che la vittima aveva evitato un appuntamento perché temeva che non sarebbe più tornato, e se fosse vero la scelta di ucciderlo in strada sarebbe un ulteriore segnale di potenza. Ingarao era già stato indebolito dal recente arresto del cognato Angelo Monti, accusato di estorsioni e altre attività mafiose nella zona di Borgo vecchio, e dall'uscita di galera del «concorrente» sul mandamento Tommaso Lo Presti.
Diceva il pentito Totò Cancemi che per interpretare un delitto di mafia bisogna guardare a ciò che accade nel mese successivo. Anche se è ancora presto, dopo la morte di Ingarao non solo non è accaduto nulla, ma non si registrano movimenti che fanno pensare a una nuova «guerra». Ovviamente gli investigatori e i magistrati sono cauti, ma se si raccogliessero scommesse nessuno punterebbe su una vendetta contro Lo Piccolo. Perché dopo l'operazione «Gotha» che ha portato in carcere il triunvirato che pensava di continuare la tradizione corleonese (Rotolo, Cinà e Bonura) e gran parte del suo esercito, non sembra esserci in circolazione qualcuno in grado di sfidare i Lo Piccolo. Sul piano militare, prima ancora che degli agganci con la politica, le istituzioni e l'economia locale. Forse potrebbero provarci il boss trapanese Matteo Messina Denaro e quello di Altofonte Mimmo Raccuglia, seppure con peso diverso, ma in questo momento non avrebbero interesse a farlo.
L'eliminazione del capomandamento di Porta Nuova non è il primo omicidio che rafforza i Lo Piccolo. Ad agosto dello scorso anno, nel centro del borgo marinaro di Sferracavallo, fu assassinato un pensionato di 63 anni che non aveva nessun legame accertato con Cosa Nostra. Un agguato in pieno giorno, eseguito da due killer in moto davanti a decine di testimoni, che fece da preludio a una «scomparsa» meno eclatante ma molto più rumorosa: quella del settantaduenne Lino Spatola, uscito di galera al termine di una lunga condanna per mafia e che forse aveva intenzione di riconquistare un po' di autorità in quella zona divenuta il regno di Lo Piccolo. Per quella «lupara bianca» gli inquirenti hanno pochi dubbi ad attribuirla a padre e figlio. Negli anni Settanta Salvatore Lo Piccolo era l'autista di Lino Spatola, legato ai Bontate e agli Inzerillo che spadroneggiavano in città finché Riina non decise di sterminarli. Un vincolo forte e antico che, se sono vere le ipotesi investigative, non ha impedito a Lo Piccolo di deciderne l'eliminazione.
Allo stesso modo, a gennaio 2006 un'altra «lupara bianca» ha colpito Giovanni Bonanno, che nei due anni precedenti ebbe la «reggenza» del mandamento mafiosi di Resuttana.
Aveva 35 anni, Bonanno, e di lui è rimasto solo il motorino col quale era andato all'ultimo appuntamento. Di recente le indagini sono sfociate in un ordine d'arresto con l'accusa di omicidio e occultamento di cadavere per Salvatore Lo Piccolo, Nino Rotolo e Agostino Cinà. Nemici che insieme avrebbero pianificato e fatto eseguire l'eliminazione di Bonanno, perché faceva la cresta sulle estorsioni, non mandava i soldi dovuti ai detenuti e ai loro familiari, non era più affidabile.
«Minchia quel cornuto... — diceva Cinà a Rotolo di Bonanno —. È un carabiniere...
Se li è presi tutti questi soldi... È un cornuto e sbirro proprio!». E Lo Piccolo ha scritto a Provenzano, all'epoca ancora latitante, un mese dopo la scomparsa, in un «pizzino » trovato nel rifugio corleonese del boss: «Purtroppo non c'è stato modo di scegliere altre soluzioni. Tentativi per non arrivare a brutte cose se ne sono fatti parecchi, ma non è servito lo stesso a niente. A questo punto abbiamo dovuto prendere questa amara decisione...».
