I rapporti tra le BR e il loro prigioniero
Documento aggiornato al 25/02/2004
Per una equilibrata valutazione delle lettere dell'onorevole Moro occorre considerare che le BR facevano uscire all'esterno solo ciò che giovava o per 1o meno non contrastava con i propri interessi censurando invece ciò che poteva danneggiarle. Questa linea di condotta fu determinata non solo dalle intuibili esigenze che ha qualsiasi gruppo di sequestratori, ma anche dalle specifiche finalità politiche che quel gruppo di sequestratori perseguiva.
La "gestione" di quel sequestro era un fatto politico ed ogni atto del prigioniero dotato di rilevanza esterna doveva collocarsi necessariamente nell'ambito del tipo di gestione scelta.
A questo proposito va notato che non sempre nell'analisi della situazione si è tenuto conto della specificità del rapporto che intercorre tra sequestrato e sequestratori. Frequentemente, anzi, si sono usati termini come "carcere", "detenzione" e simili che evocano un modello legale di privazione della libertà, mentre il sequestro è un fatto illegale. La distinzione non è formale. Il rapporto tra chi detiene e chi è detenuto, il rapporto tra i detentori, il detenuto ed il mondo esterno sono profondamente diversi nei due casi. Nel sequestro di persona il sequestratore è permeabile al mondo esterno e la vicenda del sequestro non è quasi mai assolutamente predeterminata. Nell'arresto e nella cattura da parte di un potere legale in genere accade il contrario: la conduzione della vicenda è legata a regole oggettive, che prescindono dalle reazioni del mondo esterno. Il sequestrato ha, inoltre, nella logica del sequestro, una funzione diversa dal detenuto nella logica dell'arresto. Il sequestrato è sempre parte e protagonista del sequestro. In ogni sequestro il sequestrato ha un ruolo decisivo: spesso a lui spetta comunicare con l'esterno ed egli ha il compito, nelle vicende più drammatiche, di sollecitare l'adempimento delle condizioni poste dai sequestratori, facendo apparire coloro che dovrebbero aderire a tali condizioni come i veri arbitri della sua libertà. E spesso accade che il sequestrato non si renda conto che egli è prigioniero non perché altri all'esterno non adempie, ma perché qualcuno lo ha privato della libertà (1). Infine, nel rapporto col mondo esterno, sequestratori e sequestrato agiscono spesso come una parte unica.
Mentre gli interessi del detenuto sono diversi ed autonomi rispetto agli interessi dei detentori, gli interessi dei sequestratori coincidono invece con gli interessi del sequestrato; in fin dei conti agli uni e all'altro sta a cuore che i destinatari della proposta di riscatto adempiano, perché i primi conseguono l'obiettivo e il secondo guadagna la libertà.
Perciò non si possono considerare le lettere di Aldo Moro come messaggi da un carcere, come testi interamente e globalmente riconducibili alla volontà di chi scrive. E' certamente malposta la questione dell'attribuibilità degli scritti ad Aldo Moro, problema che angosciò gli italiani durante i cinquantacinque giorni. Ci si chiese allora, e ci si chiede tuttora, se quelle lettere riportavano il suo pensiero o il pensiero delle BR; se Moro fosse strumento nelle mani dei terroristi o mantenesse la sua lucidità e la sua autonomia. A scrivere era certamente Moro: suo era lo stile, suoi erano passaggi facilmente riconoscibili degli scritti. Ma uno scritto è totalmente riferibile alla volontà di una persona quando perviene al suo naturale destinatario senza censure o mediazioni da parte di terzi. Il significato di uno scritto, inoltre, è determinato anche dalla quantità di informazioni che possiede chi scrive e dalla omogeneità di informazioni di base tra chi scrive e chi riceve. E evidente poi che quando chi scrive pensa che chi riceve sia al corrente di cose che invece non sono state rese note, l'interpretazione del messaggio è completamente travisata.
D'altra parte non conosciamo ancora la procedura attraverso la quale si giungeva alla determinazione del contenuto delle singole lettere.
Da alcuni cenni di Savasta e da allusioni di Morucci si desume che Moro fu un prigioniero coraggioso, tutt'altro che disposto a cedere passivamente alle richieste dei sequestratori. Moro continuò a comportarsi come uomo politico anche da prigioniero e ciò rese certamente più difficile il compito dei brigatisti, che non riuscirono certo ad utilizzarlo come un puro strumento del loro progetto. Ma questo non vuol dire che all'esterno poté arrivare tutto ciò che Moro scrisse, né che Moro scrisse tutto ciò che aveva in animo di scrivere.
