Lo scambio con terroristi detenuti
Documento aggiornato al 25/02/2004
A partire dal successivo comunicato n. 7 del 20 aprile cominciò a svolgersi la seconda linea di azione delle BR: attaccare il progetto politico di cui si era fatto portatore Moro, proponendo uno scambio tra lo stesso Moro e terroristi detenuti.
Il problema della liberazione dei terroristi detenuti è particolarmente delicato per l'organizzazione terroristica. Liberare detenuti è un momento di forza per qualsiasi organizzazione eversiva, perché dimostra la debolezza della repressione legale, apre contraddizioni nel sistema politico, recupera uomini spesso preziosi per la lotta armata. La questione però presenta molti aspetti negativi. I terroristi detenuti hanno maggior prestigio di quelli liberi, ma spesso sono da troppo tempo fuori della vita dell'organizzazione e pertanto un loro rientro in libertà può comportare una non opportuna (per i terroristi) revisione dei quadri dirigenti o della linea politica, anche aprendo scontri di non secondaria importanza. L'evasione inoltre richiede una adeguata predisposizione di basi che accolgano gli evasi, di documenti e mezzi di sostentamento, espone l'intera organizzazione ad una pressione particolare delle forze di polizia e al pericolo di fughe di informazioni.
Dal punto di vista più specificamente politico, una organizzazione terroristica che ambisce ad incidere profondamente sugli equilibri politici del paese in cui agisce non può esaurire la propria attività nella liberazione di detenuti. Si rinchiuderebbe così in una sorta di spirale che esaurirebbe tutta la sua iniziativa. Invece la progressione che le BR intendevano conferire alla loro iniziativa per passare da organizzazione per la lotta armata a "partito" comportava necessariamente l'assunzione di obiettivi sempre più generali e diversificati.
D'altra parte i terroristi liberi non possono assolutamente prescindere dalla liberazione di quelli detenuti, sia per le ragioni di prestigio innanzi chiarite, sia perché i detenuti premono, avendo una visione del problema che, per forza di cose, è meno oggettiva. Ed è significativo che due anni dopo il sequestro Moro, nel dicembre 1980, Senzani per rafforzare il proprio peso nell'organizzazione si sia collegato direttamente ai capi che sono in carcere e con la "campagna D'Urso" e si sia preoccupato di rilanciare il tema delle carceri e della liberazione dei detenuti.
In definitiva la liberazione dei terroristi detenuti è un problema di grande complessità organizzativa e politica. Perciò pur essendo presente nei programmi delle organizzazioni terroristiche, e in particolare delle BR, e pur essendo ad esso dedicate alcune specifiche "campagne" non costituisce un obiettivo prioritario delle BR.
Ciò è confermato da una deposizione di Alfredo Buonavita, appartenente al così detto nucleo storico delle BR, arrestato il 16 novembre 1974 e condannato con varie sentenze delle Corti di Assise di Torino, di Bologna, di Firenze alla reclusione per complessivi 19 anni.
Buonavita in carcere si è dissociato dalla lotta armata, dopo la definitività delle sue condanne e ha ricostruito la prima fase dell'organizzazione terrorista, quella che lo vide tra i maggiori protagonisti. Egli ha raccontato tra l'altro che nell'autunno 1977 chiese all'organizzazione esterna un aiuto per evadere. Gli fu risposto negativamente perché l'organizzazione era impegnata in una grande operazione mediante la quale, forse, si sarebbe potuto ottenere anche la liberazione di detenuti. Il periodo coincide con le prime indagini di Savasta e Libera all'Università di Roma e con la consultazione di tutte le colonne per un importante attacco contro la DC, effettuata, secondo la deposizione di Patrizio Peci ai giudici istruttori di Torino, sei o sette mesi prima dell'attentato di via Fani.