Nell'eliminare Bonanno, Lo Piccolo e Rotolo erano d'accordo, nonostante i contrasti su tante altre vicende. A commettere l'omicidio doveva essere proprio Nicola Ingarao con Gianni Nicchi, giovane rampollo figlio di ergastolano che chiamava Rotolo «padrino», considerato già un killer provetto, oggi latitante. Ma Ingarao non fece in tempo perché fu arrestato, Bonanno venne ucciso da altri. Poi Rotolo e Cinà sono finiti in carcere e Lo Piccolo s'è trovato campo libero. Adesso che pure Ingarao è morto ammazzato, a Palermo c'è chi dice che Nicchi, piuttosto che a organizzare la vendetta, pensi a salvarsi la pelle. L'altro giorno il procuratore nazionale antimafia Grasso ha lanciato un appello ai mafiosi in fuga: «Qualcuno corre pericoli e lo Stato offre delle possibilità». Grasso non ha fatto nomi, ma è molto probabile che si riferisse proprio a Nicchi, una delle pedine che ancora non sono cadute nello scacchiere mafioso dei Lo Piccolo e dei loro alleati «americani ».
Vera, verosimile o inventata che sia, quella confidenza sul nome pronunciato dalla vittima arrivata dalla rete di informatori sul territorio, è di certo suggestiva. Perché fa pensare a Sandro Lo Piccolo, latitante trentaduenne con un ergastolo da scontare e figlio del più noto Salvatore, boss ricercato dal '98 e considerato il nuovo capo di Cosa Nostra a Palermo dopo l'arresto di Bernardo Provenzano. Dall'originario controllo sul quartiere periferico di Tommaso Natale i Lo Piccolo hanno guadagnato terreno verso la città, contando su un folto e apparentemente inesauribile esercito di «soldati» reclutati nella borgata dello Zen.
Chissà se in futuro si accerterà, ma oggi è impossibile dire se nel commando che ha ucciso Ingarao c'era anche Sandro Lo Piccolo. Di certo l'omicidio ha rafforzato la leadership di quella famiglia all'interno della mafia, probabilmente non solo a Palermo. Perché Ingarao era uomo di fiducia di Nino Rotolo e degli altri boss di stretta osservanza corleonese arrestati un anno fa nell'operazione di polizia chiamata «Gotha», opposti ai Lo Piccolo non solo per questioni di predominanza, ma pure nella questione che divide Cosa Nostra da almeno due anni, della quale era stato investito pure Provenzano che come sempre prendeva tempo: che fare con gli «scappati» in America, cioè gli eredi della famiglia Inzerillo, tornati in Sicilia dopo oltre un ventennio d'esilio?
Per Rotolo e i suoi compari non c'era discussione: la cupola di Riina e soci ne aveva deciso lo sterminio o l'allontanamento perenne, e quella sentenza va rispettata. Per Lo Piccolo, invece, si tratta di storia vecchia, e gli Inzerillo tornati a Palermo — a cominciare da Rosario detto Sarino e Francesco chiamato Franco 'u truttaturi
— hanno pieno diritto di restare; la mattanza dei loro fratelli Totuccio (ucciso a Palermo nel maggio '81), Santo, morto di «lupara bianca» pochi giorni dopo e Pietro, assassinato a Philadelphia nel gennaio '82, poteva bastare. Gli «scappati» insomma, con il loro bagaglio di soldi da investire e di canali «commerciali» con gli Stati Uniti, sarebbero dietro, se non al fianco, dei Lo Piccolo nell'opera di espansione su Palermo e provincia. Che passa pure per l'omicidio Ingarao. «Sandro!» o non «Sandro!». Perché il centralissimo mandamento di Porta Nuova — di cui Totò Riina fece omaggio a Pippo Calò negli anni 80 — che Rotolo aveva affidato a Ingarao e che adesso andrà in mani certamente non ostili a Lo Piccolo, copre un settore strategico della città e molto redditizio: per via della quantità di commercianti che pagano il pizzo e per i lavori che ospita, con annessi appalti e subappalti.
Stando ai commenti tra mafiosi intercettati dalle microspie e riferiti dagli informatori, quella di Ingarao assomiglia molto a una morte annunciata; dai discorsi degli uomini d'onore traspare tranquillità e nessuna sorpresa. Nonostante l'esemplarità dell'esecuzione. C'è chi racconta che la vittima aveva evitato un appuntamento perché temeva che non sarebbe più tornato, e se fosse vero la scelta di ucciderlo in strada sarebbe un ulteriore segnale di potenza. Ingarao era già stato indebolito dal recente arresto del cognato Angelo Monti, accusato di estorsioni e altre attività mafiose nella zona di Borgo vecchio, e dall'uscita di galera del «concorrente» sul mandamento Tommaso Lo Presti.