Savasta ha spiegato che le BR, per prassi, facevano "passare" delle lettere dei sequestrati solo quelle che rispondevano ai loro interessi: le lettere - ha precisato l'ex componente dell'esecutivo brigatista - sono veri e propri comunicati dell'organizzazione.
Il riscontro è negli atti.
Della lettera al partito esistono tre testi, indicati nel fascicolo della Commissione con i numeri 24, 24-bis e 25: nel testo della lettera 24-bis, ad un certo punto, c'è la seguente frase: "le righe che seguono sono da rivedere a seconda dell'utilità che possono avere per sua espressa opinione", ed è chiaro che il prigioniero si rivolge al brigatista che aveva il controllo del contenuto delle lettere e all'inizio della lettera 25 c'è la precisazione: "Seconda lettera al partito, in sostituzione della prima con toni meno accesi, mandare l'una o l'altra a seconda dello svilupparsi della situazione".
Su altre lettere sono evidenti i segni della manipolazione brigatista. Ad esempio nella terza lettera a Zaccagnini, che inizia "Ancora una volta come qualche giorno fa" la sesta pagina (penultima) non è scritta fino in fondo; è lasciato in bianco un terzo circa del foglio. L'ultima lettera alla famiglia non è firmata e sembra incompleta: parrebbe che i brigatisti abbiano soppresso i fogli successivi al secondo forse perché contenenti notizie o informazioni che contrastavano con i loro intendimenti.
Da altre lettere si desume la parzialità delle informazioni in possesso del prigioniero.
Così, è probabile che Aldo Moro, almeno in una certa fase; ritenesse di non essere l'unico in mano alle BR. Nella prima lettera a Cossiga scriveva: "Benché non sappia nulla né del modo né di quanto avvenuto dopo il mio prelevamento"; e ancora nella stessa lettera al ministro degli Interni parla di "sacrificio degli innocenti mentre un indiscutibile stato di necessità indurrebbe à salvarli", dove il plurale "innocenti" potrebbe far pensare che Moro ritenesse che fossero state sequestrate altre persone.
Sul concetto del "sacrificio di vite innocenti" Moro ritornava nella lettera al vice direttore dell'Osservatore Romano.
Le BR avevano in animo, nel marzo 1978, di sequestrare anche un personaggio del mondo imprenditoriale e forse Moro, informato del progetto, intendeva riferirsi a questa eventualità che poi non si verificò.
Dopo, però, parrebbe che il prigioniero sia stato messo al corrente che il problema della liberazione riguarda soltanto lui perché insiste molto nelle lettere successive su se stesso, sul proprio ruolo nella DC e sulla propria famiglia. Ma in una lettera successiva "Al Partito della Democrazia cristiana" ritorna sul tema scrivendo: "Su questa posizione, che condanna a morte tutti i prigionieri delle Brigate Rosse (ed è pensabile ce ne siano) è arroccato il Governo ... ".
Ignoriamo cosa gli abbiano detto i brigatisti; ma se essi intendevano come sembra - avvalersi del prigioniero per aprire lacerazioni e contrasti nel suo partito e nel sistema democratico, è presumibile, sulla base di quanto si può dedurre da ciò che sino ad oggi si sa, che gli abbiano lasciato credere che gli altri prigionieri fossero già stati liberati. Ciò forse può contribuire a spiegare l'incomprensione che nutriva Moro per la decisione di non accedere allo scambio.
Nella lettera relativa alla vicenda Taviani, l'onorevole Moro iniziava a scrivere "Filtra fin qui la notizia", lasciando ben intendere la eccezionalità della ricezione di una informazione relativa al mondo esterno.
Nella lettera alla DC Moro scriveva a proposito di una lettera della moglie "... la pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna ... ".
Le BR quindi esercitavano il proprio controllo assoluto sulle informazioni del prigioniero ("Mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato" aveva scritto Moro nella prima lettera a Cossiga) privandolo dei dati necessari per avere un esatto quadro di riferimento, dandogli comunicazioni parziali e forse anche inesatte, come potrebbe trasparire dalla questione relativa alla presenza di altri prigionieri nelle mani delle BR. Alcune stranezze nelle lettere surriportate fanno ritenere che esse fossero a volte frutto di un collage di vari pezzi; e questa impressione appare confermata da alcune illogicità, che sono state messe in rilievo anche dal fratello dello statista in un'analisi delle lettere che costituisce forse uno dei più utili contributi a chiarire quale fosse la condizione del prigioniero delle BR.