Nei comunicati emessi durante il sequestro dell'onorevole Moro, le BR non scrissero alcuno slogan per la liberazione dei detenuti. Si preoccuparono invece di esplicitare la propria posizione sul punto quando, dopo la proposta di scambio contenuta nella prima lettera di Moro a Cossiga, molti commentatori avevano riferito quella proposta alle BR. Nel quarto comunicato, emesso dopo la lettera, chiarirono che la proposta esprimeva una posizione esclusiva di Moro, mentre l'organizzazione continuava a dare priorità assoluta al "processo" alle domande, cioè, e soprattutto alle risposte del prigioniero. I terroristi temevano l'accusa interna di aver "svenduto" il fortemente propagandato significato politico dell'intera operazione in cambio della liberazione di qualche detenuto e temevano inoltre di farsi, coinvolgere in oscure contrattazioni proprio da quegli antagonisti che avevano tanto insistentemente e ferocemente avversato.
Perciò in quel comunicato si preoccupavano di ribadire insistentemente la propria linea.
La lettera di Moro a Cossiga rivela il punto di vista del prigioniero "e non il nostro"; Moro invita a "considerare la sua posizione di prigioniero politico in relazione a quella dei combattenti comunisti prigionieri nelle carceri di regime. Questa è la sua posizione - continuavano i brigatisti che, se non manca di realismo politico nel vedere le contraddizioni di classe oggi in Italia, è utile chiarire che non è la nostra".
"Uno dei punti fondamentali del programma della nostra organizzazione - affermavano più avanti - è la liberazione di tutti i prigionieri comunisti e la distruzione dei campi di concentramento e dei lager di regime... Certo perseguiremo ogni strada che porti alla liberazione dei comunisti tenuti in ostaggio dallo Stato imperialista, ma denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti". L'imbarazzo dei terroristi era evidente.
La lettera di Moro, pubblicizzata a sua insaputa per aprire contraddizioni nel sistema politico democratico, rischiava di trasformarsi in un boomerang. L'interrogativo politico che si poneva loro a questo punto riguardava il rapporto tra le affermazioni lasciate scrivere a Moro (trattativa per la libertà) e quelle scritte nei comunicati (processo al regime). Il problema non fu certo risolto nella risposta del comunicato n. 4. La liberazione di "tutti" i detenuti e la distruzione del sistema penitenziario non era una speranza a breve e medio termine e d'altra parte riaffermare che "per quel che ci riguarda il processo di Aldo Moro andrà regolarmente avanti, e non saranno le mistificazioni degli specialisti della controguerriglia psicologica che potranno modificare il giudizio che verrà emesso" significava lasciare irrisolto il dubbio che essi stessi avevano aperto innanzitutto tra le proprie fila con la prima lettera di Moro.
"L'Onorevole Aldo Moro - ha riposto Morucci alla Commissione - è stato catturato per processare la DC tramite lui, per un processo politico. E' chiaro che quello era l'obiettivo principale dell'azione e quindi doveva svilupparsi, non poteva essere racchiuso da subito in un braccio di ferro con lo Stato, perché si sarebbe posto in secondo piano l'aspetto politico del processo. Questo secondo me è il motivo per cui, pur permettendo ad Aldo Moro di cominciare a perseguire un progetto di quel tipo, ossia a porsi sul terreno dello scambio, le BR non ci si sono poste".
La questione si avviò comunque ad un chiarimento con il settimo comunicato, fatto trovare in varie città il 20 aprile, quando le BR, dopo il fallimento del "processo", proposero per la prima volta la liberazione di "prigionieri comunisti" in cambio di Moro (Nota: L'idea di chiedere la liberazione di detenuti nasce nelle BR solo in un secondo momento, dopo il fallimento del "processo", "Se Moro fosse stato preso per chiedere in cambio tredici prigionieri, questi sarebbero stato chiesti subito e non dopo" sostiene Morucci in Commissione). Nel documento i terroristi esposero con chiarezza quelli che sarebbero stati i capisaldi della loro proposta anche nei giorni successivi. Respingevano ogni possibilità di soluzione umanitaria perché il problema ribadivano, era soltanto politico. Moro era un prigioniero politico condannato a morte. "Nei campi di concentramento dello Stato imperialista ci sono centinaia di prigionieri comunisti, condannati alla "morte lenta" di secoli di prigionia. Noi lottiamo per la libertà del proletariato e parte essenziale - non "fondamentale", come era scritto nel comunicato n. 4 - del nostro programma politico è la libertà per tutti i prigionieri comunisti".
