Da Panorama del 08/11/2007
Originale su http://blog.panorama.it/italia/2007/11/08/moby-prince-il-testimone-and...

Moby Prince, il testimone Andreotti e la pilotina fantasma

di Nadia Francalacci

Che cosa c’entra Giulio Andreotti con l’inchiesta sulla tragedia della Moby Prince nel porto di Livorno che 16 anni fa causò 140 vittime? Il senatore a vita (al tempo del disastro presidente del Consiglio) è stato sentito a Roma, nel suo ufficio, il 3 luglio scorso. Ad interrogarlo come persona informata dei fatti, il pm Antonio Giaconi della Procura della Repubblica di Livorno dopo la riapertura delle indagini avvenuta poco più di un anno fa. Si torna dunque ad indagare, dopo tanti anni di silenzio e misteri, sul traghetto della flotta Onorato che la sera del 10 aprile 1991 dopo la collisione con la petroliera Agip Abruzzo, bruciò completamente. Nel rogo morirono tutto l’equipaggio e tutti i passeggeri diretti in Sardegna. Un’indagine difficile che si snoda tra barche fantasma, carichi di armi, movimenti di militari troppo vicini al luogo dell’incidente dopo che la precedente inchiesta (finita senza responsabili) era stata caratterizzata da omissioni, dichiarazioni false e documenti misteriosamente scomparsi. La più grave tragedia della marineria italiana sembra pericolosamente avvicinarsi a un caso “Ustica del mare”.

La riapertura del procedimento penale era stata chiesta dall’avvocato Carlo Palermo, legale dei figli del comandante del Moby Prince Ugo Chessa. Ci sono nuovi elementi che questa volta potrebbero portare alla verità spiegando non solo come è avvenuta la collisione ma anche il perché i soccorsi hanno “abbandonato”per ore in fiamme il traghetto nel porto di Livorno.