Ad esempio, nella lettera alla moglie, pubblicata nel volume "L'intelligenza e gli avvenimenti" (Garzanti, 1979), a pagina 405, è aggiunta prima del testo la frase "Sono intatto e in perfetta 7/4/1978 lucidità. Non è giusto dire che non so più capace", che contiene l'incomprensibile inserimento della data della lettera, e l'unico errore ("so" al posto di "sono") che sia rinvenibile nelle pur numerose lettere scritte durante la prigionia.
Deve anche considerarsi che probabilmente, come ogni prigioniero, Moro cercasse di inviare dei messaggi, di far capire lo stato effettivo in cui si trovava, di comunicare qualche informazione sui suoi carcerieri e sul luogo ove era detenuto. La formulazione di questi eventuali messaggi può aver inserito nelle lettere elementi di distorsione o di minore chiarezza qui non distinguibili dagli altri contenuti.
In definitiva, l'unico dato che può considerarsi certo è che le BR, attraverso il dosaggio delle informazioni attraverso la probabile comunicazione di informazioni inesatte, non trasmettendo alcune lettere che il prigioniero riteneva fossero state trasmesse, dando pubblicità a lettere che invece Moro riteneva potessero restare segrete, attuavano una sorta di doppia gestione del sequestro. Attraverso i comunicati informavano delle proprie intenzioni, attraverso Moro cercavano di introdurre elementi di incertezza, di confusione e disorientamento nella DC, nel mondo politico e nella società civile.
Il problema della riconducibilità a Moro delle sue lettere non è però risolvibile in base ad una presunta minor capacità di reazione del prigioniero determinata da violenze, dall'uso di farmaci o da altro, ma in base alla ignoranza da parte del prigioniero di fondamentali dati della situazione.
Le valutazioni, i giudizi, sono suoi, ma sono espressi in una situazione del tutto straordinaria, come egli stesso più volte avverte (1) e nella ignoranza di essenziali circostanze di fatto.
(1)in un passo della seconda lettera a Zaccagnini, Moro scrive: "Ecco nell'Italia democratica del 1978, nell'Italia del Beccaria, come nei secoli passati, io sono condannato a morte. Che la condanna sia eseguita dipende da voi".
La "gestione" di quel sequestro era un fatto politico ed ogni atto del prigioniero dotato di rilevanza esterna doveva collocarsi necessariamente nell'ambito del tipo di gestione scelta.
A questo proposito va notato che non sempre nell'analisi della situazione si è tenuto conto della specificità del rapporto che intercorre tra sequestrato e sequestratori. Frequentemente, anzi, si sono usati termini come "carcere", "detenzione" e simili che evocano un modello legale di privazione della libertà, mentre il sequestro è un fatto illegale. La distinzione non è formale. Il rapporto tra chi detiene e chi è detenuto, il rapporto tra i detentori, il detenuto ed il mondo esterno sono profondamente diversi nei due casi. Nel sequestro di persona il sequestratore è permeabile al mondo esterno e la vicenda del sequestro non è quasi mai assolutamente predeterminata. Nell'arresto e nella cattura da parte di un potere legale in genere accade il contrario: la conduzione della vicenda è legata a regole oggettive, che prescindono dalle reazioni del mondo esterno. Il sequestrato ha, inoltre, nella logica del sequestro, una funzione diversa dal detenuto nella logica dell'arresto. Il sequestrato è sempre parte e protagonista del sequestro. In ogni sequestro il sequestrato ha un ruolo decisivo: spesso a lui spetta comunicare con l'esterno ed egli ha il compito, nelle vicende più drammatiche, di sollecitare l'adempimento delle condizioni poste dai sequestratori, facendo apparire coloro che dovrebbero aderire a tali condizioni come i veri arbitri della sua libertà. E spesso accade che il sequestrato non si renda conto che egli è prigioniero non perché altri all'esterno non adempie, ma perché qualcuno lo ha privato della libertà (1). Infine, nel rapporto col mondo esterno, sequestratori e sequestrato agiscono spesso come una parte unica.