La proposta, infine, era rivolta alla DC e al "suo governo", al quale venivano concesse quarantotto ore di tempo a partire dalle ore 15 del 20 aprile.
Nella stessa giornata un nucleo brigatista uccideva a Milano il maresciallo maggiore degli agenti di custodia Francesco De Cataldo.
Il fatto è in apparente contrasto con l'apertura trattativistica. Potrebbe essersi trattato di un'autonoma iniziativa della colonna milanese, o era un attentato che serviva a "riequilibrare" per fini interni il possibile impatto negativo della proposta di trattativa o, infine, era opera del settore più deciso che intendeva in tal modo bloccare lo sviluppo di un'eventuale trattativa. D'altra parte, anche in seguito le BR avrebbero ucciso mentre proponevano una trattativa: durante il sequestro D'Urso, ad esempio, le BR chiesero, ottenendo soddisfazione, alcuni interventi sul sistema penitenziario, ma contemporaneamente uccisero a Roma il generale Enrico Galvaligi.
Quattro giorni dopo, quando l'ultimatum era largamente scaduto, e pur non avendo ricevuto dagli interpellati alcun segnale di incoraggiamento sul loro terreno, i terroristi, con il comunicato n. 8, ribadivano che l'unico terreno possibile era lo scambio tra "prigionieri politici condannati a morte" e facevano l'elenco di tredici detenuti per terrorismo dei quali chiedevano la liberazione in cambio di Moro. Si trattava di Sante Notarnicola, Mario Rossi, Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Domenico Delli Veneri, Pasquale Abatangelo, Giorgio Panizzari, Maurizio Ferrari, Alberto Franceschini, Renato Curcio, Roberto Ognibene, Paola Besuschio, Cristoforo Piancone: erano brigatisti della prima ora e altresì persone arrestate per reati comuni e poi entrate nella lotta armata durante la reclusione, come Panizzari, appartenenti ai NAP, come Abatangelo, o alla XXII Ottobre, come Rossi e Viel. Mancavano del tutto appartenenti a Prima Linea, segno delle divisioni esistenti tra questa organizzazione e le BR. Nessuno dei tredici era in grado di godere della libertà provvisoria. La liberazione, anche di uno solo dei tredici, avrebbe imposto un gravissimo strappo alla legalità, incrinato profondamente le ragioni stesse della resistenza del Paese contro il terrorismo e offeso i valori di fondo di giustizia e di uguaglianza del nostro ordinamento costituzionale.
Manifestamente provocatorio era l'inserimento nella lista del brigatista Cristoforo Piancone, che aveva assassinato a Torino, pochi giorni prima, l'11 aprile, l'agente di custodia Lorenzo Cotugno. La vittima, prima di morire, lo aveva ferito e i suoi complici l'avevano lasciato dinanzi ad un ospedale cittadino. L'inclusione nella lista era motivata principalmente dalla "sua militanza di combattente" alla quale si aggiungeva la "considerazione del suo stato fisico" collegata "alle ferite riportate in battaglia". Anche l'onorevole Craxi, che era tra i meno disponibili ad una linea rigida, affermò che su queste basi nessuna trattativa era praticabile.
Si rivela con chiarezza l'equivalenza politica tra l'assassinio dell'ostaggio e lo scambio. Se le BR avessero effettivamente voluto perseguire la liberazione di alcuni detenuti, la proposta sarebbe stata meno dirompente. Ma il loro progetto era un altro, perciò avanzavano una proposta inaccoglibile a lume di legalità e di ragione politica perché dovevano conseguire la rottura del progetto politico.
"Le brigate rosse - sarà scritto nella risoluzione 'campagna di primavera' -perseguivano un obiettivo politico assai più generale della liberazione dei prigionieri. L'obiettivo principale della 'campagna di primavera' era quello di dare un duro colpo all'intesa di programma e cioè approfondire la crisi politica del regime e dello Stato. Dunque le BR potevano rinunciare ad ottenere la liberazione di combattenti comunisti senza per questo dover rilasciare Moro".