Una parte della ricostruzione di quella drammatica notte del 10 aprile 1991 si arricchisce di nuovi particolari che Panorama.it è in grado di rivelare attraverso la testimonianza di un personaggio ascoltato dalla procura, nelle settimane successive al 17 ottobre 2006, quando è stato ufficialmente riaperto il caso. Secondo questa fonte, non furono gli ormeggiatori a raggiungere per primi il Moby Prince in fiamme, come si era sempre pensato. Quando dopo due ore circa dalla collisione con la petroliera Agip Abruzzo i soccorsi si avvicinarono finalmente al traghetto che era ormai in fiamme alla deriva nella rada del porto di Livorno, c’era già una pilotina nera, di circa sette metri, con tre persone a bordo. Era ferma, con il motore spento, al centro del lato sinistro della nave. I tre uomini, due di circa quarantacinque anni e uno molto più giovane al timone, stavano osservando lo scafo mentre bruciava. Secondo quanto risulta a Panorama.it quando i primi soccorritori (ovvero una imbarcazione degli ormeggiatori del porto, un rimorchiatore della ditta Fratelli Neri e una motovedetta della Guardia di Finanza), finalmente si avvicinarono al traghetto, videro la pilotina e tentarono di parlare con gli occupanti per sapere se avessero avvisato la capitaneria o visto superstiti, questi accesero i motori e senza parlare, si spostarono di alcuni metri avvicinandosi ancora di più alla Moby Prince, prima di sparire nel nulla. E proprio mentre gli ormeggiatori stavano portando in salvo l’unico superstite del disastro, il mozzo Alessio Bertrand, la pilotina fece perdere definitivamente le sue tracce. Poco dopo, dalla prua del traghetto tre lingue di fuoco seguite da tre esplosioni hanno distrutto e incendiato completamente il Moby Prince. La Procura di Livorno non commenta la presenza della pilotina e dei suoi tre occupanti la. Ma il procuratore Antonio Giaconi, interpellato da Panorama.it, si è limitato a dire che “in questo momento delle indagini la procura non può parlare di questa tragedia”. Non è una conferma, ma nemmeno una smentita.
Ritorniamo alle ore concitate del 10 aprile 1991. In quei momenti, come ricorda la fonte, fu ritenuto prioritario cercare di mettere in salvo eventuali superstiti e dare l’allarme alla Capitaneria di Porto piuttosto che cercare di identificare quella piccola imbarcazione. Certo, era più importante chiamare i soccorsi che per quasi due ore si erano concentrati sulla petroliera Agip Abruzzo ignorando la nave passeggeri. Nessuno, da quella pilotina fantasma, aveva lanciato richiesta di intervento per il traghetto in fiamme, né aveva segnalato la presenza di passeggeri che si potevano mettere in salvo. Le perizie effettuate nel corso della prima inchiesta aperta immediatamente dopo il disastro hanno spiegato che le 140 persone sono morte asfissiate e carbonizzate dopo molte ore di agonia. Indagini, estremamente complesse ostacolate negli anni da tante mezze testimonianze e spesso contraddittorie, da documenti che sono stati distrutti o fatti sparire e che non hanno mai permesso di far capire che cosa sia realmente avvenuto quella sera nel porto di Livorno dove regnava il caos, mentre il Moby Prince percorreva come altre centinaia di volte la rotta verso Olbia. Dagli atti della prima indagine, come da inchieste giornalistiche e libri scritti su questa tragedia (tra tutti quello di Enrico Fedrighini Moby Prince, un caso ancora aperto), quella sera del 10 aprile 1991, c’erano molte, troppe navi alla fonda, bettoline che facevano rifornimento, imbarcazioni ufficialmente in riparazione ma che lasciarono immediatamente ed inspiegabilmente il porto subito dopo la collisione, barche di pescatori e navi militari americane cariche di armi provenienti dal Golfo Persico dove si era appena conclusa l’operazione Desert Storm.
In un documento ufficiale allegato agli atti del processo ma che si è dimostrato inesatto e incompleto, il comandante del Terminal trasporti militari Usa a Livorno, il tenente colonnello Jan Harpole aveva ammesso che in quella primavera del 1991, da alcune settimane, nel porto toscano c’erano ancorate navi militari battenti bandiera statunitense che movimentavano armi. E anche il 10 aprile si registrarono movimenti di forniture belliche da imbarcate su una delle navi militari americane alla fonda. Panorama.it è in grado di raccontare dopo aver avuto la possibilità di visionare alcuni documenti ufficiali che l’ultimo carico proveniente dalla base Usa, effettuato sulla motonave Cape Flattery, era avvenuto alle 15.30 circa. Il materiale bellico attraversò il canale dei Navicelli fino all’imboccatura nord del porto, davanti a Calambrone, dove era alla fonda la nave americana, sulle chiatte n° dsll540787 e la n° dsll540862. Erano trainate dai rimorchiatori Garelli e Cadetto della ditta Fratelli Neri. Altri carichi erano stati effettuati alcuni giorni prima, il 6 aprile, sempre a bordo della motonave Flattery (le chiatte n°PL-I-0595 e n°dsll 533980) e altre movimentazioni, riguardarono anche la Cape Farewell (in uno dei documenti visionati da Panorama.it è riportato il nome, probabilmente errato Cape Rarawell) ormeggiata alla Darsena Toscana, un altro approdo nel porto di Livorno. L’ultimo carico di armi iniziato alle 7 del mattino del 10 aprile 1991 era terminato nel primo pomeriggio. Dalle 15.30 al momento della collisione, ovvero le 22 e 27 minuti, nelle acque del porto non avrebbero dovuto esserci ufficialmente altre armi in circolazione.
Ma allora perché, al momento della collisione, c’erano molte imbarcazioni nel porto che non hanno voluto lasciare tracce ufficiali del loro passaggio ma che sono state viste e descritte dai testimoni o di cui si sono sentite brevi e frammentarie comunicazioni via radio mentre si allontanavano frettolosamente dalle acque livornesi? E la pilotina nera, lunga circa sette metri, giunta per prima al fianco della nave passeggeri, che cosa faceva vicino al Moby Prince? Da dove arrivava? Chi erano i tre uomini a bordo: civili o militari, italiani o stranieri? Sono saliti a bordo del Moby? E se sì, perché? Era forse stato imbarcato qualcosa diretto in Sardegna che non doveva essere ritrovato dai soccorritori? Domande che aprono scenari che rischiano di essere fantasiosi ma inquietanti su cui la procura di Livorno vuole fugare ogni dubbio.
Per questo, dopo aver riascoltato i testimoni di quella sera, militari e civili , il pm ha raccolto anche la testimonianza di Andreotti. Obiettivo? Chiarire con l’allora presidente del Consiglio quali fossero a quel tempo i rapporti con gli Usa, il ruolo di Camp Darby e se vi era stata una movimentazione di armi oltre quella ufficiale di cui il Governo italiano era a conoscenza. Ma come ha spiegato anche a Panorama.it, il senatore pur avendo chiara in mente la tragedia del Moby Prince “non ricorda e non ha elementi per poter interloquire”. Ed infatti, al breve incontro avuto con il magistrato livornese, il senatore Andreotti ha fatto seguire una dichiarazione scritta che ha inviato proprio in questi giorni dove descrive i fatti di cui fu informato e che, a distanza di tanti anni, è in grado di ricordare. Un documento che si unisce alle prime relazioni sulla tragedia stilate dal Sisde, che il pm il pm Giaconi aveva in parte già acquisito lo scorso 23 marzo a Roma, a cui molto presto si aggiungeranno i risultati delle nuove perizie disposte dalla Procura della Repubblica di Livorno.

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