Da Liberazione del 03/04/2008
Quella sera in casa di Martin Luther King
Ad Atlanta con la moglie Coretta e i figli lo vedemmo morto sul ballatoio del Lorraine Hotel. Due ore dopo scoppiò la rivolta a Washington. E il giovane senatore Robert Kennedy, candidato democratico alla presidenza Usa, parlò ai neri
di Furio Colombo
Ero ad Atlanta, quel giorno, 4 aprile 1968. Ero in casa di Martin Luther King, all'ora di cena, che nel Sud degli Stati Uniti è molto presto. Coretta King era a capotavola, nella sala da pranzo un po' pretenziosa della loro casa di borghesia colta e nera. Io sedevo di fronte a lei, i due bambini maschi da un lato, la bambina dall'altro, accanto al reverendo martin Luther King senior, il padre del predicatore, predicatore lui stesso, e anzi fondatore della piccola chiesa di Aubum Avenue, che era ancora il centro di tutta l'attività del leader del Movimento per i Diritti Civili.
Mancava la figlia più grande, Yolanda. C'era una giovane donna, parente di Coretta King, che si curava dei piccoli, girava intorno a noi, correggendoli e un po' sgridandoli, ma senza sedersi a tavola, perché andava e veniva dal telefono che era in una stanzetta detta "lo studio del dottor King".
Quando non è tornata (erano le sette di sera) e ad uno ad uno gli adulti si sono radunati in quella stanza, davanti al televisore acceso, è toccato a me restare con i bambini. Sapevano che il padre era a Memphis, "a predicare a tanti uomini e donne che facevano una marcia". Il più grande, Martin, sapeva anche perché. Erano coloro che tenevano pulite le città e per tutto quel lavoro "non li pagavano niente". E allora facevano una grande protesta e suo padre era li con loro.
La parte privata del racconto finisce qui. Qui cominciano le immagini della televisione, la più difficile da dimenticare è quella di Andrew Young e di Raph Abernathy inginocchiati accanto al corpo di Martin Luther King, sul ballatoio del Lorraine Hotel di Memphis. Young cerca di sollevare con la mano la testa insanguinata di King, appena colpito. Nei motel poveri d'America per raggiungere le stanze si passa da una terrazza esterna, come nelle case italiane "a ringhiera". Basta sapere il numero della stanza e aspettare con l'arma di precisione puntata alla porta, dopo aver calcolato l'altezza, e dunque la testa della persona da uccidere. Ma il film, più vero e drammatico e sorprendente di un thriller, continua. In un'altra inquadratura del celebre filmato di quella sera Andrew Young indica di fronte a sé. Non si vede dove indica, nell'inquadratura. Ma al di là da un ampio spazio desolato, c'è una vecchia casa rossa con scale antincendio esterne, e una grande terrazza in alto, cpiù o meno all'altezza del secondo piano del Lorraine e proprio di fronte alla stanza di King, l'ultima sul ballatoio (a sinistra, guardando da fuori). Dunque a quella casa di fronte, al di là dello spazio desolato (erba, terriccio, auto abbandonate) si può arrivare da dentro, attraverso scricchiolanti e malconce scale di legno, oppure arrampicandosi sulla scala di ferro, da fuori.
L'importante è arrivare prima e appostarsi. Il perché l'ho capito arrivando, con il cameraman della Rai, dalle scale di legno. Il primo e secondo piano sono vuoti. Il terzo è un immenso stanzone con brande e sedie. Ci sono una cinquantina di uomini quasi tutti anziani, alcuni incapaci di muoversi o per il tremore o per il disorientamento, perché guardano assenti. Non si vedono infermieri. C'è stato un putiferio di grida al nostro arrivo. Poi è cessato, quasi di colpo, e un grande silenzio, op arole dette a voce molto bassa e senza alcuna coerenza, seguivano il nostro lavoro di montare la telecamera.
Abbiamo chiesto dove si era piazzato l'uomo con l'arma di precisione. Uno che poteva camminare, con un sorriso dolce ci ha indicato un punto, poi un altro. Ha puntato in basso, dove non ci sono finestre, poi in alto, forse per dire dove vanno le anime dopo gli spari. Rideva in modo dolce, come se si rendesse conto della sua impotenza. E della nostra. C'erano tracce di piedi e di scarponi, ma di chi, ma da quando? C'era già stata la polizia? Molti hanno battuto le mani, altri si sono voltati verso il muro. Ci hanno avvertito della rivolta di Washington, diceva la radio: "La capitale degli Stati Uniti è in fiamme".