Mentre gli interessi del detenuto sono diversi ed autonomi rispetto agli interessi dei detentori, gli interessi dei sequestratori coincidono invece con gli interessi del sequestrato; in fin dei conti agli uni e all'altro sta a cuore che i destinatari della proposta di riscatto adempiano, perché i primi conseguono l'obiettivo e il secondo guadagna la libertà.
Perciò non si possono considerare le lettere di Aldo Moro come messaggi da un carcere, come testi interamente e globalmente riconducibili alla volontà di chi scrive. E' certamente malposta la questione dell'attribuibilità degli scritti ad Aldo Moro, problema che angosciò gli italiani durante i cinquantacinque giorni. Ci si chiese allora, e ci si chiede tuttora, se quelle lettere riportavano il suo pensiero o il pensiero delle BR; se Moro fosse strumento nelle mani dei terroristi o mantenesse la sua lucidità e la sua autonomia. A scrivere era certamente Moro: suo era lo stile, suoi erano passaggi facilmente riconoscibili degli scritti. Ma uno scritto è totalmente riferibile alla volontà di una persona quando perviene al suo naturale destinatario senza censure o mediazioni da parte di terzi. Il significato di uno scritto, inoltre, è determinato anche dalla quantità di informazioni che possiede chi scrive e dalla omogeneità di informazioni di base tra chi scrive e chi riceve. E evidente poi che quando chi scrive pensa che chi riceve sia al corrente di cose che invece non sono state rese note, l'interpretazione del messaggio è completamente travisata.
D'altra parte non conosciamo ancora la procedura attraverso la quale si giungeva alla determinazione del contenuto delle singole lettere.
Da alcuni cenni di Savasta e da allusioni di Morucci si desume che Moro fu un prigioniero coraggioso, tutt'altro che disposto a cedere passivamente alle richieste dei sequestratori. Moro continuò a comportarsi come uomo politico anche da prigioniero e ciò rese certamente più difficile il compito dei brigatisti, che non riuscirono certo ad utilizzarlo come un puro strumento del loro progetto. Ma questo non vuol dire che all'esterno poté arrivare tutto ciò che Moro scrisse, né che Moro scrisse tutto ciò che aveva in animo di scrivere.
Savasta ha spiegato che le BR, per prassi, facevano "passare" delle lettere dei sequestrati solo quelle che rispondevano ai loro interessi: le lettere - ha precisato l'ex componente dell'esecutivo brigatista - sono veri e propri comunicati dell'organizzazione.
Il riscontro è negli atti.
Della lettera al partito esistono tre testi, indicati nel fascicolo della Commissione con i numeri 24, 24-bis e 25: nel testo della lettera 24-bis, ad un certo punto, c'è la seguente frase: "le righe che seguono sono da rivedere a seconda dell'utilità che possono avere per sua espressa opinione", ed è chiaro che il prigioniero si rivolge al brigatista che aveva il controllo del contenuto delle lettere e all'inizio della lettera 25 c'è la precisazione: "Seconda lettera al partito, in sostituzione della prima con toni meno accesi, mandare l'una o l'altra a seconda dello svilupparsi della situazione".
Su altre lettere sono evidenti i segni della manipolazione brigatista. Ad esempio nella terza lettera a Zaccagnini, che inizia "Ancora una volta come qualche giorno fa" la sesta pagina (penultima) non è scritta fino in fondo; è lasciato in bianco un terzo circa del foglio. L'ultima lettera alla famiglia non è firmata e sembra incompleta: parrebbe che i brigatisti abbiano soppresso i fogli successivi al secondo forse perché contenenti notizie o informazioni che contrastavano con i loro intendimenti.
Da altre lettere si desume la parzialità delle informazioni in possesso del prigioniero.
Così, è probabile che Aldo Moro, almeno in una certa fase; ritenesse di non essere l'unico in mano alle BR. Nella prima lettera a Cossiga scriveva: "Benché non sappia nulla né del modo né di quanto avvenuto dopo il mio prelevamento"; e ancora nella stessa lettera al ministro degli Interni parla di "sacrificio degli innocenti mentre un indiscutibile stato di necessità indurrebbe à salvarli", dove il plurale "innocenti" potrebbe far pensare che Moro ritenesse che fossero state sequestrate altre persone.
Sul concetto del "sacrificio di vite innocenti" Moro ritornava nella lettera al vice direttore dell'Osservatore Romano.
