Da Avvenire del 13/03/2008
rapimento Moro, gli omicidi di Guido Galli e Walter Tobagi, la scelta di battezzare i figli di due brigatisti... L'arcivescovo emerito di Milano ricorda il periodo della violenza contro lo Stato
Martini: i miei anni di piombo e di speranza
di Alessandro Zaccuri
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Dentro la città, a fianco degli uomini. Può essere sintetizzato così l'atteggiamento che il cardinale Carlo Maria Martini ha tenuto nei confronti del terrorismo, nei lunghi anni del suo magistero episcopale a Milano e, più di recente, nel suo soggiorno di studio e di preghiera a Gerusalemme. Terrorismi diversi, quello dei brigatisti italiani e quello degli estremisti islamici, indagati però con lo stesso sguardo lucido e sapiente. Una vicenda che il cardinal Martini accetta di ripercorrere, partendo dalla ricorrenza terribile ed emblematica del 16 marzo: il trentennale della strage di via Fani.
«Il giorno in cui giunse la notizia del rapimento di Moro e dell'uccisione delle guardie della sua scorta – ricorda – mi trovavo nella Curia generalizia dei Gesuiti di Roma, in riunione con il Padre generale e alcuni rettori delle università romane. Venne di corsa qualcuno e con grande affanno ci comunicò la notizia. Noi restammo increduli. Pareva impossibile che fosse accaduta una cosa simile. Ci impressionò in particolare l'uccisione dei 5 uomini della scorta. Poi, a poco a poco, dovemmo cedere all'evidenza e accettare quel drammatico evento».
La lettera agli uomini delle Brigate Rosse, l'omelia ai funerali dello statista: in che modo Paolo VI affrontò il «caso Moro»?
«Il Papa era personalmente amico di Aldo Moro e fu molto scosso dal rapimento e dalle susseguenti vicende che si conclusero con la sua uccisione. Si sentiva che Paolo VI cercava di comprendere nella fede le terribili sofferenze che doveva provare l'onorevole Moro e che gravavano su tutta la nazione. La sua omelia ai funerali fu davvero un atto di abbandono e di fiducia cieca in Dio. In essa si manifestò la grandezza d'animo del Papa e tutta la sua sofferenza».
A Milano la Curia arcivescovile si affaccia su piazza Fontana, dove il 12 dicembre 1969 si consumò l'attentato contro la Banca nazionale dell'Agricoltura. Una vicinanza che, al suo arrivo in città, continuava a pesare?
«Quando fui nominato arcivescovo erano già passati diversi anni da quel dicembre 1969 e nel frattempo erano purtroppo già avvenuti molti nuovi atti di terrorismo e omicidi. Ricordo che quando andai a visitare il cardinale Ballestrero prima di iniziare il mio ministero come arcivescovo a Milano, mi disse: 'Si prepari a celebrare tanti funerali'. Entrai in Milano con questa sofferenza nell'animo e ben presto ebbi la conferma di quelle parole».
In «Spingendo la notte più in là» Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, ha dato voce a quanti, negli anni di piombo, hanno sofferto per l'uccisione di una persona cara. È un primo passo nella direzione di una memoria condivisa?
«Ho sempre ammirato la persona di suo padre, ma non ho potuto sinora leggere il libro di Mario Calabresi. Ne ho sentito parlare come di un libro nel qua- le traspare con chiarezza la sofferenza incancellabile di chi è stato colpito nei suoi affetti dagli insani atti di terrorismo. Una memoria condivisa delle sofferenze delle vittime è molto importante perché permette di leggere la violenza nei suoi effetti più profondi e fa capire che nessuna ideologia può giustificarla. Qui a Gerusalemme sono venuto a conoscenza di una realtà che mette insieme persone israeliane e palestinesi, ciascuna delle quali ha avuto nella famiglia un lutto grave a causa della violenza. Queste persone si incontrano per comprendere la sofferenza l'uno dell'altro e insieme fanno passi importanti verso la accettazione mutua e la riconciliazione».
Il 19 marzo 1980, a poco più di un mese dal suo ingresso in diocesi, lei compì un gesto irrituale: si precipitò all'Università statale, dove era stato appena assassinato il magistrato Guido Galli, e pregò sul corpo della vittima. Come nacque quella decisione?
«Ricordo bene quel pomeriggio del 19 marzo 1980. Eravamo in riunione con tutti i collaboratori e fu data la notizia che un professore era stato ucciso nella vicina Università. Io sentii immediatamente l'impulso di alzarmi e di andare a pregare presso il corpo di questa persona, che giaceva ancora nel corridoio, coperto appena da un lenzuolo. Non so quale impulso abbia determinato questa decisione, ma mi parve una decisione necessaria. Bisognava partecipare da vicino alle sofferenze della gente e portare il conforto della preghiera ».
