3. La linea della fermezza
Documento aggiornato al 27/12/2004
L'accusa, sia pure velata, che la vita dell'onorevole Moro potesse essere sacrificata ad "astratti principi" era del tutto ingiustificato; del resto questi principi erano riconosciuti intangibili anche dall' "Avanti".
Certamente erano in gioco anche principi fondamentali per ogni società: lo Stato, diventato sempre più rappresentativo di tutti i ceti e delle esigenze della società, non poteva esimersi dal rispettare fino in fondo il principio di legalità, che costituisce uno dei fondamenti della convivenza civile. Il cedimento al ricatto brigatista avrebbe comportato inevitabilmente la patente violazione di norme dell'ordinamento. Avrebbe altresì manifestato clamorosamente la sfiducia dello Stato nei propri mezzi e nei propri apparati e addirittura accreditato l'organizzazione terroristica quale interlocutore dello Stato.
Ma la preoccupazione per l'eventuale violazione di questi principi non era certo basata su astrazioni. Il concreto pericolo che incombeva sulla comunità nazionale era il suo imbarbarimento. Una società nella quale la violenza e il ricatto fossero risultati legittimati e vincenti si sarebbe votata alla disgregazione: in essa la democrazia non avrebbe potuto sopravvivere.
Le drammatiche, angosciose scelte che, in quei giorni, governo, parlamento, forze politiche erano chiamate a compiere non potevano prescindere dalla coscienza della posta in gioco.
Innanzitutto era da tener presente che l'umiliazione dello Stato avrebbe ingigantito il fascino malefico che le BR esercitavano in quella vasta area dell'eversione che, pur non avendo abbracciato la causa della lotta armata, ugualmente considerava la violenza un normale mezzo di lotta politica. Era quindi facilmente ipotizzabile un accrescersi della capacità di proselitismo in favore della lotta armata.
Si sarebbe poi innescata una catena di ulteriori sequestri di persona, una volta che fosse stata dimostrata una disponibilità dello Stato a pagare la salvezza del sequestrato con la liberazione di criminali detenuti. E lo Stato non stava certo dimostrando, in quei giorni, di essere in grado di prevenire altre clamorose azioni dei brigatisti.
Nessuno, comunque, poteva illudersi che, una volta fatto passare il principio della trattativa, questo avrebbe potuto essere revocato di fronte al sequestro del più modesto dei cittadini italiani.
L'effetto di una tale revoca avrebbe avuto conseguenze disastrose, giacché l'accusa di irresponsabile corporativismo avrebbe investito tutte le forze politiche che se ne fossero rese responsabili.
Se è vero che, durante il sequestro Sossi, tale accusa fu lanciata, e proprio da un autorevole esponente del PSI, l'onorevole Paolo Vittorelli (1), ai magistrati di Genova che avevano concesso la libertà provvisoria ai terroristi indicati dalle BR come contropartita per la salvezza del magistrato sequestrato, questa volta l'accusa avrebbe investito, ancor più fondatamente, governo e parlamento. Il sequestro Sossi non aveva comportato la perdita di vite umane, e tuttavia un magistrato coraggioso, il procuratore Coco, si era esposto alla vendetta dei brigatisti, sacrificando poi la sua vita, pur di ripristinare la legalità violata dai suoi colleghi. Ed all'epoca il governo, di cui faceva parte lo stesso onorevole Moro e nel quale era Ministro della giustizia il socialista onorevole Mario Zagari, aveva solidarizzato con Coco e non certo con coloro che, pur nel nobile intento di salvare un collega, avevano emesso un provvedimento aberrante.
A via Fani ben cinque appartenenti alle forze dell'ordine erano stati trucidati e una trattativa con i loro assassini avrebbe certamente provocato conseguenze di incalcolabile gravità: le forze dell'ordine e i magistrati si sarebbero sentiti irrisi e si sarebbero chiesti se avesse senso rischiare la vita per effettuare arresti od emettere condanne destinati ad essere vanificati al primo sequestro: tutti i cittadini si sarebbero chiesti angosciati quale tutela avrebbero avuto le loro libertà.
Inoltre, anche la delinquenza comune avrebbe potuto mutuare dalle BR l'uso del sequestro di persona come mezzo per ricattare lo Stato. Non a caso, quando i magistrati genovesi avevano ceduto al ricatto BR, il quotidiano "La Nazione" aveva maliziosamente intitolato un suo commento a quegli avvenimenti: "Un suggerimento per Liggio".