L'effetto della liberazione - ha confermato Savasta alla Commissione- avrebbe comunque dovuto essere quello di "aver bloccato il progetto politico".
Il problema della liberazione dei terroristi detenuti è particolarmente delicato per l'organizzazione terroristica. Liberare detenuti è un momento di forza per qualsiasi organizzazione eversiva, perché dimostra la debolezza della repressione legale, apre contraddizioni nel sistema politico, recupera uomini spesso preziosi per la lotta armata. La questione però presenta molti aspetti negativi. I terroristi detenuti hanno maggior prestigio di quelli liberi, ma spesso sono da troppo tempo fuori della vita dell'organizzazione e pertanto un loro rientro in libertà può comportare una non opportuna (per i terroristi) revisione dei quadri dirigenti o della linea politica, anche aprendo scontri di non secondaria importanza. L'evasione inoltre richiede una adeguata predisposizione di basi che accolgano gli evasi, di documenti e mezzi di sostentamento, espone l'intera organizzazione ad una pressione particolare delle forze di polizia e al pericolo di fughe di informazioni.
Dal punto di vista più specificamente politico, una organizzazione terroristica che ambisce ad incidere profondamente sugli equilibri politici del paese in cui agisce non può esaurire la propria attività nella liberazione di detenuti. Si rinchiuderebbe così in una sorta di spirale che esaurirebbe tutta la sua iniziativa. Invece la progressione che le BR intendevano conferire alla loro iniziativa per passare da organizzazione per la lotta armata a "partito" comportava necessariamente l'assunzione di obiettivi sempre più generali e diversificati.
D'altra parte i terroristi liberi non possono assolutamente prescindere dalla liberazione di quelli detenuti, sia per le ragioni di prestigio innanzi chiarite, sia perché i detenuti premono, avendo una visione del problema che, per forza di cose, è meno oggettiva. Ed è significativo che due anni dopo il sequestro Moro, nel dicembre 1980, Senzani per rafforzare il proprio peso nell'organizzazione si sia collegato direttamente ai capi che sono in carcere e con la "campagna D'Urso" e si sia preoccupato di rilanciare il tema delle carceri e della liberazione dei detenuti.
In definitiva la liberazione dei terroristi detenuti è un problema di grande complessità organizzativa e politica. Perciò pur essendo presente nei programmi delle organizzazioni terroristiche, e in particolare delle BR, e pur essendo ad esso dedicate alcune specifiche "campagne" non costituisce un obiettivo prioritario delle BR.
Ciò è confermato da una deposizione di Alfredo Buonavita, appartenente al così detto nucleo storico delle BR, arrestato il 16 novembre 1974 e condannato con varie sentenze delle Corti di Assise di Torino, di Bologna, di Firenze alla reclusione per complessivi 19 anni.
Buonavita in carcere si è dissociato dalla lotta armata, dopo la definitività delle sue condanne e ha ricostruito la prima fase dell'organizzazione terrorista, quella che lo vide tra i maggiori protagonisti. Egli ha raccontato tra l'altro che nell'autunno 1977 chiese all'organizzazione esterna un aiuto per evadere. Gli fu risposto negativamente perché l'organizzazione era impegnata in una grande operazione mediante la quale, forse, si sarebbe potuto ottenere anche la liberazione di detenuti. Il periodo coincide con le prime indagini di Savasta e Libera all'Università di Roma e con la consultazione di tutte le colonne per un importante attacco contro la DC, effettuata, secondo la deposizione di Patrizio Peci ai giudici istruttori di Torino, sei o sette mesi prima dell'attentato di via Fani.
Nei comunicati emessi durante il sequestro dell'onorevole Moro, le BR non scrissero alcuno slogan per la liberazione dei detenuti. Si preoccuparono invece di esplicitare la propria posizione sul punto quando, dopo la proposta di scambio contenuta nella prima lettera di Moro a Cossiga, molti commentatori avevano riferito quella proposta alle BR. Nel quarto comunicato, emesso dopo la lettera, chiarirono che la proposta esprimeva una posizione esclusiva di Moro, mentre l'organizzazione continuava a dare priorità assoluta al "processo" alle domande, cioè, e soprattutto alle risposte del prigioniero. I terroristi temevano l'accusa interna di aver "svenduto" il fortemente propagandato significato politico dell'intera operazione in cambio della liberazione di qualche detenuto e temevano inoltre di farsi, coinvolgere in oscure contrattazioni proprio da quegli antagonisti che avevano tanto insistentemente e ferocemente avversato.