Diceva il pentito Totò Cancemi che per interpretare un delitto di mafia bisogna guardare a ciò che accade nel mese successivo. Anche se è ancora presto, dopo la morte di Ingarao non solo non è accaduto nulla, ma non si registrano movimenti che fanno pensare a una nuova «guerra». Ovviamente gli investigatori e i magistrati sono cauti, ma se si raccogliessero scommesse nessuno punterebbe su una vendetta contro Lo Piccolo. Perché dopo l'operazione «Gotha» che ha portato in carcere il triunvirato che pensava di continuare la tradizione corleonese (Rotolo, Cinà e Bonura) e gran parte del suo esercito, non sembra esserci in circolazione qualcuno in grado di sfidare i Lo Piccolo. Sul piano militare, prima ancora che degli agganci con la politica, le istituzioni e l'economia locale. Forse potrebbero provarci il boss trapanese Matteo Messina Denaro e quello di Altofonte Mimmo Raccuglia, seppure con peso diverso, ma in questo momento non avrebbero interesse a farlo.
L'eliminazione del capomandamento di Porta Nuova non è il primo omicidio che rafforza i Lo Piccolo. Ad agosto dello scorso anno, nel centro del borgo marinaro di Sferracavallo, fu assassinato un pensionato di 63 anni che non aveva nessun legame accertato con Cosa Nostra. Un agguato in pieno giorno, eseguito da due killer in moto davanti a decine di testimoni, che fece da preludio a una «scomparsa» meno eclatante ma molto più rumorosa: quella del settantaduenne Lino Spatola, uscito di galera al termine di una lunga condanna per mafia e che forse aveva intenzione di riconquistare un po' di autorità in quella zona divenuta il regno di Lo Piccolo. Per quella «lupara bianca» gli inquirenti hanno pochi dubbi ad attribuirla a padre e figlio. Negli anni Settanta Salvatore Lo Piccolo era l'autista di Lino Spatola, legato ai Bontate e agli Inzerillo che spadroneggiavano in città finché Riina non decise di sterminarli. Un vincolo forte e antico che, se sono vere le ipotesi investigative, non ha impedito a Lo Piccolo di deciderne l'eliminazione.
Allo stesso modo, a gennaio 2006 un'altra «lupara bianca» ha colpito Giovanni Bonanno, che nei due anni precedenti ebbe la «reggenza» del mandamento mafiosi di Resuttana.
Aveva 35 anni, Bonanno, e di lui è rimasto solo il motorino col quale era andato all'ultimo appuntamento. Di recente le indagini sono sfociate in un ordine d'arresto con l'accusa di omicidio e occultamento di cadavere per Salvatore Lo Piccolo, Nino Rotolo e Agostino Cinà. Nemici che insieme avrebbero pianificato e fatto eseguire l'eliminazione di Bonanno, perché faceva la cresta sulle estorsioni, non mandava i soldi dovuti ai detenuti e ai loro familiari, non era più affidabile.
«Minchia quel cornuto... — diceva Cinà a Rotolo di Bonanno —. È un carabiniere...
Se li è presi tutti questi soldi... È un cornuto e sbirro proprio!». E Lo Piccolo ha scritto a Provenzano, all'epoca ancora latitante, un mese dopo la scomparsa, in un «pizzino » trovato nel rifugio corleonese del boss: «Purtroppo non c'è stato modo di scegliere altre soluzioni. Tentativi per non arrivare a brutte cose se ne sono fatti parecchi, ma non è servito lo stesso a niente. A questo punto abbiamo dovuto prendere questa amara decisione...».
Nell'eliminare Bonanno, Lo Piccolo e Rotolo erano d'accordo, nonostante i contrasti su tante altre vicende. A commettere l'omicidio doveva essere proprio Nicola Ingarao con Gianni Nicchi, giovane rampollo figlio di ergastolano che chiamava Rotolo «padrino», considerato già un killer provetto, oggi latitante. Ma Ingarao non fece in tempo perché fu arrestato, Bonanno venne ucciso da altri. Poi Rotolo e Cinà sono finiti in carcere e Lo Piccolo s'è trovato campo libero. Adesso che pure Ingarao è morto ammazzato, a Palermo c'è chi dice che Nicchi, piuttosto che a organizzare la vendetta, pensi a salvarsi la pelle. L'altro giorno il procuratore nazionale antimafia Grasso ha lanciato un appello ai mafiosi in fuga: «Qualcuno corre pericoli e lo Stato offre delle possibilità». Grasso non ha fatto nomi, ma è molto probabile che si riferisse proprio a Nicchi, una delle pedine che ancora non sono cadute nello scacchiere mafioso dei Lo Piccolo e dei loro alleati «americani ».
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