Fu la sua prima esperienza di «intercessione », quel frapporsi fisico tra aggredito e aggressore su cui è poi tornato spesso nella sua riflessione spirituale?
«Sì, quella fu probabilmente la mia prima esperienza pratica di 'intercessione' in un caso gravissimo. Ho poi potuto sviluppare ampiamente questo tema. Ricordo in particolare il grande raduno di preghiera in Duomo nel 1991 in occasione della imminente guerra contro l'Iraq. Lungo tutto il mio soggiorno a Gerusalemme ho riflettuto a lungo su questo tema e recentemente sono stato chiamato dall'Università ebraica di Gerusalemme a tenere una lezione su questo argomento nell'ambito di un convegno».
Un'altra data, il 28 maggio 1980. A cadere sotto i colpi dei terroristi fu Walter Tobagi, giornalista del «Corriere della Sera», cattolico impegnato. Lei ne celebrò i funerali. Che ricordo conserva di quei momenti?
«Ricordo benissimo quel 28 maggio 1980. Io ero a Roma, all'assemblea dei vescovi italiani. Subito sentii l'impulso a prendere la macchina e correre a Milano. Ero senza parole di fronte a tanta sofferenza. Ricordo che ai funerali, insieme al dolore, vedevo tanto coraggio e determinazione nella innumerevole folla accorsa. Milano voleva reagire con grande forza e con grande dignità. Non era la paura che dominava, ma la volontà di resistere. Ricordo molto bene anche il dolore e la grande compostezza dei familiari, lo smarrimento degli amici, il sincero cordoglio di tutti».
Nel 1984 il gruppo milanese di «Prima Linea» consegnò armi ed esplosivi in arcivescovado. Una dichiarazione di resa? Una richiesta di mediazione?
Non è facile interpretare ciò che avvenne nel 1984 con la consegna in arcivescovado di un grosso quantitativo di armi e di esplosivi. Penso che fu soprattutto una dichiarazione di resa, visto che proprio in quei giorni, incontrando e ascoltando nelle carceri i terroristi, mi accorgevo che essi si rendevano sempre più conto della inutilità e dell'assurdità di quanto stavano facendo. Ricordo che alcuni mi dicevano che quando toccava loro sparare contro qualcuno, avevano davanti come un grande buio, senza vedere i volti delle persone. Ma quando hanno incominciato a comprendere che davanti a loro stavano dei volti di persone umane, allora le cose sono cambiate».
Lei ha tra l'altro battezzato i figli di un brigatista, compiendo un gesto che si prestava a suscitare controversie. Ma dal punto di vista personale, che cosa ha significato, per lei, essere arcivescovo di Milano nel tempo del terrorismo?
«Sì, ricordo molto bene di aver battezzato i bambini gemelli di due brigatisti, tra l'altro concepiti durante un processo pubblico. La richiesta mi fu fatta dal padre in carcere, il giorno di Natale. Istintivamente pensai che non si poteva non esaudire una richiesta fatta in quel giorno e riguardante due bambini innocenti. Non tutti i miei collaboratori erano di questo parere. Ma io sentii che bisognava andare per questa strada. Sono convinto che sia stato uno dei momenti in cui i terroristi hanno capito di essere anch'essi persone umane e quindi di poter vedere nell'altro la persona umana da comprendere e da amare».
Con l'attentato alle Twin Towers di Manhattan il terrorismo si manifesta in modo ancora più devastante, «globale ». Eppure lei ha sempre rifiutato l'immagine dello «scontro di civiltà»: perché?
«Certamente l'attentato contro le Torri gemelle fu un atto di terrorismo globale terribile. Tuttavia ho sempre rifiutato la categoria di scontro di civiltà. Questo perché il Santo Padre Giovanni Paolo II l'ha sempre respinta e ha continuamente proclamato che era necessaria una intesa fra le culture. Non possiamo sapere quale sarà il nostro futuro, ma occorre in ogni caso impegnarci per questa comprensione fra le civiltà e i popoli. Il contrario segnerebbe un gravissimo passo indietro nella storia dell'umanità ».
Lei ha spesso invitato a interpretare il terrorismo secondo la categoria biblica dell'idolatria. Con quali implicazioni?
«Una lettura del terrorismo nel segno dell'idolatria significa che, quando ci lasciamo portare dalla violenza, mettiamo in prima linea degli idoli e non Dio stesso. Questi idoli possono essere il successo etnico o il trionfo della propria ideologia o altro ancora. Ma sono idoli e come tali saranno distrutti e distruggeranno coloro che li onorano. È soltanto l'adorazione del Dio vivente, del Dio amante della vita, che può istituire legami duraturi di pace e comprensione ».
In conclusione, eminenza, torniamo all'immagine dell'«inter-cedere«, del camminare fra i due eserciti schierati a battaglia. Quale aspetto della speranza cristiana è sollecitato da questo atteggiamento?