Come si vede, non erano "astratti principi" quelli che imponevano al Governo ed ai partiti, che con esso concordavano, una linea di fermezza.
E tuttavia va ricordato che governo e partiti che questa linea mantennero, non omisero mai di dichiarare che tutto quello che poteva essere legittimamente fatto per garantire la vita dell'onorevole Moro andava fatto.
Certo si confidava innanzitutto in una maggiore capacità degli apparati dello Stato, magistratura e forze - dell'ordine, per giungere a quella che avrebbe dovuto essere la conclusione naturale della vicenda: la liberazione dell'onorevole Moro.
Né allora poteva essere adombrato il sospetto, successivamente emerso, che i servizi segreti potessero essere negativamente influenzati dalla presenza ai loro vertici di uomini legati ad altra organizzazione segreta i cui progetti politici finivano per essere oggettivamente favoriti dall'azione delle BR.
Comunque, da parte del governo e delle forze politiche che lo sostenevano, si fece tutto quello che era legittimamente possibile per giungere ad una soluzione incruenta della vicenda.
La Commissione ha maturato, attraverso i suoi accertamenti, il convincimento che la salvezza dell'onorevole Moro, ove non assicurata dall'azione degli apparati dello Stato, avrebbe potuto essere ricercata, peraltro senza certezza, solo attraverso una clamorosa resa al ricatto brigatista. Doveva trattarsi, insomma, di una contropartita di tale entità che, certamente anche i sostenitori della tesi della trattativa avrebbero considerato improponibile. Lo stesso onorevole Craxi, del resto, si pronunciò chiaramente contro la richiesta delle Brigate Rosse di ottenere la liberazione di ben tredici detenuti per gravi reati, tra i quali veniva indicato persino Piancone, catturato pochi giorni prima allorché era rimasto ferito mentre partecipava all'assassinio del maresciallo Cotugno.
La conferma della indisponibilità delle BR ad accontentarsi di un gesto umanitario dello Stato, in favore di un detenuto per reati non gravi, è venuta dall'interrogatorio di Valerio Morucci che ha dichiarato alla Commissione di essersi convinto che di fronte a tale ipotesi, giudicata del tutto priva di interesse, le - Brigate Rosse abbiano affrettato l'esecuzione ad evitare che un piccolo gesto di generosità da parte dello Stato creasse ancora maggiori difficoltà di comprensione nell'opinione pubblica per la decisione di assassinare l'onorevole Moro.
Certamente erano in gioco anche principi fondamentali per ogni società: lo Stato, diventato sempre più rappresentativo di tutti i ceti e delle esigenze della società, non poteva esimersi dal rispettare fino in fondo il principio di legalità, che costituisce uno dei fondamenti della convivenza civile. Il cedimento al ricatto brigatista avrebbe comportato inevitabilmente la patente violazione di norme dell'ordinamento. Avrebbe altresì manifestato clamorosamente la sfiducia dello Stato nei propri mezzi e nei propri apparati e addirittura accreditato l'organizzazione terroristica quale interlocutore dello Stato.
Ma la preoccupazione per l'eventuale violazione di questi principi non era certo basata su astrazioni. Il concreto pericolo che incombeva sulla comunità nazionale era il suo imbarbarimento. Una società nella quale la violenza e il ricatto fossero risultati legittimati e vincenti si sarebbe votata alla disgregazione: in essa la democrazia non avrebbe potuto sopravvivere.
Le drammatiche, angosciose scelte che, in quei giorni, governo, parlamento, forze politiche erano chiamate a compiere non potevano prescindere dalla coscienza della posta in gioco.
Innanzitutto era da tener presente che l'umiliazione dello Stato avrebbe ingigantito il fascino malefico che le BR esercitavano in quella vasta area dell'eversione che, pur non avendo abbracciato la causa della lotta armata, ugualmente considerava la violenza un normale mezzo di lotta politica. Era quindi facilmente ipotizzabile un accrescersi della capacità di proselitismo in favore della lotta armata.
Si sarebbe poi innescata una catena di ulteriori sequestri di persona, una volta che fosse stata dimostrata una disponibilità dello Stato a pagare la salvezza del sequestrato con la liberazione di criminali detenuti. E lo Stato non stava certo dimostrando, in quei giorni, di essere in grado di prevenire altre clamorose azioni dei brigatisti.
Nessuno, comunque, poteva illudersi che, una volta fatto passare il principio della trattativa, questo avrebbe potuto essere revocato di fronte al sequestro del più modesto dei cittadini italiani.