Siamo partiti subito. A quel tempo, in America, c'erano voli anche di notte. Si chiamavano red eyes (occhi rossi) e costavano meno. Era prima, molto prima della mitica deregulation di Regan, che ha tagliato a metà l'aviazione civile americana e moltiplicato i costi, perché tutto è lasciato alla discrezione di un cervello detto concorrenza.
A Washington era difficile entrare in città, a causa dei posti di blocco di Guardia Nazionale e paracadutisti, i soldati che avevano sostituito la polizia metropolitana nel tentativo di riprendere il controllo della città.. Ma a quel tempo le credenziali di giornalista erano sacre.
All'aereoporto abbiamo fatto la cosa più rischiosa ma anche più utile: abbiamo noleggiato una di quelle enormi auto scoperte che si vedono nelle parate dei film anni Cinuqanta.
In quel modo potevamo filmare intorno senza i limiti dei finestrini. Con quell'auto, alla sera del primo giorno, e dopo aver filmato la distruzione (interi isolati di case in fiamme, incendi provocati dai rivoltosi nei quartieri e nelle case dei neri, il resto della città era sbarrato da cingolati messi per traverso, filo spinato e soldati) siamo andati nel piccolo edificio a due piani in cui Robert Kennedy aveva organizzato il suo ufficio per la campagna elettorale. Era candidato democratico contro il presidente democratico Johnson, era il candidato contro la guerra in Vietnam, votata da senatori e deputati del suo partito. Stava vincendo, ad una ad una, con i suoi indimenticabili discorsi, tutte le elezioni primarie. Gli ho proposto l'idea pazzesca di venire sulla nostra auto scoperta. Saremmo andati alla Quattordicesima strada, angolo F street dove era cominciata la rivolta, una o due ore dopo la notizia dell'assassinio di Martin Luther King. Robert Kennedy mi ha chiesto un quarto d'ora per riflettere. Si è ritirato in uno stanzino diviso da una porta a vetri. Potevamo filmarlo, mentre, muovendo un po' le labbra, stava "pensandoci" come aveva detto, e lo abbiamo fatto, senza tagli o montaggi, Kennedy non ha consultato nessuno. Ha deciso da solo, neppure Ted Sorensen, comune amico e che si vede accanto a me e a lui nel documentario di quel momento. E' venuto da solo.
Era notte e non c'erano luci perché l'energia elettrica era stata tolta in città. Siamo entrati in un'area che ci sembrava vuota o spenta. Ma quando abbiamo acceso l'unico riflettore, puntandolo su Robert Kennedy, che si era alzato e stava diritto sulla parte posteriore dell'auto, alcuni ragazzi si sono avvicinati. Sembravano dieci o venti, e...
Mancava la figlia più grande, Yolanda. C'era una giovane donna, parente di Coretta King, che si curava dei piccoli, girava intorno a noi, correggendoli e un po' sgridandoli, ma senza sedersi a tavola, perché andava e veniva dal telefono che era in una stanzetta detta "lo studio del dottor King".
Quando non è tornata (erano le sette di sera) e ad uno ad uno gli adulti si sono radunati in quella stanza, davanti al televisore acceso, è toccato a me restare con i bambini. Sapevano che il padre era a Memphis, "a predicare a tanti uomini e donne che facevano una marcia". Il più grande, Martin, sapeva anche perché. Erano coloro che tenevano pulite le città e per tutto quel lavoro "non li pagavano niente". E allora facevano una grande protesta e suo padre era li con loro.
La parte privata del racconto finisce qui. Qui cominciano le immagini della televisione, la più difficile da dimenticare è quella di Andrew Young e di Raph Abernathy inginocchiati accanto al corpo di Martin Luther King, sul ballatoio del Lorraine Hotel di Memphis. Young cerca di sollevare con la mano la testa insanguinata di King, appena colpito. Nei motel poveri d'America per raggiungere le stanze si passa da una terrazza esterna, come nelle case italiane "a ringhiera". Basta sapere il numero della stanza e aspettare con l'arma di precisione puntata alla porta, dopo aver calcolato l'altezza, e dunque la testa della persona da uccidere. Ma il film, più vero e drammatico e sorprendente di un thriller, continua. In un'altra inquadratura del celebre filmato di quella sera Andrew Young indica di fronte a sé. Non si vede dove indica, nell'inquadratura. Ma al di là da un ampio spazio desolato, c'è una vecchia casa rossa con scale antincendio esterne, e una grande terrazza in alto, cpiù o meno all'altezza del secondo piano del Lorraine e proprio di fronte alla stanza di King, l'ultima sul ballatoio (a sinistra, guardando da fuori). Dunque a quella casa di fronte, al di là dello spazio desolato (erba, terriccio, auto abbandonate) si può arrivare da dentro, attraverso scricchiolanti e malconce scale di legno, oppure arrampicandosi sulla scala di ferro, da fuori.
