Il contenuto delle lettere

Documento aggiornato al 25/02/2004
Nelle lettere inviate dalla prigione delle BR, Moro svolge due tipi di argomenti. Il primo attiene ai suoi rapporti con la famiglia, la moglie, i figli, e questo carattere privato esula dalle analisi e dalle valutazioni che spettano alla Commissione. Il secondo riguarda la sua liberazione.
Sin dalla prima lettera al ministro dell'Interno Cossiga, il Presidente del Consiglio nazionale della DC avvertiva che il sequestro era stato determinato da ragioni che coinvolgevano tutta la DC e non lui soltanto: "In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere". E nella seconda lettera al segretario del suo partito, onorevole Zaccagnini, precisava che la sua prigionia ed i pericoli che correva erano determinati dall'aver accettato di "essere partecipe e corresponsabile della fase nuova che si apriva (l'unità nazionale, n.d.C.) e che si profilava difficilissima"; nella prima lettera allo stesso aveva insistito sulla ragione politica specifica del suo rapimento, che era avvenuto "mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m'ero impegnato tanto a costruire". I motivi, quindi, sono politici, relativi al ruolo della DC nel Paese e alla specifica fase politica della quale era stato protagonista, e quindi era il partito della DC che doveva intervenire per la sua liberazione.
La soluzione - suggeriva Moro fin dalla prima lettera al ministro dell'Interno - era necessaria per evitare danni che potevano ricadere sulla stessa DC. "lo mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato... sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni". E più avanti aveva invitato il ministro dell'Interno ad accedere alla sua proposta, "per evitare guai peggiori".
Questa motivazione non venne più ripresa nelle lettere successive e l'onorevole Moro - come hanno confermato numerose deposizioni, da Peci a Morucci - tenne un comportamento rigoroso nei confronti delle BR. Egli non poteva non aver colto che sue dichiarazioni con effetti destabilizzanti (1), fondate o meno che fossero, gli avrebbero potuto garantire la libertà certo con maggiori probabilità di qualsiasi altra alternativa praticabile. Ma non scelse questa strada; e quindi il senso delle frasi contenute nella prima lettera all'onorevole Cossiga non era certo una sorta di minaccia, bensì un avvertimento all'esterno sul contenuto delle domande dei terroristi che lo avevano sequestrato: da un lato quella frase aveva un aspetto rassicurante ("Sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza"), e dall'altro segnalava quale era l'obiettivo dei terroristi. E il "dominio pieno e incontrollato" che essi avevano su di lui lo spingeva ad avvertire del pericolo.
Nelle lettere successive questo tipo di pericolo delle sue dichiarazioni con effetto destabilizzante non era più menzionato; la situazione era stata forse superata o il prigioniero aveva notato un mutamento di orientamento nei terroristi. Resta la segnalazione di un pericolo per la DC, non più connesso a sue eventuali dichiarazioni, ma al suo omicidio e in termini sempre più drammatici. "Se questo crimine fosse perpetrato - scriveva nella seconda lettera all'onorevole Zaccagnini - si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti". E nella lettera al Presidente del Consiglio, onorevole Andreotti, accennava ad una "lacerazione insanabile" che sarebbe derivata dal suo assassinio. Nella prima lettera all'onorevole Zaccagnini aveva scritto " ... le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone ... ".
In relazione a questi pericoli l'onorevole Moro proponeva lo scambio di detenuti per terrorismo con la sua persona: si trattava di un fatto politico e non umanitario: "Non si tratta scrisse all'onorevole Craxi - di inviti rivolti ad altri a compiere atti di umanità, inviti del tutto inutili, ma di dar luogo, con la dovuta urgenza, ad una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di detenuti politici"; e nella lettera all'onorevole Misasi fu ancora più drastico: "Non illudetevi di invocazioni umanitarie".
Durante i cinquantacinque giorni ciascuna di queste lettere sollecitò apprensioni, speranze e angosce; e fu oggetto di interpretazioni non sempre oggettive e, d'altra parte, la drammaticità della situazione impediva valutazioni distaccate.
Ma fu lo stesso Moro che, nella prima lettera all'onorevole Zaccagnini, dopo aver scritto che la sua proposta era espressa "in piena lucidità e senza aver subito alcuna coercizione della persona", aggiunse: "Tanta lucidità, almeno quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli; che sa che cosa lo aspetti". E il senso complessivo della sua posizione è forse da individuare in un passaggio successivo della stessa lettera, dove avvertiva che aveva svolto il suo dovere "d'informare e richiamare", e aggiungeva, forse intuendo i limiti politici della sua proposta: "Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po' diverso". Nella prima lettera a Zaccagnini aveva segnalato: "Tener duro può apparire più appropriato".
Non si possono esprimere giudizi conclusivi sul contenuto di queste lettere, proprio perché non si sa quanto abbia inciso su di esse il filtro e la manipolazione delle BR mentre è certo che quelle arrivate all'esterno non sono tutte quelle scritte dal prigioniero. Sarebbe del resto incredibile che Aldo Moro non si sia posto almeno una volta il problema della sorte degli uomini di scorta, visto che .più volte è ritornato sul tema della inadeguatezza della Vigilanza sulla sua persona.

(1)Vedi lettere a Cossiga e a Zaccagnini.
 
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