Le carenze nelle indagini

Documento aggiornato al 25/02/2004
Un'accurata valutazione di tutti gli elementi acquisiti rivela che mentre è sufficientemente completa la conoscenza degli obiettivi politici che le BR intesero perseguire con la strage, il sequestro e l'omicidio, restano in parte sconosciute importanti circostanze di fatto relative alla gestione del sequestro. Non v'è a tutt'oggi certezza sul luogo (o sui luoghi) della prigionia; non sono stati identificati tutti i terroristi che intervennero nella preparazione e nell'esecuzione dell'attentato, nella gestione del sequestro e nella decisione dell'omicidio; non sono stati ben definiti i ruoli rivestiti dalla direzione strategica, dall'esecutivo e soprattutto dalla colonna romana, che sostenne il peso maggiore dell'attentato e all'interno della quale si manifestarono forti divergenze sull'esito del sequestro, che poi sfociarono nella fuoriuscita dall'organizzazione, per formare un altro gruppo armato, di Morucci, Faranda e di altri cinque terroristi. Inoltre non si sa chi prese i documenti contenuti nelle borse del sequestrato; non è noto se vennero effettuate, come in altri casi, registrazioni degli interrogatori, né dove tali registrazioni siano custodite.
La stessa Magistratura ordinaria ha dovuto svolgere - come si è accennato - tre successive istruttorie proprio per effetto del succedersi di acquisizioni che hanno progressivamente modificato ed integrato il quadro probatorio originario.
Questa situazione è stata determinata soprattutto dalla inefficienza delle indagini giudiziarie e di polizia nel corso dei cinquantacinque giorni, che ha impedito di acquisire immediatamente elementi decisivi ai fini delle prove dei reati che avrebbero anche potuto condurre alla liberazione di Aldo Moro.
Furono effettuati migliaia di controlli, di perquisizioni, di accertamenti; ma si trattò di attività del tutto generiche, affidate al caso piuttosto che ad una intelligente e sistematica ricognizione delle possibilità di intercettare gli autori della strage e del sequestro e di individuare il luogo ove era custodito il prigioniero. Lo stesso Savasta ha confermato che le BR non corsero alcun pericolo per effetto dei posti di blocco, delle perquisizioni di persone e di edifici, mentre cominciarono a temere quando vennero effettuati interventi intelligenti e mirati nei confronti delle aree dei fiancheggiatori, all'interno delle quali potevano essere fermate persone che erano al corrente di qualche aspetto dell'attività brigatista e che avrebbero perciò potuto far correre gravi rischi all'organizzazione.
Come si è già osservato, mancò sia nelle forze dell'ordine, sia nella magistratura una strategia di intervento specifico, diretta a liberare Moro e ad arrestare i suoi rapitori, che erano anche gli assassini di via Fani. Molti si comportarono come se la vicenda potesse sbloccarsi da sola o con modalità extraistituzionali o come se il suo tragico epilogo fosse già segnato sin dall'inizio.
La Commissione si è chiesta se queste lacune siano dipese dal fatto che ai vertici di molti apparati preventivi e repressivi vi erano uomini che sarebbero poi apparsi tra gli appartenenti alla società segreta P2. Questa organizzazione rappresentava infatti tendenze politiche ed interessi materiali che sarebbero stati fortemente colpiti se si fosse pienamente attuato il programma politico che iniziava a delinearsi in quei mesi, specialmente ad opera di Aldo Moro. Il superamento di tradizionali pregiudiziali avrebbe comportato una diversa distribuzione del potere in Italia e avrebbe perciò colpito chi del vecchio sistema di potere era non solo l'espressione ma anche il più intransigente difensore. E la loggia P2, sulla base di quanto sinora si è appreso, costituiva appunto uno dei centri nevralgici di questo vecchio sistema di potere che sarebbe stato colpito da nuovi equilibri politici.
Questa constatazione non deve essere trascurata ma, sulla base delle prove sicure raccolte dalla Commissione, neppure essere sopravvalutata. Né esiste, allo stato, prova della intenzionalità delle omissioni verificatesi in quel periodo, anche se sono state documentate gravissime negligenze, apparentemente inspiegabili se non motivate da un interesse a non veder risolto positivamente il dramma che era in corso o un sostanziale disinteresse per ciò che stava accadendo.
Non vi fu soltanto scarsa diligenza dei responsabili dell'azione di polizia. Molti vennero direttamente o indirettamente in possesso di informazioni che, se convenientemente sfruttate, avrebbero potuto forse condurre all'individuazione ed all'arresto di alcuni dei maggiori responsabili della strage e del sequestro. Non vi fu certo da parte di chi venne in possesso di queste informazioni un intenzionale occultamento di indizi ma, almeno per alcuni, ci fu la convinzione di non avere acquisito alcun dato rilevante per le indagini. Si tratta evidentemente di decisioni che vanno valutate tenendo presente la tensione di quei giorni e non in base alle prove successivamente acquisite: ognuno in quei frangenti si comportò secondo la propria sensibilità. Ma molti tennero ed invitarono a tenere un atteggiamento di piena e totale collaborazione con le forze dell'ordine e con la magistratura anche per fatti apparentemente marginali o irrilevanti. E la "Voce Repubblicana" del 3 maggio, proprio con riferimento alle numerose voci di contatti segreti scriveva: "Tutte le persone che si sono occupate della dolorosa vicenda sono proprio sicure di non poter fare o dire nulla che faciliti o dia addirittura successo alle indagini della magistratura e delle forze dell'ordine?".
Si verificò quindi, per cause molto diverse tra loro, alcune delle quali a tutt'oggi non sono state chiarite, un complesso di incapacità, inadeguatezze e silenzi che condizionò profondamente l'azione degli organi giudiziari e di polizia, tanto che, durante i cinquantacinque giorni, nonostante l'ingente numero delle forze in campo, si raggiunsero ben pochi risultati di rilievo.
Successivamente le indagini sono decollate soltanto quando nella lotta contro i terroristi si è concretamente scelta la strada dell'assoluta intransigenza. Questa strategia ha rassicurato le forze dell'ordine e la magistratura, ha conferito loro dignità e capacità di intervento e ha condotto alla crisi politica del terrorismo, dalla quale sono scaturite le dissociazioni dalla lotta armata e le numerosissime dichiarazioni dei così detti terroristi pentiti.Se a questa scelta si fosse arrivati con maggiore rapidità e maggiore compattezza, la ricostruzione delle vicende di quei cinquantacinque giorni sarebbe stata certamente più completa e su di essa non perdurerebbero le numerose e non secondarie zone d'ombra che la Commissione ha purtroppo dovuto rilevare.
 
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