Le BR avevano in animo, nel marzo 1978, di sequestrare anche un personaggio del mondo imprenditoriale e forse Moro, informato del progetto, intendeva riferirsi a questa eventualità che poi non si verificò.
Dopo, però, parrebbe che il prigioniero sia stato messo al corrente che il problema della liberazione riguarda soltanto lui perché insiste molto nelle lettere successive su se stesso, sul proprio ruolo nella DC e sulla propria famiglia. Ma in una lettera successiva "Al Partito della Democrazia cristiana" ritorna sul tema scrivendo: "Su questa posizione, che condanna a morte tutti i prigionieri delle Brigate Rosse (ed è pensabile ce ne siano) è arroccato il Governo ... ".
Ignoriamo cosa gli abbiano detto i brigatisti; ma se essi intendevano come sembra - avvalersi del prigioniero per aprire lacerazioni e contrasti nel suo partito e nel sistema democratico, è presumibile, sulla base di quanto si può dedurre da ciò che sino ad oggi si sa, che gli abbiano lasciato credere che gli altri prigionieri fossero già stati liberati. Ciò forse può contribuire a spiegare l'incomprensione che nutriva Moro per la decisione di non accedere allo scambio.
Nella lettera relativa alla vicenda Taviani, l'onorevole Moro iniziava a scrivere "Filtra fin qui la notizia", lasciando ben intendere la eccezionalità della ricezione di una informazione relativa al mondo esterno.
Nella lettera alla DC Moro scriveva a proposito di una lettera della moglie "... la pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna ... ".
Le BR quindi esercitavano il proprio controllo assoluto sulle informazioni del prigioniero ("Mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato" aveva scritto Moro nella prima lettera a Cossiga) privandolo dei dati necessari per avere un esatto quadro di riferimento, dandogli comunicazioni parziali e forse anche inesatte, come potrebbe trasparire dalla questione relativa alla presenza di altri prigionieri nelle mani delle BR. Alcune stranezze nelle lettere surriportate fanno ritenere che esse fossero a volte frutto di un collage di vari pezzi; e questa impressione appare confermata da alcune illogicità, che sono state messe in rilievo anche dal fratello dello statista in un'analisi delle lettere che costituisce forse uno dei più utili contributi a chiarire quale fosse la condizione del prigioniero delle BR.
Ad esempio, nella lettera alla moglie, pubblicata nel volume "L'intelligenza e gli avvenimenti" (Garzanti, 1979), a pagina 405, è aggiunta prima del testo la frase "Sono intatto e in perfetta 7/4/1978 lucidità. Non è giusto dire che non so più capace", che contiene l'incomprensibile inserimento della data della lettera, e l'unico errore ("so" al posto di "sono") che sia rinvenibile nelle pur numerose lettere scritte durante la prigionia.
Deve anche considerarsi che probabilmente, come ogni prigioniero, Moro cercasse di inviare dei messaggi, di far capire lo stato effettivo in cui si trovava, di comunicare qualche informazione sui suoi carcerieri e sul luogo ove era detenuto. La formulazione di questi eventuali messaggi può aver inserito nelle lettere elementi di distorsione o di minore chiarezza qui non distinguibili dagli altri contenuti.
In definitiva, l'unico dato che può considerarsi certo è che le BR, attraverso il dosaggio delle informazioni attraverso la probabile comunicazione di informazioni inesatte, non trasmettendo alcune lettere che il prigioniero riteneva fossero state trasmesse, dando pubblicità a lettere che invece Moro riteneva potessero restare segrete, attuavano una sorta di doppia gestione del sequestro. Attraverso i comunicati informavano delle proprie intenzioni, attraverso Moro cercavano di introdurre elementi di incertezza, di confusione e disorientamento nella DC, nel mondo politico e nella società civile.
Il problema della riconducibilità a Moro delle sue lettere non è però risolvibile in base ad una presunta minor capacità di reazione del prigioniero determinata da violenze, dall'uso di farmaci o da altro, ma in base alla ignoranza da parte del prigioniero di fondamentali dati della situazione.
Le valutazioni, i giudizi, sono suoi, ma sono espressi in una situazione del tutto straordinaria, come egli stesso più volte avverte (1) e nella ignoranza di essenziali circostanze di fatto.
(1)in un passo della seconda lettera a Zaccagnini, Moro scrive: "Ecco nell'Italia democratica del 1978, nell'Italia del Beccaria, come nei secoli passati, io sono condannato a morte. Che la condanna sia eseguita dipende da voi".