Da La Repubblica del 03/09/2007

La memoria

Vi racconto il mio Dalla Chiesa

di Giorgio Bocca

Per gli italiani il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato un uomo esemplare, tutto di un pezzo, servitore dello Stato e padre affettuoso, figlio e fratello di carabinieri, un italiano come non ce sono più, da ricordare alle nuove generazioni con rimpianto, da commemorare nei libri di scuola, da onorare nella memoria.
Sì, Dalla Chiesa è stato tutto questo, anche se spesso così poco conosciuto dai suoi concittadini. E´ stato un uomo sorprendente per me che lo seguivo nelle sue imprese di grande poliziotto. Un uomo tutt´altro che semplice, ma di una ambiguità – una nobile ambiguità – sorprendente. Gli piaceva a volte essere un retore, diceva di avere gli alamari dell´arma stampati sulla pelle, si definiva un fedelissimo servitore dello Stato, ma per servirlo nella guerra alle Brigate Rosse aveva chiesto e ottenuto di avere una forza speciale, composita, di uomini scelti da lui fra i carabinieri ma anche in altre armi, liberi di usare metodi polizieschi eccezionali, insieme tecnici e psicologici, un corpo capace di sorprendere per fantasia e iniziativa anche i più audaci sovversivi. Così l´uomo d´ordine e di tradizione esemplari si trasformava in un capitano di ventura, in un cavaliere senza macchia e senza paura.
Era imprevedibile, Dalla Chiesa. Uomo d´armi, di opere coraggiose, di dure discipline eppure attratto dalle emozioni della vita, dal piacere di sentirsi giovane vicino alla moglie che, poi, sarebbe morta con lui nell´agguato di Palermo. Era un militare che si occupava di cose serie, su cui non scherzare, ma che non rinunciava all´ironia, alla battuta dissacrante. Lo incontrai per la prima volta a Palermo negli anni Sessanta: io dovevo fare un´inchiesta sulla mafia, lui era un giovane ufficiale in una caserma dei carabinieri. Mi venne incontro sorridendo: «Ma come anche lei crede che la mafia esista?», diceva. Era – il nostro – un modo paradossale ma drammatico di due piemontesi che parlavano di un nemico incomprensibile e invincibile.
Dalla Chiesa era assieme uomo clemente e impietoso, era il grande poliziotto che riconciliava i figli sovversivi con i padri ma anche il repressore inflessibile della rivolta nel carcere di Alessandria o del covo genovese delle Br. Non aveva esitazioni e ripensamenti nell´esercizio del suo dovere ma era anche attaccato alla vita e alle sue dolcezze: mi accompagnava all´aereo con cui da Palermo sarei tornato a Milano – dall´inferno alla salvezza – mormorando «beato lei che può andarsene». Era l´uomo che pure vivendo nella più implacabile serietà amava scherzare e sapeva stare allo scherzo. Come quella volta che fece raccontare dai giornali che aveva arrestato Curcio a Pinerolo di sorpresa mentre io scrivevo che non era vero e che aveva usato per attirarlo nell´agguato «frate mitra», il sacerdote avventuriero Girotto.
Dalla Chiesa era un signore prudentissimo e astuto sfuggito a cento agguati ma che per fare l´eroe davanti alla giovane moglie si avventurava con lei su un´auto nella notte di Palermo. Lo stesso che, arrivando a sorpresa ad una festa in una casa della Milano «da bere» ricca e felice, si divertiva a vedere le facce stupite e spaventate di coloro a cui lo presentavo d´improvviso. Quel generale tutto concretezza e cinismo sapeva fare ai giovani discorsi ingenui ed evangelici, sui vantaggi dell´onestà e delle buone azioni, credendoci. E credeva che anche la mafia sarebbe stata vinta dai buoni esempi e dalle buone intenzioni. Siccome in qualche singolare modo piemontese lo sentivo simile, mezzo sergente di ferro e mezzo cuore dolce, gli ero affezionato. E anche grato.

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