«La pratica dell'intercessione deriva dalla coscienza del fatto di essere dipendenti gli uni dagli altri. Dio ci vuole così e così ha concepito anche il futuro dell'umanità. Tutto questo però non appare ancora oggi. Perciò è necessaria la speranza. Essa, come dice san Paolo, è appunto di quelle cose che non si vedono. Dunque occorre pregare con perseveranza e quasi con ostinazione ».
«Il giorno in cui giunse la notizia del rapimento di Moro e dell'uccisione delle guardie della sua scorta – ricorda – mi trovavo nella Curia generalizia dei Gesuiti di Roma, in riunione con il Padre generale e alcuni rettori delle università romane. Venne di corsa qualcuno e con grande affanno ci comunicò la notizia. Noi restammo increduli. Pareva impossibile che fosse accaduta una cosa simile. Ci impressionò in particolare l'uccisione dei 5 uomini della scorta. Poi, a poco a poco, dovemmo cedere all'evidenza e accettare quel drammatico evento».
La lettera agli uomini delle Brigate Rosse, l'omelia ai funerali dello statista: in che modo Paolo VI affrontò il «caso Moro»?
«Il Papa era personalmente amico di Aldo Moro e fu molto scosso dal rapimento e dalle susseguenti vicende che si conclusero con la sua uccisione. Si sentiva che Paolo VI cercava di comprendere nella fede le terribili sofferenze che doveva provare l'onorevole Moro e che gravavano su tutta la nazione. La sua omelia ai funerali fu davvero un atto di abbandono e di fiducia cieca in Dio. In essa si manifestò la grandezza d'animo del Papa e tutta la sua sofferenza».
A Milano la Curia arcivescovile si affaccia su piazza Fontana, dove il 12 dicembre 1969 si consumò l'attentato contro la Banca nazionale dell'Agricoltura. Una vicinanza che, al suo arrivo in città, continuava a pesare?
«Quando fui nominato arcivescovo erano già passati diversi anni da quel dicembre 1969 e nel frattempo erano purtroppo già avvenuti molti nuovi atti di terrorismo e omicidi. Ricordo che quando andai a visitare il cardinale Ballestrero prima di iniziare il mio ministero come arcivescovo a Milano, mi disse: 'Si prepari a celebrare tanti funerali'. Entrai in Milano con questa sofferenza nell'animo e ben presto ebbi la conferma di quelle parole».
In «Spingendo la notte più in là» Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, ha dato voce a quanti, negli anni di piombo, hanno sofferto per l'uccisione di una persona cara. È un primo passo nella direzione di una memoria condivisa?
«Ho sempre ammirato la persona di suo padre, ma non ho potuto sinora leggere il libro di Mario Calabresi. Ne ho sentito parlare come di un libro nel qua- le traspare con chiarezza la sofferenza incancellabile di chi è stato colpito nei suoi affetti dagli insani atti di terrorismo. Una memoria condivisa delle sofferenze delle vittime è molto importante perché permette di leggere la violenza nei suoi effetti più profondi e fa capire che nessuna ideologia può giustificarla. Qui a Gerusalemme sono venuto a conoscenza di una realtà che mette insieme persone israeliane e palestinesi, ciascuna delle quali ha avuto nella famiglia un lutto grave a causa della violenza. Queste persone si incontrano per comprendere la sofferenza l'uno dell'altro e insieme fanno passi importanti verso la accettazione mutua e la riconciliazione».
Il 19 marzo 1980, a poco più di un mese dal suo ingresso in diocesi, lei compì un gesto irrituale: si precipitò all'Università statale, dove era stato appena assassinato il magistrato Guido Galli, e pregò sul corpo della vittima. Come nacque quella decisione?
«Ricordo bene quel pomeriggio del 19 marzo 1980. Eravamo in riunione con tutti i collaboratori e fu data la notizia che un professore era stato ucciso nella vicina Università. Io sentii immediatamente l'impulso di alzarmi e di andare a pregare presso il corpo di questa persona, che giaceva ancora nel corridoio, coperto appena da un lenzuolo. Non so quale impulso abbia determinato questa decisione, ma mi parve una decisione necessaria. Bisognava partecipare da vicino alle sofferenze della gente e portare il conforto della preghiera ».
Fu la sua prima esperienza di «intercessione », quel frapporsi fisico tra aggredito e aggressore su cui è poi tornato spesso nella sua riflessione spirituale?
«Sì, quella fu probabilmente la mia prima esperienza pratica di 'intercessione' in un caso gravissimo. Ho poi potuto sviluppare ampiamente questo tema. Ricordo in particolare il grande raduno di preghiera in Duomo nel 1991 in occasione della imminente guerra contro l'Iraq. Lungo tutto il mio soggiorno a Gerusalemme ho riflettuto a lungo su questo tema e recentemente sono stato chiamato dall'Università ebraica di Gerusalemme a tenere una lezione su questo argomento nell'ambito di un convegno».