Perciò in quel comunicato si preoccupavano di ribadire insistentemente la propria linea.
La lettera di Moro a Cossiga rivela il punto di vista del prigioniero "e non il nostro"; Moro invita a "considerare la sua posizione di prigioniero politico in relazione a quella dei combattenti comunisti prigionieri nelle carceri di regime. Questa è la sua posizione - continuavano i brigatisti che, se non manca di realismo politico nel vedere le contraddizioni di classe oggi in Italia, è utile chiarire che non è la nostra".
"Uno dei punti fondamentali del programma della nostra organizzazione - affermavano più avanti - è la liberazione di tutti i prigionieri comunisti e la distruzione dei campi di concentramento e dei lager di regime... Certo perseguiremo ogni strada che porti alla liberazione dei comunisti tenuti in ostaggio dallo Stato imperialista, ma denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti". L'imbarazzo dei terroristi era evidente.
La lettera di Moro, pubblicizzata a sua insaputa per aprire contraddizioni nel sistema politico democratico, rischiava di trasformarsi in un boomerang. L'interrogativo politico che si poneva loro a questo punto riguardava il rapporto tra le affermazioni lasciate scrivere a Moro (trattativa per la libertà) e quelle scritte nei comunicati (processo al regime). Il problema non fu certo risolto nella risposta del comunicato n. 4. La liberazione di "tutti" i detenuti e la distruzione del sistema penitenziario non era una speranza a breve e medio termine e d'altra parte riaffermare che "per quel che ci riguarda il processo di Aldo Moro andrà regolarmente avanti, e non saranno le mistificazioni degli specialisti della controguerriglia psicologica che potranno modificare il giudizio che verrà emesso" significava lasciare irrisolto il dubbio che essi stessi avevano aperto innanzitutto tra le proprie fila con la prima lettera di Moro.
"L'Onorevole Aldo Moro - ha riposto Morucci alla Commissione - è stato catturato per processare la DC tramite lui, per un processo politico. E' chiaro che quello era l'obiettivo principale dell'azione e quindi doveva svilupparsi, non poteva essere racchiuso da subito in un braccio di ferro con lo Stato, perché si sarebbe posto in secondo piano l'aspetto politico del processo. Questo secondo me è il motivo per cui, pur permettendo ad Aldo Moro di cominciare a perseguire un progetto di quel tipo, ossia a porsi sul terreno dello scambio, le BR non ci si sono poste".
La questione si avviò comunque ad un chiarimento con il settimo comunicato, fatto trovare in varie città il 20 aprile, quando le BR, dopo il fallimento del "processo", proposero per la prima volta la liberazione di "prigionieri comunisti" in cambio di Moro (Nota: L'idea di chiedere la liberazione di detenuti nasce nelle BR solo in un secondo momento, dopo il fallimento del "processo", "Se Moro fosse stato preso per chiedere in cambio tredici prigionieri, questi sarebbero stato chiesti subito e non dopo" sostiene Morucci in Commissione). Nel documento i terroristi esposero con chiarezza quelli che sarebbero stati i capisaldi della loro proposta anche nei giorni successivi. Respingevano ogni possibilità di soluzione umanitaria perché il problema ribadivano, era soltanto politico. Moro era un prigioniero politico condannato a morte. "Nei campi di concentramento dello Stato imperialista ci sono centinaia di prigionieri comunisti, condannati alla "morte lenta" di secoli di prigionia. Noi lottiamo per la libertà del proletariato e parte essenziale - non "fondamentale", come era scritto nel comunicato n. 4 - del nostro programma politico è la libertà per tutti i prigionieri comunisti".