L'effetto di una tale revoca avrebbe avuto conseguenze disastrose, giacché l'accusa di irresponsabile corporativismo avrebbe investito tutte le forze politiche che se ne fossero rese responsabili.
Se è vero che, durante il sequestro Sossi, tale accusa fu lanciata, e proprio da un autorevole esponente del PSI, l'onorevole Paolo Vittorelli (1), ai magistrati di Genova che avevano concesso la libertà provvisoria ai terroristi indicati dalle BR come contropartita per la salvezza del magistrato sequestrato, questa volta l'accusa avrebbe investito, ancor più fondatamente, governo e parlamento. Il sequestro Sossi non aveva comportato la perdita di vite umane, e tuttavia un magistrato coraggioso, il procuratore Coco, si era esposto alla vendetta dei brigatisti, sacrificando poi la sua vita, pur di ripristinare la legalità violata dai suoi colleghi. Ed all'epoca il governo, di cui faceva parte lo stesso onorevole Moro e nel quale era Ministro della giustizia il socialista onorevole Mario Zagari, aveva solidarizzato con Coco e non certo con coloro che, pur nel nobile intento di salvare un collega, avevano emesso un provvedimento aberrante.
A via Fani ben cinque appartenenti alle forze dell'ordine erano stati trucidati e una trattativa con i loro assassini avrebbe certamente provocato conseguenze di incalcolabile gravità: le forze dell'ordine e i magistrati si sarebbero sentiti irrisi e si sarebbero chiesti se avesse senso rischiare la vita per effettuare arresti od emettere condanne destinati ad essere vanificati al primo sequestro: tutti i cittadini si sarebbero chiesti angosciati quale tutela avrebbero avuto le loro libertà.
Inoltre, anche la delinquenza comune avrebbe potuto mutuare dalle BR l'uso del sequestro di persona come mezzo per ricattare lo Stato. Non a caso, quando i magistrati genovesi avevano ceduto al ricatto BR, il quotidiano "La Nazione" aveva maliziosamente intitolato un suo commento a quegli avvenimenti: "Un suggerimento per Liggio".
Come si vede, non erano "astratti principi" quelli che imponevano al Governo ed ai partiti, che con esso concordavano, una linea di fermezza.
E tuttavia va ricordato che governo e partiti che questa linea mantennero, non omisero mai di dichiarare che tutto quello che poteva essere legittimamente fatto per garantire la vita dell'onorevole Moro andava fatto.
Certo si confidava innanzitutto in una maggiore capacità degli apparati dello Stato, magistratura e forze - dell'ordine, per giungere a quella che avrebbe dovuto essere la conclusione naturale della vicenda: la liberazione dell'onorevole Moro.
Né allora poteva essere adombrato il sospetto, successivamente emerso, che i servizi segreti potessero essere negativamente influenzati dalla presenza ai loro vertici di uomini legati ad altra organizzazione segreta i cui progetti politici finivano per essere oggettivamente favoriti dall'azione delle BR.
Comunque, da parte del governo e delle forze politiche che lo sostenevano, si fece tutto quello che era legittimamente possibile per giungere ad una soluzione incruenta della vicenda.
La Commissione ha maturato, attraverso i suoi accertamenti, il convincimento che la salvezza dell'onorevole Moro, ove non assicurata dall'azione degli apparati dello Stato, avrebbe potuto essere ricercata, peraltro senza certezza, solo attraverso una clamorosa resa al ricatto brigatista. Doveva trattarsi, insomma, di una contropartita di tale entità che, certamente anche i sostenitori della tesi della trattativa avrebbero considerato improponibile. Lo stesso onorevole Craxi, del resto, si pronunciò chiaramente contro la richiesta delle Brigate Rosse di ottenere la liberazione di ben tredici detenuti per gravi reati, tra i quali veniva indicato persino Piancone, catturato pochi giorni prima allorché era rimasto ferito mentre partecipava all'assassinio del maresciallo Cotugno.
La conferma della indisponibilità delle BR ad accontentarsi di un gesto umanitario dello Stato, in favore di un detenuto per reati non gravi, è venuta dall'interrogatorio di Valerio Morucci che ha dichiarato alla Commissione di essersi convinto che di fronte a tale ipotesi, giudicata del tutto priva di interesse, le - Brigate Rosse abbiano affrettato l'esecuzione ad evitare che un piccolo gesto di generosità da parte dello Stato creasse ancora maggiori difficoltà di comprensione nell'opinione pubblica per la decisione di assassinare l'onorevole Moro.
Annotazioni − (1) Vedi" Corriere della Sera" del 24 aprile 1974.