Un'altra data, il 28 maggio 1980. A cadere sotto i colpi dei terroristi fu Walter Tobagi, giornalista del «Corriere della Sera», cattolico impegnato. Lei ne celebrò i funerali. Che ricordo conserva di quei momenti?
«Ricordo benissimo quel 28 maggio 1980. Io ero a Roma, all'assemblea dei vescovi italiani. Subito sentii l'impulso a prendere la macchina e correre a Milano. Ero senza parole di fronte a tanta sofferenza. Ricordo che ai funerali, insieme al dolore, vedevo tanto coraggio e determinazione nella innumerevole folla accorsa. Milano voleva reagire con grande forza e con grande dignità. Non era la paura che dominava, ma la volontà di resistere. Ricordo molto bene anche il dolore e la grande compostezza dei familiari, lo smarrimento degli amici, il sincero cordoglio di tutti».
Nel 1984 il gruppo milanese di «Prima Linea» consegnò armi ed esplosivi in arcivescovado. Una dichiarazione di resa? Una richiesta di mediazione?
Non è facile interpretare ciò che avvenne nel 1984 con la consegna in arcivescovado di un grosso quantitativo di armi e di esplosivi. Penso che fu soprattutto una dichiarazione di resa, visto che proprio in quei giorni, incontrando e ascoltando nelle carceri i terroristi, mi accorgevo che essi si rendevano sempre più conto della inutilità e dell'assurdità di quanto stavano facendo. Ricordo che alcuni mi dicevano che quando toccava loro sparare contro qualcuno, avevano davanti come un grande buio, senza vedere i volti delle persone. Ma quando hanno incominciato a comprendere che davanti a loro stavano dei volti di persone umane, allora le cose sono cambiate».
Lei ha tra l'altro battezzato i figli di un brigatista, compiendo un gesto che si prestava a suscitare controversie. Ma dal punto di vista personale, che cosa ha significato, per lei, essere arcivescovo di Milano nel tempo del terrorismo?
«Sì, ricordo molto bene di aver battezzato i bambini gemelli di due brigatisti, tra l'altro concepiti durante un processo pubblico. La richiesta mi fu fatta dal padre in carcere, il giorno di Natale. Istintivamente pensai che non si poteva non esaudire una richiesta fatta in quel giorno e riguardante due bambini innocenti. Non tutti i miei collaboratori erano di questo parere. Ma io sentii che bisognava andare per questa strada. Sono convinto che sia stato uno dei momenti in cui i terroristi hanno capito di essere anch'essi persone umane e quindi di poter vedere nell'altro la persona umana da comprendere e da amare».
Con l'attentato alle Twin Towers di Manhattan il terrorismo si manifesta in modo ancora più devastante, «globale ». Eppure lei ha sempre rifiutato l'immagine dello «scontro di civiltà»: perché?
«Certamente l'attentato contro le Torri gemelle fu un atto di terrorismo globale terribile. Tuttavia ho sempre rifiutato la categoria di scontro di civiltà. Questo perché il Santo Padre Giovanni Paolo II l'ha sempre respinta e ha continuamente proclamato che era necessaria una intesa fra le culture. Non possiamo sapere quale sarà il nostro futuro, ma occorre in ogni caso impegnarci per questa comprensione fra le civiltà e i popoli. Il contrario segnerebbe un gravissimo passo indietro nella storia dell'umanità ».
Lei ha spesso invitato a interpretare il terrorismo secondo la categoria biblica dell'idolatria. Con quali implicazioni?
«Una lettura del terrorismo nel segno dell'idolatria significa che, quando ci lasciamo portare dalla violenza, mettiamo in prima linea degli idoli e non Dio stesso. Questi idoli possono essere il successo etnico o il trionfo della propria ideologia o altro ancora. Ma sono idoli e come tali saranno distrutti e distruggeranno coloro che li onorano. È soltanto l'adorazione del Dio vivente, del Dio amante della vita, che può istituire legami duraturi di pace e comprensione ».
In conclusione, eminenza, torniamo all'immagine dell'«inter-cedere«, del camminare fra i due eserciti schierati a battaglia. Quale aspetto della speranza cristiana è sollecitato da questo atteggiamento?
«La pratica dell'intercessione deriva dalla coscienza del fatto di essere dipendenti gli uni dagli altri. Dio ci vuole così e così ha concepito anche il futuro dell'umanità. Tutto questo però non appare ancora oggi. Perciò è necessaria la speranza. Essa, come dice san Paolo, è appunto di quelle cose che non si vedono. Dunque occorre pregare con perseveranza e quasi con ostinazione ».
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