L'importante è arrivare prima e appostarsi. Il perché l'ho capito arrivando, con il cameraman della Rai, dalle scale di legno. Il primo e secondo piano sono vuoti. Il terzo è un immenso stanzone con brande e sedie. Ci sono una cinquantina di uomini quasi tutti anziani, alcuni incapaci di muoversi o per il tremore o per il disorientamento, perché guardano assenti. Non si vedono infermieri. C'è stato un putiferio di grida al nostro arrivo. Poi è cessato, quasi di colpo, e un grande silenzio, op arole dette a voce molto bassa e senza alcuna coerenza, seguivano il nostro lavoro di montare la telecamera.
Abbiamo chiesto dove si era piazzato l'uomo con l'arma di precisione. Uno che poteva camminare, con un sorriso dolce ci ha indicato un punto, poi un altro. Ha puntato in basso, dove non ci sono finestre, poi in alto, forse per dire dove vanno le anime dopo gli spari. Rideva in modo dolce, come se si rendesse conto della sua impotenza. E della nostra. C'erano tracce di piedi e di scarponi, ma di chi, ma da quando? C'era già stata la polizia? Molti hanno battuto le mani, altri si sono voltati verso il muro. Ci hanno avvertito della rivolta di Washington, diceva la radio: "La capitale degli Stati Uniti è in fiamme".
Siamo partiti subito. A quel tempo, in America, c'erano voli anche di notte. Si chiamavano red eyes (occhi rossi) e costavano meno. Era prima, molto prima della mitica deregulation di Regan, che ha tagliato a metà l'aviazione civile americana e moltiplicato i costi, perché tutto è lasciato alla discrezione di un cervello detto concorrenza.
A Washington era difficile entrare in città, a causa dei posti di blocco di Guardia Nazionale e paracadutisti, i soldati che avevano sostituito la polizia metropolitana nel tentativo di riprendere il controllo della città.. Ma a quel tempo le credenziali di giornalista erano sacre.
All'aereoporto abbiamo fatto la cosa più rischiosa ma anche più utile: abbiamo noleggiato una di quelle enormi auto scoperte che si vedono nelle parate dei film anni Cinuqanta.
In quel modo potevamo filmare intorno senza i limiti dei finestrini. Con quell'auto, alla sera del primo giorno, e dopo aver filmato la distruzione (interi isolati di case in fiamme, incendi provocati dai rivoltosi nei quartieri e nelle case dei neri, il resto della città era sbarrato da cingolati messi per traverso, filo spinato e soldati) siamo andati nel piccolo edificio a due piani in cui Robert Kennedy aveva organizzato il suo ufficio per la campagna elettorale. Era candidato democratico contro il presidente democratico Johnson, era il candidato contro la guerra in Vietnam, votata da senatori e deputati del suo partito. Stava vincendo, ad una ad una, con i suoi indimenticabili discorsi, tutte le elezioni primarie. Gli ho proposto l'idea pazzesca di venire sulla nostra auto scoperta. Saremmo andati alla Quattordicesima strada, angolo F street dove era cominciata la rivolta, una o due ore dopo la notizia dell'assassinio di Martin Luther King. Robert Kennedy mi ha chiesto un quarto d'ora per riflettere. Si è ritirato in uno stanzino diviso da una porta a vetri. Potevamo filmarlo, mentre, muovendo un po' le labbra, stava "pensandoci" come aveva detto, e lo abbiamo fatto, senza tagli o montaggi, Kennedy non ha consultato nessuno. Ha deciso da solo, neppure Ted Sorensen, comune amico e che si vede accanto a me e a lui nel documentario di quel momento. E' venuto da solo.
Era notte e non c'erano luci perché l'energia elettrica era stata tolta in città. Siamo entrati in un'area che ci sembrava vuota o spenta. Ma quando abbiamo acceso l'unico riflettore, puntandolo su Robert Kennedy, che si era alzato e stava diritto sulla parte posteriore dell'auto, alcuni ragazzi si sono avvicinati. Sembravano dieci o venti, e...
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