La proposta, infine, era rivolta alla DC e al "suo governo", al quale venivano concesse quarantotto ore di tempo a partire dalle ore 15 del 20 aprile.
Nella stessa giornata un nucleo brigatista uccideva a Milano il maresciallo maggiore degli agenti di custodia Francesco De Cataldo.
Il fatto è in apparente contrasto con l'apertura trattativistica. Potrebbe essersi trattato di un'autonoma iniziativa della colonna milanese, o era un attentato che serviva a "riequilibrare" per fini interni il possibile impatto negativo della proposta di trattativa o, infine, era opera del settore più deciso che intendeva in tal modo bloccare lo sviluppo di un'eventuale trattativa. D'altra parte, anche in seguito le BR avrebbero ucciso mentre proponevano una trattativa: durante il sequestro D'Urso, ad esempio, le BR chiesero, ottenendo soddisfazione, alcuni interventi sul sistema penitenziario, ma contemporaneamente uccisero a Roma il generale Enrico Galvaligi.
Quattro giorni dopo, quando l'ultimatum era largamente scaduto, e pur non avendo ricevuto dagli interpellati alcun segnale di incoraggiamento sul loro terreno, i terroristi, con il comunicato n. 8, ribadivano che l'unico terreno possibile era lo scambio tra "prigionieri politici condannati a morte" e facevano l'elenco di tredici detenuti per terrorismo dei quali chiedevano la liberazione in cambio di Moro. Si trattava di Sante Notarnicola, Mario Rossi, Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Domenico Delli Veneri, Pasquale Abatangelo, Giorgio Panizzari, Maurizio Ferrari, Alberto Franceschini, Renato Curcio, Roberto Ognibene, Paola Besuschio, Cristoforo Piancone: erano brigatisti della prima ora e altresì persone arrestate per reati comuni e poi entrate nella lotta armata durante la reclusione, come Panizzari, appartenenti ai NAP, come Abatangelo, o alla XXII Ottobre, come Rossi e Viel. Mancavano del tutto appartenenti a Prima Linea, segno delle divisioni esistenti tra questa organizzazione e le BR. Nessuno dei tredici era in grado di godere della libertà provvisoria. La liberazione, anche di uno solo dei tredici, avrebbe imposto un gravissimo strappo alla legalità, incrinato profondamente le ragioni stesse della resistenza del Paese contro il terrorismo e offeso i valori di fondo di giustizia e di uguaglianza del nostro ordinamento costituzionale.
Manifestamente provocatorio era l'inserimento nella lista del brigatista Cristoforo Piancone, che aveva assassinato a Torino, pochi giorni prima, l'11 aprile, l'agente di custodia Lorenzo Cotugno. La vittima, prima di morire, lo aveva ferito e i suoi complici l'avevano lasciato dinanzi ad un ospedale cittadino. L'inclusione nella lista era motivata principalmente dalla "sua militanza di combattente" alla quale si aggiungeva la "considerazione del suo stato fisico" collegata "alle ferite riportate in battaglia". Anche l'onorevole Craxi, che era tra i meno disponibili ad una linea rigida, affermò che su queste basi nessuna trattativa era praticabile.
Si rivela con chiarezza l'equivalenza politica tra l'assassinio dell'ostaggio e lo scambio. Se le BR avessero effettivamente voluto perseguire la liberazione di alcuni detenuti, la proposta sarebbe stata meno dirompente. Ma il loro progetto era un altro, perciò avanzavano una proposta inaccoglibile a lume di legalità e di ragione politica perché dovevano conseguire la rottura del progetto politico.
"Le brigate rosse - sarà scritto nella risoluzione 'campagna di primavera' -perseguivano un obiettivo politico assai più generale della liberazione dei prigionieri. L'obiettivo principale della 'campagna di primavera' era quello di dare un duro colpo all'intesa di programma e cioè approfondire la crisi politica del regime e dello Stato. Dunque le BR potevano rinunciare ad ottenere la liberazione di combattenti comunisti senza per questo dover rilasciare Moro".
L'effetto della liberazione - ha confermato Savasta alla Commissione- avrebbe comunque dovuto essere quello di "aver bloccato il progetto politico".